La vera sfida non è sviluppare l’intelligenza delle macchine, ma abilitare il collegamento tra intelligenza umana e potenziamento tecnologico
La realtà è più complessa di una partita a scacchi. A volte, per capire le cose dobbiamo capovolgerle. Nella performance artistica di Laura Calafiore, prima donna fast-painter in Italia, gesto tecnico, velocità di esecuzione e creatività si fondono insieme. Il ritratto di Alan Turing ci ricorda che la trasformazione delle aziende ha bisogno di potenza, ma anche di immaginazione. Can Machine Think? Questa era la domanda da cui partiva Alan Turing 50 anni fa. Una domanda associata al famoso Test per determinare se una macchina è in grado di pensare. Un criterio suggerito dal padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale, nell’articolo “Computing machinery and intelligence”, apparso nel 1950 sulla rivista Mind.
L’intelligenza artificiale pone interrogativi etici e tecnologici. Le previsioni sono molto polarizzate. In tutti i casi, assisteremo a un cambiamento di interfacce. Ma non bisogna commettere l’errore di pensare al mondo del futuro imprigionati negli schemi del presente. La logica della tecnica può essere spietata se basata solo sulla maggiore produttività al minimo costo. Oggi, grazie al cloud, ai big data analytics e agli algoritmi di machine learning, le machine possono eseguire compiti complessi che se eseguiti da un essere umano richiederebbero intelligenza. Ma questo è sufficiente per parlare veramente di intelligenza artificiale? Prima di tutto, dobbiamo prestare attenzione al cosiddetto “AI washing”. Questa è una strategia di marketing distruttiva, e la abbiamo già vista all’opera in altri casi. Occorre invece procedere a piccoli passi, con progetti pilota e proof of concept.
Molti sistemi, dai motori di ricerca ai i robot industriali, possono sembrare intelligenti. Ma non lo sono. La stessa cosa può capitare anche con le persone. Quello che abbiamo fatto con Internet, trent’anni fa, lo stiamo facendo adesso con l’intelligenza artificiale, lasciando la rete completamente nelle mani del mercato. L’AI per vendere è quella più avanzata. Stiamo lavorando tanto sulle preferenze personali e poco sulle grandi banche dati mediche, atmosferiche, logistiche che possono veramente contribuire a migliorare il mondo. Nel 2017, le imprese hanno investito 63 miliardi di dollari in programmatic advertising (dati WARC). L’AI risolve molte cose e crea qualche grattacapo. Ci preoccupiamo che le macchine possano sviluppare una coscienza, ma diamo per scontato che le persone possano agire senza averne alcuna. Mai attribuire alla cattiveria le colpe dell’improvvisazione.
Nel corso dell’evento WeChangeIT 2018, grazie al contributo di tutti, aziende vendor, partner, c-level delle imprese utenti, data scientist e ricercatori, abbiamo capito che l’AI non è soltanto un crogiolo di tecnologie. L’AI non è uno strumento “magico”, non è una “sfera di cristallo”, non è un robot autocosciente, non è un perfect model prediction. Abbiamo imparato che i neuroni che comunicano insieme fortificano le proprie connessioni. Che dobbiamo preoccuparci del design delle applicazioni e della governance delle soluzioni. E che la collaborazione in ambito Europeo è la chiave per affrontare il futuro, perché da soli non si va da nessuna parte. Il cervello umano è in grado di fare operazioni complesse con l’energia di una barretta di cioccolato. La sua caratteristica però non è quella di processare milioni di informazioni senza commettere errori. Forse, quello che ci rende speciali come esseri umani è proprio la capacità di sbagliare. Forse, siamo una macchina rotta, ma rotta nel modo giusto. E forse, questo non è un bug, ma una feature in senso tecnico. La tecnologia ci permette di disarticolare la capacità di “pensare” dalla capacità di svolgere un compito con successo. Questa è la vera killer application.
Ma il vero nocciolo della questione resta come decideremo di usare questa capacità di problem solving. Se utilizzeremo l’intelligenza artificiale solo per vendere un paio di scarpe in più, non solo avremo sprecato la straordinaria opportunità di capire di più il mondo, ma avremo commesso l’errore di adattare il nostro mondo all’ambiente operativo di una macchina, e non viceversa. Abbiamo bisogno di una visione ampia e aperta dello sviluppo. Una visione compiutamente umana che per essere pienamente realizzata ha bisogno anche della potenza di una macchina.