Aziende italiane leader nella transformation? I cinque volti della trasformazione digitale: leadership, esperienza multicanale, informazione, modelli operativi, acquisizione e gestione dei talenti. Con l’aiuto di IDC facciamo il punto sulla trasformazione digitale in Italia e sulle aree di problematicità che fanno da freno all’adeguamento al nuovo contesto del business. A incominciare dalla piattaforma IT e dai suoi indicatori chiave
I pilastri fondamentali della Terza Piattaforma (social, mobile, cloud e big data) ci sono tutti, così come il complesso ecosistema di tecnologie e innovazioni – dai computer cognitivi all’IoT, dalla realtà aumentata, alla stampa 3D – capaci di trasformare radicalmente non solo l’infrastruttura IT ma anche e soprattutto i processi aziendali, le dinamiche di relazione con il cliente, i meccanismi decisionali e i luoghi di produzione dei beni fisici e servizi di ogni tipo. L’interesse da parte delle imprese e delle organizzazioni, anche quelle di dimensioni più piccole, è vivace. Persino i regolatori a livello nazionale ed europeo cercano di indirizzare in modo più marcato le esigenze del business digitale. Ma il salto quantico dell’innovazione di processo, di cui la tecnologia è il primo fattore scatenante, non sembra ancora essersi concretizzato appieno, a livello sistemico. Le aziende sono ancora prese dalla dialettica tra trasformazione e legacy, un compromesso che gli investimenti del passato rendono difficilmente aggirabile. Il rischio competitivo, per chi non affronta il cambiamento con la necessaria determinazione è però troppo forte, anche in una economia come la nostra, con la sua forte componente caratterizzata da imprese di scala sì limitata, ma spesso costruite intorno a ottime idee ed esecuzioni eccellenti. È possibile colmare il gap che gli studi continuano a rilevare rispetto a geografie come gli Stati Uniti, l’Asia e il resto dell’Europa occidentale?
I VOLTI DELLA TRASFORMAZIONE
Con questo dossier, Data Manager cercherà di esplorare le opportunità di trasformazione nell’attuale contesto di dualità tra modelli tecnologici e organizzativi già consolidati e i nuovi criteri di flessibilità e integrazione tipici della virtualizzazione delle risorse di calcolo e di rete. Partendo da analisi e case study concreti, l’obiettivo è ancora una volta quello di individuare gli ingredienti e soprattutto le ricette dell’innovazione su base tecnologica. Che cosa distingue, sul piano organizzativo, un’azienda davvero innovativa? In che misura il cambiamento può essere affrontato con gradualità, in una ottica più evolutiva che sostitutiva? Quali novità ci attendono ancora in comparti come le telecomunicazioni, che già cominciano ad affrontare la quinta “rivoluzione” della mobilità, del “machine to machine” e della smart factory? Come rispondono a questi cambiamenti gli organi preposti alla (ri)scrittura delle regole, le amministrazioni, la burocrazia? Che funzione svolgono i luoghi dello studio e della formazione, incaricati della delicata missione di coltivare e rilanciare le idee innovative, assicurando una adeguata disponibilità di risorse manageriali e lavorative ad ambienti produttivi che si riempiono di forme sempre più pervasive di automazione?
A fare da guida in questo viaggio esplorativo, c’è come sempre il lavoro degli analisti di IDC Italia, e in particolare di Sergio Patano, senior research and consulting manager, che in occasione dell’ultima edizione della Digital Transformation Conference di Milano, ha introdotto i lavori con una relazione che è anche molto utile a delineare i confini della nostra discussione. Difficile affrontare in modo schematico un argomento che tocca mille aspetti (architetture, paradigmi di servizio, modalità di sviluppo ed erogazione del software) del già complesso rapporto instauratosi nel corso degli anni tra business e automazione. All’inizio del suo discorso, Patano individua tre grandi capitoli della trasformazione collegata al graduale formarsi della cosiddetta Terza Piattaforma. Una prima fase, partita una decina di anni fa, è quella delle prime sperimentazioni più o meno grandi, di isolati interventi su una infrastruttura che mantiene sostanzialmente intatte le sue caratteristiche di partenza: il data center come lo conosciamo dopo tanti anni di informatica aziendale server based. Da due o tre anni, secondo Patano è partita la seconda fase, quella caratterizzata da una innovazione che agisce simultaneamente su più livelli, ma ancora con un ruolo importante per l’IT più o meno tradizionale. E infine, solo fra quattro o cinque anni, sostiene Patano, avremo a che fare con un paradigma completamente autonomo, ossia con una informatica iperconvergente in cui la virtualizzazione riguarda non solo la separazione del software applicativo dal suo substrato computazionale fisico, ma anche le risorse di storage e di rete: il software defined everything. Volendo dare una definizione precisa – osserva Patano – si può dire che la trasformazione digitale «è un approccio attraverso cui un’azienda guida la trasformazione dei propri modelli di business e del proprio ecosistema attraverso competenze digitali». Una strategia di trasformazione fa leva sulle tecnologie per creare un ponte di continuità tra le proprie operazioni e i mercati di riferimento, abilitando tutta una serie di processi intermedi che non solo rendono più fluidi i rapporti con il mondo dei fornitori e dei clienti, ma conferiscono all’azienda la flessibilità necessaria per adeguarsi con estrema tempestività alle mutevoli condizioni del mercato o per aprire, con altrettanta agilità, orizzonti di business del tutto nuovi. La trasformazione è più che mai un obiettivo da raggiungere non per moda, ma per necessità. La necessità dettata da un mercato dove il digitale influisce ormai sugli stili di consumo, sulle modalità di vendita e di acquisizione delle forniture, sulla virtualizzazione del denaro, e così via.
