La digital transformation e l’evoluzione delle tecnologie stanno mutando le dinamiche delle imprese. Nuovi modi di lavorare, di gestire le risorse umane e i processi aziendali richiedono la formazione di persone pronte ad affrontare il cambiamento
Più smart, più collaborativo e mobile, più social, più automatizzato e con una migliore interazione tra persone e macchine, più attento alla gestione di informazioni create in quantità e a ritmi sempre più elevati. Sono questi, in sintesi, i concetti a cui si potrebbe pensare per rispondere alla domanda: come sarà il lavoro del futuro? E se in tempi più lontani, o forse non troppo, alcune attività attuali potranno scomparire ed essere sostituite da processi lavorativi non ancora immaginabili, è innegabile che sin da ora il mondo del lavoro sia in forte cambiamento. La digital transformation sta mutando le dinamiche delle imprese, in termini di nuovi modi di lavorare e di automatizzazione dei processi. Per IDC, entro il 2023, in Europa, più di due terzi dei manager gestirà una forza lavoro non più vincolata a limiti di ubicazione e di tempo, mettendo sotto pressione il diritto del lavoro europeo (in particolare la direttiva sull’orario di lavoro 2003/88/CE). Inoltre, più di un terzo delle imprese doterà la propria forza lavoro con dispositivi indossabili e di augmented reality/virtual reality che permetteranno di migliorare la sicurezza, accrescere le capacità e la produttività delle persone. Ancora, oltre metà delle aziende sarà gestita da moderne piattaforme di endpoint unificate in grado di stabilire coerenti criteri di monitoraggio e controllo su tutti i dispositivi. Nuovi modi di lavorare influenzati anche dalla possibilità di usare, o dalla necessità di gestire, tecnologie più evolute richiedono già oggi un ripensamento dell’organizzazione aziendale
CRESCE LO SMART WORKING
Lo smart working sta crescendo sempre più, introducendo cambiamenti nella cultura delle imprese. In Italia, il 2017 sarà ricordato come l’anno di regolamentazione a livello legislativo dello smart working (la legge n. 81 del 22 maggio 2017 contiene le norme per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e le misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato). Secondo Daniela Rao, senior research & consulting director di IDC Italia, fino a un anno fa le imprese italiane identificavano il paradigma dello smart working con soluzioni di comunicazione e dispositivi per lavorare in movimento e fuori dalle sedi aziendali. Oggi, il panorama si è ampliato e si intravedono nuove prospettive in cui il lavoro in mobilità o da remoto entra nella prassi quotidiana, mentre le soluzioni tecnologiche di enterprise mobility si estendono includendo nuovi processi aziendali e la digitalizzazione degli ambienti fisici di lavoro. Per IDC, quasi il 60% delle aziende italiane ha adottato forme di flessibilità contrattuale del lavoro e in oltre il 44% delle imprese i dipendenti possono lavorare da remoto e/o con dispositivi mobili. Nelle realtà di dimensioni più contenute, cresce la sensibilità al cambiamento del contesto di mercato e la predisposizione ad adottare strumenti per una maggiore flessibilità e produttività individuale, superando le tradizionali barriere contrattuali. L’attenzione si è spostata sul risultato, sempre meno sono i vincoli rigidi in termini di orari di lavoro e luogo da cui si agisce. Anche l’ultima rilevazione dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano evidenzia che lo smart working in Italia è in crescita. Sono però ancora pochi i progetti finalizzati a un ripensamento dei modelli di organizzazione del lavoro, volti a estendere a tutti i lavoratori flessibilità, autonomia e responsabilizzazione.
