Presente e futuro della più grande compagnia al mondo che si occupa di open source, dopo il ritorno all’indipendenza
Nel giro di un mese, Suse ha vissuto cambiamenti che ne tracceranno sicuramente il domani. Prima di tutto, si è conclusa la mossa di acquisizione da parte di EQT, il fondo di crescita che ha portato sotto il suo cappello l’azienda prelevandola da Micro Focus. Una strategia che, di fatto, rende Suse nuovamente indipendente perché libera di proseguire i propri progetti non dovendo sottostare a una guida di una compagnia software ma di un capitalista a cui, giustamente, interessa l’apertura verso ulteriori mercati e il consolidamento dei già raggiunti.
La seconda novità è la nomina di Carlo Baffè quale nuovo Country Manager di Suse Italia, un ruolo che, oltre al dovuto merito, è anche un attestato di stima verso un professionista che segue la storia di Suse da anni, praticamente da prima del passaggio a Novell, nel novembre del 2003. «In quegli anni, Linux era una piattaforma certamente lontana dalla diffusione e strutturazione che ha adesso» ci dice Baffè. «Non abbiamo mai realmente perso la nostra indipendenza ma è evidente che oggi, col passaggio in EQT (avviato mesi fa) ci sentiamo ancora più liberi di puntare sulla forza che ci ha contraddistinto da sempre, quella dell’open source puro».
La differenza sta proprio in quel “puro”. Un conto è realizzare piattaforme e software che, una volta distribuiti, non godono più delle necessarie implementazioni, aggiornamenti e supporto, un altro poter contare su una community, interna ed esterna, solida e stabile ma ancora flessibile da poter lavorare seguendo i consigli e i suggerimenti degli utenti finali, di qualunque tipologia essi siano. La scelta di dare a Carlo Baffè le redini della compagine italiana segue la logica della continuità che da sempre segna l’evoluzione, orizzontale e verticale, di Suse, in Italia e all’estero. Per rendersi conto della curva di crescita di Suse in Italia basti pensare che il 30% delle risorse attuali nel nostro Paese sono state assunte negli ultimi 12 mesi. E i piani per integrare nuove risorse non sono mica finiti.
«Il software non si crea da solo. Abbiamo bisogno di sviluppatori e ingegneri, di persone che credono nell’open source e nell’importanza che questo può dare al mondo applicativo; un modello di sviluppo condiviso, trasparente e alla luce del sole, stimolante e impegnativo. Ogni giorno ci mettiamo la faccia, esponendo al pubblico il frutto del nostro lavoro. Siamo tra i pochi che non vogliono inventare nuove modalità di accesso alle offerte ma paradigmi più semplici con cui portare le soluzioni Suse a tante altre imprese».
Ma il domani di Suse Italia, se possibile, è ancora più roseo. La strategia di business prevede delle acquisizioni, leggermente differenti da quelle del passato. Se finora infatti la compagnia ha portato dalla sua dei piccoli mattoncini, realtà contenute che soddisfacessero bisogni limitati, ora la posta in gioco si è alzata e guarda a concetti quali DevOps, intelligenza artificiale, machine learning. Il tutto per integrare ancora di più l’open source nei flussi applicativi dei clienti. «Se una delle domande che i CFO si pongono è quanto costa spostare questa applicazione da uno all’altro servizio, spesso non ci si rende conto che effettuare tale operazione non è così semplice, magari non lo è per niente. Quello che vogliamo fare è allora rispondere a: posso spostare quest’app da un servizio cloud all’altro? Certo che sì, e un dubbio del genere non dovrebbe nemmeno più esistere, quando ciò che hai in portafoglio è una piattaforma aperta che fa da collante multilivello, anzi, come si suol dire oggi, multicloud».