Le telecamere della Polizia metropolitana di Washington hackerate e utilizzate come rampa di lancio per “sparare” messaggi di posta elettronica carichi di ransomware
C’è poco da fare. In America sono più avanti. Anche negli arrivi degli stranieri, la selezione è molto più severa. Dalle nostre parti, per esempio, se arriva una ragazza rumena le ipotesi di impiego sono ristrette a due figure prevalenti. Le giovani donne che giungono da Bucarest, Timisoara o altre località di quella regione – inseguendo il miraggio di una vita migliore – si ritrovano spesso, loro malgrado, a esercitare il mestiere più vecchio del mondo o ad accudire le persone più anziane del Paese che le ospita.
Il sogno americano, però, sopravvive. Oltre oceano, le fanciulle che giungono dalla Romania non incontrano limiti dal destino altrove segnato irrimediabilmente. È la storia di Eveline, Eveline Cismaru. È l’avventura che dimostra che da quelle nazioni può arrivare chi infrange certi stantii stereotipi che condizionano ogni atteggiamento quotidiano e che sclerotizzano la nostra difficoltà ad aprire verso nuovi scenari. Eveline ha compiuto da poco 28 anni e il suo “personale” lascerebbe immaginare potenzialità basate sul fascino dell’Est europeo. Niente affatto: la giovane è destinata a farsi conoscere non per la sua beltà. E ci riesce clamorosamente.
Proprio in questi giorni, la sua epopea è giunta al capolinea: le sue rocambolesche azioni si sono chiuse con una rassegnata ammissione di colpa. Il suo “è vero, sono stata io” non si riferisce al piccolo furto in qualche appartamento in cui prestava servizio come badante. Non ha dato prova di destrezza in casa di qualche datore di lavoro. Non lo avrebbe mai fatto, magari per timore che qualche telecamera nascosta la potesse incastrare. Lei, infatti, di quegli aggeggi infernali ha una discreta competenza e sa bene che certi apparati di ripresa video possono essere fonte di un mare di guai.
Eveline Cismaru è stata arrestata il 15 dicembre scorso all’aeroporto di Otopeni, lo scalo di Bucarest. Era appena scesa da un volo che la riportava in patria, al ritorno non da una vacanza ma da una “missione” lavorativa. Il provvedimento restrittivo, come dicono abitualmente le cronache giudiziarie, è scattato in virtù di una corposa richiesta di metterla in manette redatta dalle autorità del District of Columbia. Gli organi investigativi americani hanno individuato, in lei e in un suo socio, la responsabilità di un incredibile attacco informatico risalente a pochi giorni prima del giuramento dell’allora neopresidente Donald Trump.
La scena del crimine – lo si sarà intuito – è Washington. Non una localizzazione vaga, Washington e basta. Non c’è un indirizzo più preciso o un quartiere circoscritto. Ed è ovvio che sia così. Eveline ha hackerato 123 delle 187 telecamere ad altissima risoluzione sparse nella città e – prima del suo intervento – adoperate dal dipartimento della Polizia metropolitana della capitale. Se l’accecamento dei dispositivi di ripresa di aree sensibili è già una prodezza degna di menzione, il bello deve ancora venire.
Eveline Cismaru e il suo connazionale venticinquenne Mihai Alexandru Isvanca hanno approfittato della breccia operata nelle misure di sicurezza, che avrebbero dovuto tutelare i sistemi di videosorveglianza, per trasformare ciascuna telecamera conquistata in una sorta di rampa di lancio. Niente paura, non c’è nessun missile nella loro vicenda: gli apparati televisivi a circuito chiuso hanno solo “sparato” messaggi di posta elettronica carichi di ransomware a 179.617 indirizzi email. Gli stessi computer della polizia erano stati infettati da varianti di “Cerber” e “Dharma” che richiedevano il pagamento di 60.800 dollari per restituire il normale controllo delle telecamere ormai nelle mani sbagliate.
La contaminazione digitale fortunatamente è stata debellata in cinque giorni, giusto in tempo per evitare sorprese nel corso della cerimonia di Trump, ma i capi di imputazione nei confronti di Eveline e Mihai Alexandru sono proporzionali alla gravità della loro pesante bricconata. Venticinque anni di reclusione non corrispondono all’happy end che loro avevano immaginato quando sono saliti sull’aereo per tornare a casa.