L’Osservatorio definisce smart worker i lavoratori che godono di autonomia e flessibilità nell’organizzazione del proprio lavoro in termini di luoghi, orari e strumenti da utilizzare per lavorare e che non necessariamente hanno stipulato un accordo formale con il loro datore di lavoro. Secondo l’Osservatorio, sono 305mila gli smart worker italiani, l’8% del totale dei lavoratori, che mostrano una maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e competenze digitali più alte rispetto alla media. (In questa cifra, sono stati però considerati solo impiegati, quadri e dirigenti di organizzazioni pubbliche o private con più di 10 addetti, mentre non sono inclusi operai, liberi professionisti e dipendenti di micro aziende). Il 36% delle grandi imprese italiane ha già avviato progetti strutturati di smart working, mentre tra le PMI il 22% ha progetti talvolta informali di smart working e il 7% progetti strutturati. Per Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working, i benefici derivati da questa modalità lavorativa sono molti: «Abbiamo stimato che l’adozione di un modello maturo di smart working produca un incremento di produttività per le imprese pari a circa il 15% per lavoratore, che a livello di sistema paese significano 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi. Per i lavoratori, un solo giorno a settimana di remote working può far risparmiare in media 40 ore l’anno di spostamenti e consente una riduzione di emissioni pari a 135 kg di CO2 l’anno».
UN POSTO DI LAVORO DIGITALIZZATO
Ma al di là del lavorare in modalità smart working, portare con sé ovunque le proprie informazioni di lavoro è diventato essenziale un po’ per tutti i lavoratori. Smartphone e tablet con lnternet e posta elettronica integrata hanno costituito il primo passo. Ora – come spiega Daniela Rao di IDC Italia – la nuova frontiera è la digitalizzazione del posto di lavoro, dove le piattaforme di comunicazione aziendale si evolvono diventando parte delle tecnologie per gestire gli ambienti di lavoro, cambiando regole di comunicazione e di comportamento. In contesti popolati da lavoratori in movimento, con device e app sempre più numerosi ed eterogenei, le postazioni fisiche sono sostituite dalle piattaforme di digital workspace, spazi di lavoro online dove ogni lavoratore accede alle proprie informazioni indipendentemente dal luogo, dal momento o dal dispositivo usato. Il paradigma workspace sostituisce quello della postazione fisica di lavoro: «Il focus si sposta su “chi sei/cosa fai” rispetto al “quando entri/quando esci/dove sei”».
Secondo IDC, sono ancora poche le aziende che usano tecnologie innovative per ridisegnare gli spazi fisici di lavoro. Le grandi e medie imprese si stanno muovendo per prime, con l’obiettivo di digitalizzare i processi e razionalizzare i costi gestionali delle sedi aziendali. In queste imprese aumenterà il focus sulle applicazioni che facilitano la collaborazione dell’intera business community e la velocità esecutiva dei processi operativi e decisionali. Sin da ora nelle grandi aziende, in cui molti addetti lavorano in mobilità o da remoto, sono sparite le postazioni individuali e si sono moltiplicati spazi per la collaborazione (meeting room, sale per videoconferenza, spazi comuni anche per i momenti di pausa). I dispositivi e le soluzioni tecnologiche per la comunicazione wireless indoor e outdoor sono diventati l’infrastruttura di base del sistema delle comunicazioni aziendali.
HUMAN & ARTIFICIAL
Nelle aziende in evoluzione c’è un connubio che sintetizza le tendenze che stanno emergendo nel mondo del lavoro e che contraddistinguerà sempre più il lavoro del futuro: quello rappresentato dai termini human & artificial. In uno scenario caratterizzato da questo abbinamento, sarà indispensabile ripensare le organizzazioni e la gestione del capitale umano, in un’ottica di integrazione e di empowering e non di sostituzione, consentendo a persone e macchine di lavorare meglio. Il machine learning, che permette sempre più a PC e altri dispositivi di apprendere informazioni direttamente dai dati, sembra – a prima vista – portare a una riduzione dell’importanza del capitale umano in azienda, ma considerando il fenomeno in modo meno superficiale, potrebbe valorizzare figure professionali con competenze diverse e più complesse rispetto a quelle oggi presenti nelle imprese.
