Non hai talento artistico? Ci pensa una macchina

opere create attraverso l’intelligenza artificiale

Algoart e artisti robot. Le opere create attraverso l’intelligenza artificiale sono frutto dell’ingegno umano o della potenza algoritmica di una macchina?

Ho una madre pittrice e un fratello che ha un grande talento nella pittura. Faceva incetta di premi e di riconoscimenti sin da bambino. Ho ancora un suo quadro. Un autoritratto di Van Gogh. Ed è grazie a lui che in casa c’era già un computer (Olivetti PC 128) quando sono nato. Lo aveva vinto lui. E il Van Gogh? È identico all’originale e lo fece a soli 10 anni. Poi è partito per andare a studiare a Venezia e adesso è un architetto, ma non dipinge più. Spero sempre che un giorno ritrovi la passione di un tempo o che si risvegli il suo “demone interiore”. Io invece non ho mai saputo disegnare. Credevo di riuscire a mostrare sul foglio le immagini che mi passavano nella testa. Un anziano. Una macchina. Anche un semplice albero. Ma niente. Mia madre ci provava a incoraggiarmi in tutti i modi, ma niente. Non mi riusciva di copiare dal vero. Se non scarabocchi o figure geometriche. Sì, in quelle ero veramente bravo. Ma avevo bisogno di una riga. Non sapevo disegnare a mano libera. E non so disegnare ancora. Ma chissà, forse potrei diventare un pittore scrivendo codice e allenando un algoritmo di intelligenza artificiale per sistemare i miei scarabocchi. Sí, perché adesso è possibile non avere talento e farselo prestare da una macchina. Come? Usando dei modelli generativi di machine learning chiamati Generative Adversial Networks (GAN) o la “versione aggiornata” Deep Convolutional Generative Adversarial Network o DCGANs.

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Ma andiamo con ordine. Due combinazioni di intelligenze artificiali competono tra loro per generare dei dati – come se fossero quadri – dal nulla. A un algoritmo viene affidato il compito di realizzare un quadro artificialmente a partire da un database di migliaia di immagini di opere d’arte vere, realizzate da un pittore umano. All’altro algoritmo invece viene dato il ruolo di giudice, che, di volta in volta, deve decidere se ogni nuova opera d’arte sia stata realizzata da un essere umano, quindi, reale o altresì da una macchina… Il quadro è concluso nel momento in cui il “discriminatore”, ovvero il secondo algoritmo, non riesce più a riconoscere se il quadro che gli viene proposto sia stato realizzato da un essere umano o da un’intelligenza artificiale.

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PATERNITÀ DELL’OPERA D’ARTE

O meglio, qualcuno è disposto a comprarli? Sembrerebbe proprio di sì. Un quadro – il ritratto di Edmond de Belamy – realizzato da un’intelligenza artificiale è stato venduto all’asta da Christie’s per un valore di oltre 400mila dollari. Ora vi chiederete – ed è normale che lo facciate – chi ha la proprietà di un quadro creato dall’intelligenza artificiale? Io non sono un legale e ho pensato di parlarne con Francesca di Lazzaro, cultrice della materia “Diritto industriale e delle telecomunicazioni” all’università LUISS Guido Carli. Prima di tutto, al fine di conferire protezione a un’opera, Francesca afferma che il diritto d’autore, parte da un – «unico, imprescindibile e costante presupposto, ossia che l’opera sia originale». E qui ci siamo.

