Non vi siete stancati di sentire parlare di smart city su ogni giornale, sito internet, social network, e poi di dover fare lo slalom tra le buche, non riuscire a prendere un treno in orario, e fare lunghe code all’anagrafe per ottenere un certificato? Io sì, e vi spiego perchè
Forse, perché ho un brutto carattere. O forse, perché è arrivato il momento di un vero cambio di passo nella digital transformation della pubblica amministrazione, e di conseguenza, nella nostra quotidianità.
La creazione di economie di dati sarà l’unico modo per le città di essere trasparenti e mantenere il cittadino al centro della smart city. Le città devono dimostrare chiaramente i benefici che i dati stanno portando – o porteranno – ai cittadini nella loro vita quotidiana attraverso nuovi processi e nuovi servizi generati dall’utilizzo dei dati. La data economy è forse l’aspetto più importante delle città intelligenti. Molte città sono ancora nelle prime fasi delle opportunità di monetizzazione dei dati. Anche grazie ad appositi finanziamenti europei per ricerca e sviluppo le amministrzioni stanno esplorando il potenziale di addebito diretto dei dati e di app e servizi basati su di essi. Ma dov’è il denaro?
Secondo il rapporto McKinsey del 2013 sugli open data, sette settori industriali da soli potrebbero generare tra i 3 e i 5 trilioni di euro all’anno in valore aggiunto, sfruttando dati aperti e dati condivisi da fonti private. Stiamo parlando di cifre che corrispondono al prodotto interno lordo della Germania nel 2016. Nello stesso anno, il PIL dell’Italia corrispondeva a poco meno di 2 trilioni. Una somma del genere a disposizione non può che essere la base della nascita di un nuovo sistema economico, dando vita a innumerevoli nuove esperienze imprenditoriali e aiutando le aziende consolidate a segmentare nuovi mercati, definire nuovi prodotti e servizi e migliorare l’efficienza e l’efficacia delle operazioni. Le ricerche sono ancora poche, e poco chiare. Uno studio dell’Open Data Institute (ODI) su 270 società di dati (“quelle che utilizzano, producono o investono in dati aperti come un aspetto chiave del proprio lavoro”) del Regno Unito suggerisce che i dati hanno il potenziale per avere un impatto significativo sulle economie delle città. La ricerca ha rilevato che queste società hanno collettivamente un fatturato annuo di oltre 92 miliardi di sterline (132 miliardi di dollari) e impiegano solo 500mila dipendenti. Ciascuno di essi genera all’incirca 265mila dollari. Non è ancora chiaro se i dati genereranno entrate in modo diretto per le città stesse. In tutti i casi, come ha commentato Geoff Snelson, direttore della strategia del Milton Keynes Council, «il potenziale per monetizzare i dati è lì, ma finché non si sviluppano le applicazioni e si sviluppano modelli di servizio non si conosce il valore dei dati».
In generale, i consumatori sono sempre più consapevoli del valore dei dati. E di conseguenza il loro “dividendo” deve essere ridistribuito anche alla fonte. Julie Meyer, managing partner di Ariadne Capital Entrepreneurs Fund, suggerisce che se una grande banca e una compagnia telefonica hanno aperto i dati dei propri clienti alle startup per applicazioni che utilizzano tali dati e poi li hanno venduti, una percentuale delle entrate dovrebbe maturare anche per i clienti stessi. E questo sistema di “ricompensa” dovrebbe valere anche per le città. In pratica: Fai denaro con i miei dati? Allora, devo partecipare dei guadagni che questi dati generano. È evidente che la politica di monetizzazione dei dati è l’ennesima dimostrazione che la smart city non è quella dove si implementano tecnologie “missilistiche”. Ma quella dove si usano soluzioni tecnologiche per fare di più con meno e avere un impatto diretto sui cittadini. Anche sul loro portafoglio.
Emanuela Donetti @urbanocreativo