Secondo l’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, da più parti si sollevano timori sulle ripercussioni negative dell’intelligenza artificiale (AI) sull’occupazione. Dalle analisi condotte dall’Osservatorio emergono tre segnali incoraggianti. Innanzitutto, la domanda di lavoro nei progetti di artificial intelligence è cresciuta. Inoltre, le soluzioni di AI sono usate più come leva competitiva esterna per migliorare i servizi e la qualità che non come strumento per aumentare l’efficienza interna. Infine, le imprese selezionano attentamente i progetti da attivare, considerando sia i benefici attesi sia l’accettabilità dell’innovazione. «Il problema non è quello della progressiva sostituzione uomo-macchina per lavori usuranti, ma la possibilità che alcune tecnologie possano rendere superfluo il contributo di alcuni lavoratori» – commenta Daniela Rao di IDC Italia. «Anche se non è chiaro quanto grande sarà l’impatto socio-economico di quest’evoluzione sul lungo termine, le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale possono già ora aumentare le potenzialità e l’efficienza delle figure professionali con competenze organizzative, specialistiche o creative, generando nuovi modelli operativi e valore economico». Siamo all’inizio di una rivoluzione tecnologica e culturale, che porterà alla produzione industriale automatizzata e interconnessa, dove la differenza competitiva sarà legata alla capacità di usare le informazioni per creare valore, aprire nuovi mercati, far dialogare uomini e macchine, razionalizzare i costi e ridurre gli sprechi.
TECNOLOGIE E HR
Secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, i dipartimenti HR delle aziende sono sempre più consapevoli della trasformazione digitale in corso e dei passi da compiere per adeguarsi ai cambiamenti imposti dalle nuove tecnologie. Il 60% dei 170 HR executive di società italiane medio-grandi, coinvolti nella ricerca 2018 dell’Osservatorio, dichiara una crescita degli investimenti digitali a supporto dei processi HR rispetto al 2017, trainata da interventi a sostegno della formazione e dei processi di employer branding e selezione. Tra i progetti più innovativi ci sono quelli basati su tecnologie social, mobile, artificial intelligence e analytics. I social sono tra le tecnologie più usate nell’acquisizione dei talenti. Quasi metà delle aziende usa anche social network non professionali per iniziative di employer branding e recruiting. Le direzioni HR utilizzano pure le tecnologie mobile, in prevalenza nella formazione. Dalla ricerca emerge che il 52% del campione ha già introdotto o introdurrà quest’anno app e strumenti di micro-learning per gestire la formazione in modo capillare e in tempi rapidi.
Più limitata è la diffusione di sistemi di analytics evoluti, per fare analisi predittive e prescrittive, presente solo in un terzo del campione intervistato. Le principali aree di applicazione sono quelle in cui i dati sono più strutturati e meno complessi e si riferiscono, per esempio, al livello di assenteismo, a performance e turnover. Ancora minoritario è l’uso di tecnologie di artificial intelligence a supporto della gestione delle risorse umane. Gli ambiti sui quali ci si sta concentrando riguardano lo screening dei candidati, su cui entro il 2018 il 10% delle organizzazioni attiverà iniziative e il supporto ad attività amministrative (8%). Questi progetti sono una risposta alla necessità di gestire le candidature, riducendo il tempo dedicato dai referenti HR a svolgere attività ripetitive.
