La potenza dell’AI sta rivoluzionando la ricerca in ambito medico e scientifico. Le prossime scoperte saranno in questi ambiti grazie all’integrazione dell’intelligenza delle macchine e degli scienziati
Cambridge. Luglio 2018. Un gruppo di studenti è impegnato in una “battle” a suon di intelligenza artificiale (AI). I gruppi devono arrivare alle stesse soluzioni nel minore tempo possibile. In sostanza, sono le varie “intelligenze artificiali” partorite dagli studenti a competere tra di loro. Le migliori intelligenze artificiali si accoppiano e creano intelligenze sempre più efficienti. Le altre semplicemente muoiono. Alla fine restano solo i più bravi. I migliori algoritmi. È evoluzione della specie anche questa. Sono infinite le applicazioni dell’AI. Ne abbiamo sentite tante in questi anni. Dalla finanza alla medicina. Dal giornalismo all’agricoltura. E sì. Ovviamente, tanti hanno cavalcato l’hype usando la parola “intelligenza artificiale” per vendere un prodotto o per farsi finanziare un progetto. Ma sono in pochi a lavorare concretamente sull’AI. E di competenze ce ne sono poche. È necessario, ma non sufficiente, essere dei matematici. Ci vuole fantasia, bisogna essere artisti.
Studio intelligenza artificiale oramai da anni e mi ricorda l’alchimia. Noi data scientist cerchiamo costantemente e incessantemente un qualcosa che non c’è. O meglio, che non riusciamo a vedere. E non solo. Vogliamo anche dargli vita. Uno scienziato difficilmente investe del tempo a parlare di AI nei vari eventi. No. Con pazienza e tenacia, errore dopo errore, crea delle strutture. Una sorta di strutture genetiche che cercano autonomamente di sopravvivere. Noi siamo i creatori di quelle strutture. Eppure, non riusciamo a comprendere il perché si evolvono in un determinato modo e non in un altro. Intelligenza artificiale non è prendere tanti dati, miliardi di dati, e farli studiare dalla macchina. O meglio. Non è solo questo. Ma a volte è invece l’opposto. Ovvero, studiare su dati di alta qualità, che sintetizzano determinati eventi macro o micro, e che non sono necessariamente estesi. Facendoli apprendere dalla macchina in maniera più approfondita e da tantissime angolazioni diverse. Questo è uno dei compiti dello scienziato. L’occhio umano non è capace di cogliere determinate sfumature, ma ogni dato lascia una traccia e l’AI riesce a riconoscerla dandogli vita.
DAL MARKETING ALLA FISICA
Ho seguito diverse analisi negli ultimi anni, parlano tutti di AI, ma quasi tutti parlano del futuro dell’AI. Dalla mia esperienza posso affermare che l’AI è già entrata nel mondo della gestione dei risparmi, e non da pochi anni. È entrata altresì nel mondo dell’energia elettrica. Un personal computer. Uno scienziato che scrive algoritmi e una società romana riesce sistematicamente a battere il mercato dell’energia elettrica italiana con un fatturato e numeri da capogiro. Intelligenza artificiale – in questo caso – che compete con centinaia di persone, nella maggior parte dei casi vincendo.
È entrata nel mondo dei social. Basta pensare a Google, a Facebook, dove ogni utente viene classificato in base al comportamento. E lo stesso comportamento viene studiato e approfondito. Se cambia. Se resta costante e si prova così a prevederlo. È entrata nel mondo della medicina. Ne abbiamo parlato ampiamente nelle pagine di Data Manager, ma è da ricordare che negli Stati Uniti stanno cominciando ad aprire i dati dei pazienti agli scienziati di tutto il mondo. Online. Alla ricerca di algoritmi che possano curare i pazienti. E sta entrando, grazie allo studio di questi dati, anche nel mondo delle assicurazioni. E se non lo sapevate, è entrata anche nel fantastico mondo della fisica quantistica.