Ma in assenza di un piano normativo definito, non si può omettere di analizzare i concetti di eterodirezione e autodeterminazione: «Sono molteplici i soggetti che a vario titolo si inseriscono nel processo creativo per la creazione di opere tramite diverse forme di intelligenza artificiale e diverso è anche l’apporto che ciascuno di essi conferisce alle stesse, tuttavia ciò che viene protetto non sono i singoli passaggi ma semplicemente il risultato finale». Supponiamo dunque, per semplificare, due modalità di interazione. E consideriamo la prima ipotesi in cui un programmatore decida di realizzare un sistema in grado di autoapprendere, a fronte di un quantitativo di dati inseriti e utilizzati dal sistema di intelligenza artificiale solo come base, per poi costituire in via del tutto autonoma un’opera d’arte. «In questo caso, la titolarità spetterebbe al sistema di intelligenza artificiale ma, a oggi, non sembra ancora possibile ritenere i sistemi totalmente autonomi» – spiega Francesca di Lazzaro. E partendo da questa ipotesi, mi viene da pensare che non ci sia solo il programmatore però. Non c’è solo chi scrive il codice. Ma una pluralità di agenti, meglio forse dire soggetti. Si spazia dai pittori che hanno generato i quadri studiati, all’algoritmo che giudica, passando per l’altro che invece genera e rigenera nuove opere.

Nella seconda ipotesi, passiamo a considerare dei sistemi progettati e programmati ai quali vengono forniti dei database dai quali gli stessi sistemi elaborano informazioni al fine di costituire qualcosa di nuovo, seguendo dei pattern predeterminati: «In questo caso – continua Francesca di Lazzaro – non possiamo parlare di autodeterminazione in quanto l’influenza dell’essere umano è ancora preponderante. In tali fattispecie, si può ipotizzare di regolare la paternità come rapporto di contitolarità sull’output (per es. un quadro) eventualmente creato o, in alternativa, come rapporto di lavoro su commissione regolato dalla legge sul diritto d’autore. Tale soluzione risulta essere quella preferita dai sistemi anglosassoni che definiscono le opere create da intelligenze artificiali quali “work for hire”lavori eseguiti da sistemi di intelligenze artificiali ma su commissione e istruzioni di essere umani. Quanto argomentato risulta sicuramente compatibile in un contesto di “weak technology” (quale quello odierno) ma, di più difficile applicazione, davanti a forme di “strong technology” che avranno autonomia di apprendimento e di scelta».

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Il Giappone ha fatto invece una scelta diversa, e tramite la Società Giapponese per l’intelligenza artificiale (JSAI), nel 2017 ha provveduto a redigere dieci articoli che regolano le interazioni tra i programmatori o progettatori di sistemi di intelligenze artificiali. «In uno degli articoli – mette in evidenza Francesca di Lazzaro – i giapponesi si riferiscono direttamente alle “intelligenze artificiali”, imponendo loro il rispetto delle disposizioni etiche disciplinate e considerandoli quindi come soggetti autonomi in grado di prendere decisioni non eterodirette, prevedendo anche la possibilità di considerarli membri della società, o quasi. Stante questa previsione, in questo contesto, appare difficile dubitare della possibilità di attribuire personalità giuridica e, dunque, possibilità di attribuire a intelligenze artificiali anche il diritto di paternità di un’opera d’arte eventualmente creata».

UMANO E ARTIFICIALE

Mi ritorna in mente il quadro venduto per oltre 400mila dollari. Gli sviluppatori avevano pensato davvero a tutto. E l’intelligenza artificiale ha lasciato anche una bella impronta difficile da nascondere. Una firma. E che firma. Una formula. Ma a quanto pare per il diritto quella firma non ha alcun valore. Il pittore? Semplicemente non esiste o meglio è un insieme di pittori. Tornando alla tecnologia, questi algoritmi non sono solo in grado di creare quadri, ma anche foto, videogiochi o musica. Le foto possono essere generate da sole e senza che l’occhio umano riesca a rendersi conto se siano vere oppure no. Immaginate di innamorarvi di una ragazza creata artificialmente, dietro un profilo Instagram, e che vi risponde grazie a un chatbot? Non sarebbe un incubo? E non è un film. Magari esiste già. E pensate di dedicarle una canzone. Anche quella creata dall’intelligenza artificiale. Ups, altro che diritto. Altro che futuro. Credo che stiamo vivendo in una fase dove l’artificiale e il fattore umano sfumano prendendo di volta in volta la sembianza dell’uno o dell’altro. Magari sarà sempre così. Così come è sempre stato. La tecnologia che ci abbraccia e viceversa. Senza dover per forza averne paura. L’intelligenza artificiale è comunque un prodotto della natura e di tutti noi.

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