Anche per IDC Italia la trasformazione digitale influisce sul modo di lavorare in area risorse umane. «Oggi – riscontra Daniela Rao – il top management e i manager HR devono continuamente gestire i cambiamenti nelle aree di lavoro e nei processi, per supportare team di lavoro estesi a tutto il mondo. Devono riflettere sulla flessibilità, cambiando team e ruoli, gestire i processi di lavoro coinvolgendo fornitori, clienti e partner, favorire la comunicazione tra persone e macchine». Secondo IDC, l’area HR sta dando priorità a tre processi chiave nell’acquisizione di talenti: selezione e screening dei candidati, loro valutazione e nuove assunzioni. La sfida è complessa: le organizzazioni vogliono assumere meglio a più velocemente e questo costringe le direzioni HR a gestire troppe variabili in una sola volta. «Per creare un equilibrio tra aspettative di business a breve termine (velocità) e le esigenze di business a lungo termine (qualità), l’HR dovrà dare priorità agli elementi più strategici di acquisizione di talenti e dimostrare l’impatto che questi elementi hanno sulla qualità e sulla velocità» – spiega Daniela Rao. In un contesto di ridefinizione del workspace, gli aggiornamenti tecnologici devono essere più favorevoli all’efficienza individuale e aziendale. Anche la sicurezza è importante in un contesto di lavoro evoluto, non solo per i dipartimenti risorse umane, ma per tutta l’azienda. «La sicurezza – continua Daniela Rao – è tra le priorità per gli investimenti sulla mobilità e sul digital workplace nel 2018, ma bisogna superare gli strumenti di sicurezza stand-alone che interrompono i dati su più sistemi, limitando la visibilità e creando silos che perpetuano pratiche di sicurezza legacy e reattive. Le soluzioni innovative consentiranno agli utenti di connettere le loro tecnologie di sicurezza, offrendo loro una visione più approfondita e un’automazione più ricca nel loro spazio di lavoro digitale».
NUOVI RUOLI LAVORATIVI
In uno scenario in mutamento cambiano anche i ruoli dei lavoratori. Per IDC, nel passato, i business leader hanno guardato al capitale finanziario come risorsa più importante. Oggi, siamo entrati in un’economia dove il valore più importante è rappresentato dalle informazioni, mentre i dati sono creati a un ritmo senza precedenti. Secondo i dati diffusi da AICA, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, da febbraio 2013 ad aprile 2017 è cresciuta del 280% la richiesta di figure professionali quali data scientist, cloud computing expert, business intelligence analyst, big data analyst, social media marketing expert. Non solo, in base ai risultati della ricerca Top skill 2018, diffusi di recente da LinkedIn, risulta che le competenze più richieste sono quelle legate al cloud e al calcolo distribuito, all’analisi statistica e dei data mining, al software middleware e di integrazione, all’architettura web e ai framework di sviluppo. In abbinamento a queste competenze, sono ricercate anche soft skill come capacità di leadership, di comunicazione, di collaborazione, di team management.
Ma, secondo AICA, in uno scenario di cambiamento tutte le professioni devono evolvere. Se i professionisti delle tecnologie digitali sono apprezzati dalle imprese quando hanno anche soft skill e competenze business, nelle professioni non strettamente tecnologiche sale la necessità di competenze digitali, soprattutto nelle aree HR, contabilità e marketing. La quarta edizione dell’Osservatorio delle Competenze digitali, promosso da AICA, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia con il supporto di CFMT, Confcommercio, Confindustria e in collaborazione con MIUR e AgID, conferma che l’importanza delle competenze digitali continua a crescere. Nell’industria, il fenomeno è più evidente: nelle professioni di supporto e management mediamente il 20% di competenze necessarie è di tipo digitale; per le figure core il valore è del 17%, con punte più elevate nella produzione, progettazione, ricerca e sviluppo, nel marketing e nella gestione delle risorse umane.
«Non ci sono ruoli professionali che devono gestire il cambiamento, tutti i ruoli professionali devono cambiare» – spiega Franco Patini, presidente della sezione Lazio di AICA. «Tutti i lavori devono mantenere in modo forte le competenze che li caratterizzano, ma devono anche integrare in percentuali sempre più elevate competenze digitali. Per esempio, i disegnatori industriali, oggi devono avere il 21% delle loro competenze in area digitale; gli statistici e i matematici il 32%. O ancora, i dirigenti HR, che tradizionalmente provengono da percorsi di studi umanistici, devono avere il 38% delle loro competenze in campo digitale».