Il Large Hadron Collider (LHC) di Ginevra rompe qualche miliardo di coppie di protoni ogni secondo. Di tanto in tanto, la macchina può far vibrare la realtà abbastanza da far sì che alcune di queste collisioni generino qualcosa che non è mai stato visto prima. Ma, essendo questi eventi – per loro stessa natura – una sorpresa, i fisici non sanno esattamente cosa cercare. Si preoccupano che, nel processo di analizzare i loro dati da quei miliardi di collisioni a un numero più gestibile, possano inavvertitamente cancellare le prove per la nuova fisica. «Abbiamo sempre paura di buttare via una scoperta eccezionale» – ha detto Kyle Cranmer, fisico delle particelle dell’Università di New York che lavora all’esperimento ATLAS del CERN. «Di fronte alla sfida della riduzione dei dati, alcuni fisici stanno cercando di utilizzare una tecnica di apprendimento automatico chiamata rete neurale profonda». In pratica, la macchina viene addestrata in modo tale da ricercare rarissime variazioni in un pool di dati. Tradizionalmente – senza l’uso dell’AI – la ricerca nel mondo del “molto piccolo” richiede ai ricercatori di fare un’ipotesi su come saranno i nuovi fenomeni. Creano un modello di come si comportano le nuove particelle, per esempio, una nuova particella potrebbe tendere a decadere in particolari costellazioni di particelle conosciute. Solo dopo aver definito ciò che stanno cercando, possono progettare una strategia di ricerca personalizzata. È un compito che generalmente richiede un dottorato di ricerca. Lo studente deve studiare approfonditamente ogni dato, mentre con l’AI può essere fatto molto più velocemente.
QUASI UNA “MAGIA”
Proviamo a cercare una nuova specie di animali in un set di dati pieno di osservazioni delle foreste in tutto il Nord America. Avendo fatto l’ipotesi che qualsiasi nuovo animale possa tendere a raggrupparsi in certe aree geografiche (una nozione che corrisponde a una nuova particella che si raggruppa intorno a una certa massa), l’algoritmo dovrebbe essere in grado di individuarle, confrontando sistematicamente le regioni vicine. Se la Columbia Britannica dovesse contenere 113 renne rispetto ai 19 dello Stato di Washington (anche con un data set di milioni di scoiattoli), il programma imparerà a distinguere le renne dagli scoiattoli, il tutto senza mai studiare direttamente le renne. «Non è magia, ma sembra una magia» – ha detto Tim Cohen, fisico teorico delle particelle dell’Università dell’Oregon che studia anche la supervisione debole in un articolo apparso su Quanta Magazine.
Una sintesi di tutti questi casi di AI – prescindendo ovviamente dallo straordinario caso della fisica quantistica – è la famosissima applicazione di messaggistica istantanea cinese WeChat. In un’unica applicazione, il cliente ha a disposizione un servizio di messaggistica istantanea, come WhatsApp ad esempio, un social network ma anche un servizio bancario. Grazie a WeChat l’utente può ricevere e inviare denaro. E WeChat può studiare, attraverso l’uso di modelli di AI, il comportamento dell’utente in toto. Da cosa compra a quanto spende. Da come si muove a cosa scrive. L’individuo può essere costantemente supervisionato, ma non è detto che sia una ricerca di controllo. Può essere vista anche come occasione per dargli dei consigli o proporre soluzioni migliori di acquisto e non solo.
PROGRAMMATI PER LA SOPRAVVIVENZA
In occasione di un evento a Roma mi fu chiesto da un importante professore se un giorno l’intelligenza artificiale avrà una coscienza. E se a quel punto avrebbe la capacità di ribellarsi contro i suoi creatori. In quel momento, ho risposto in maniera secca e diretta: «Non lo so. Sinceramente non ne ho la più pallida idea. Ma ovviamente mi auguro di no». La mia esperienza mi ha fatto rispondere così perché l’AI non può ancora crearsi da sola e ha bisogno di un continuo studio e una ricerca spasmodica nella messa a punto di nuove strutture. Strutture sempre più complesse, ma necessariamente scritte da noi umani. Ma ipotizziamo che succeda: i robot un giorno si alzano e si ribellano. Nel suo best seller “Il gene egoista”, Richard Dawkins diceva che “noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli automatici ciecamente programmati per preservare quelle molecole egoiste conosciute come geni”. Cosa accadrebbe al gene? E cosa accadrebbe a un robot? Si sentirebbe più forte del proprio creatore. Pensateci. Se fossimo migliori del nostro creatore?