TRAINING E NON SOLO
A fronte di un mondo del lavoro in evoluzione, i dipartimenti risorse umane hanno due carte da giocare: la formazione del personale e l’assunzione di talenti. Secondo i dati dell’Osservatorio HR, la principale sfida per l’anno in corso è lo sviluppo di culture e competenze digitali. Per rispondere alle necessità della digital transformation, il 63% delle direzioni HR avvierà attività di formazione nel corso dell’anno e il 61% iniziative relative ai processi di ricerca e selezione del personale. «Il 79% delle imprese italiane è orientato principalmente a percorsi di formazione per le risorse esistenti» – dichiara Daniela Rao di IDC. «Il dato risente, ma non solo, della difficoltà di ricercare profili non ancora diffusi nel mercato del lavoro. La battaglia competitiva nei nuovi scenari si gioca anche sulla capacità di riqualificare e valorizzare talenti e skill esistenti che, a partire dalla funzione IT, saranno sempre più determinanti nell’affermazione di una cultura d’impresa nell’era digitale».
Considerando il numero di ore destinate alla formazione, le aziende potrebbero, probabilmente, fare di meglio. Secondo IDC, il 36% delle imprese italiane nell’ultimo anno ha erogato meno di 4 ore di formazione per addetto, il 30% ne ha erogate da 4 a 8, e il 7% ha investito da 8 a 16 ore. Questa tendenza è più evidente nelle micro imprese. Ragioni dimensionali, ma anche il contesto, gli obiettivi, la pianificazione non strutturata consentono di interpretare questa dinamica. Crescendo in dimensioni, la situazione migliora: il 55% delle PMI ha erogato almeno 4 ore di formazione per addetto, dato che sale al 66% per le medie e al 77% per le grandi imprese. Tra queste ultime quasi una su quattro ha erogato oltre 16 ore di formazione per ogni lavoratore.
FORMARE TALENTI
Accanto alla formazione dei dipendenti, si pone anche un’altra questione, quella della preparazione di giovani di talento, i veri protagonisti dell’azienda del futuro. La collaborazione tra imprese, università e scuole all’interno di progetti in grado di contribuire allo sviluppo delle competenze necessarie al lavoro del futuro è il vero nodo fondamentale. Secondo Franco Patini di AICA la formazione a largo spettro nasce nella scuola e nell’università, ma l’ultimo miglio del percorso di formazione deve essere fatto dall’azienda. «Non si può pretendere –afferma il presidente della sezione Lazio di AICA – che un giovane diplomato o laureato abbia tutta la formazione digitale di cui l’impresa ha bisogno: sarà l’azienda a formarlo sulle tecnologie specifiche utilizzate al proprio interno. Vedo collaborazione costruttiva tra i mondi della scuola e del lavoro, quello che manca in Italia è l’azione di sistema, una visione d’insieme. A volte, manca la formazione di qualità che nasce investendo in contenuti solidi, utili ovunque. L’aggressione ai sistemi formativi, tipico di alcune imprese che vorrebbero portarsi a casa il ragazzo completamente pronto per il loro lavoro è sbagliata e ingiusta – continua Patini – perché questo non è il compito della scuola e dell’università, che devono rendere disponibili giovani in grado di riadattarsi a un mercato del lavoro molto dinamico. C’è impegno da parte dei docenti, ma manca un’azione di sistema tra Regioni, ministero della Pubblica Istruzione e del Lavoro per tracciare un quadro sulle competenze da perseguire e su dove perseguirle». Secondo Patini, un canale di istruzione valido, ma poco conosciuto, è per esempio quello degli istituti tecnici superiori (ITS), percorso di formazione alternativo alla laurea triennale, finalizzato alla formazione di specialisti in vari ambiti industriali su competenze richieste dalle aziende.