PERCHÉ LA TECNOLOGIA NON BASTA
Proprio perché affrontare il cambiamento solo su un piano squisitamente tecnologico sarebbe limitante, IDC ama distinguere almeno cinque aree nelle quali intervenire. I cinque volti della trasformazione digitale abbracciano un cambiamento che investe leadership, esperienza multicanale, informazione, modelli operativi e acquisizione e gestione dei talenti. Nel primo ambito innovare coincide con la capacità di sviluppare e implementare una strategia per la trasformazione digitale del modello di business. Centrale è poi il tema dell’esperienza, terreno sul quale l’azienda è chiamata a orchestrare l’universalità dei canali digitali in modo coerente capace di fidelizzare la clientela. Poiché tutto il discorso si fonda sul dato digitale generato internamente e raccolto da molteplici fonti esterne, anche qui trasformare significa acquisire le capacità di sfruttare le informazioni per ottenere un vantaggio competitivo, vuoi consentendo all’azienda di reagire con prontezza davanti alle opportunità e agli ostacoli, vuoi prendendo ogni volta decisioni “analitiche”, non sulla base di semplici istinti.
Sul piano esecutivo, la business operation diventa più reattiva ed efficace, facendo costante riferimento a prodotti e soluzioni, asset, persone e partner anch’essi digitalmente connessi. E infine, sul delicato terreno delle risorse umane, la trasformazione riguarda il modo in cui le aziende accedono ai talenti, li connettono tra loro e con l’intero ecosistema per generare ulteriore valore. Patano offre a questo punto una prima misura del grado di adeguamento delle aziende italiane a questi cinque indici di trasformazione. Ne emerge l’immagine di un Paese ancora piuttosto conservatore, ma complessivamente aperto al nuovo, specie in particolari settori. Dalle indagini svolte attraverso i suoi questionari di autovalutazione (IDC EMEA “European DX Practice” 2018) gli analisti IDC misurano un valore del 32% per la “leadership transformation”, con una punta del 39% nel comparto industriale e un minimo del 14% nel finance. Settore che tuttavia è leader assoluto nella multicanalità, con un 44% di tasso di trasformazione in un’area che in media risulta essere innovativa solo per il 18%. La multicanalità interessa meno l’industria, che “si trasforma” solo nell’11% dei casi. Buona la percentuale per la “Information Transformation”, cioè nella centralità del dato come generatore di valore: a livello nazionale raggiungiamo il 31%, con punte del 41% nel settore bancario e un apprezzabile minimo del 29% ottenuto tra l’altro in un comparto, la Pubblica Amministrazione, che in genere non brilla per spirito innovativo. Non ci siamo proprio per quanto invece riguarda l’impatto della tecnologia su “Operation model” e “WorkSource Transformation”. I modelli operativi impattano per un misero 5% e in questo caso il comparto più virtuoso è l’aggregato Trasporti-Comunicazioni-Utility (TCU), dove la trasformazione digitale arriva al 10% (percentuale da confrontare con un valore prossimo a zero per la PA che sconta i suoi ritardi proprio in quest’area). L’innovazione stenta ad arrivare anche nelle modalità di acquisizione e gestione dei talenti, perché la media in quest’ambito è di appena il 2%, ma la Pubblica Amministrazione si riscatta con il suo 14% di indice di trasformazione, contro un minimo di 1% toccato da Servizi e TCU.
È probabile, secondo Patano, che il ritardo accumulato nella misura dei cinque indicatori di trasformazione dipenda dal divario accumulato in un percorso che, come è stato sottolineato più volte, non richiede una semplice iniezione di nuove infrastrutture e software applicativo. «Anche per quanto riguarda le numerose sfide da affrontare – spiega Patano – la strada verso quella che potremmo chiamare l’azienda “digital native” è costellata di ostacoli di diversa natura». Patano individua ancora una volta cinque aree di criticità, partendo proprio dalle infrastrutture IT. Qui il vero problema da affrontare è la presenza di una innovazione che investe solo ambiti specifici, creando dei silos che non è semplice abbattere. Un altro punto debole sta nella mancanza di metriche adeguate che aiutino a rendersi pienamente conto dell’efficacia delle trasformazioni messe in atto. IDC, come vedremo, ha elaborato concetti molto interessanti su nuovi indici di performance (KPI) che aiutano a valutare meglio il grado di cambiamento in direzione del business digitale. Una terza area di problematicità riguarda, si è visto, la struttura organizzativa, anch’essa troppo compartimentalizzata. Seguono, nell’elenco di cinque tipologie di ostacoli stilato da Patano, le difficoltà incontrate dalle aziende italiane nel definire una efficace roadmap digitale e quelle che impediscono loro di colmare in tempi rapidi il divario conoscitivo, la scarsa disponibilità di expertise e capacità digitali all’interno della propria organizzazione.
PASSO DOPO PASSO
Cerchiamo di capire meglio le valutazioni fatte nella ricerca IDC a proposito della questione organizzativa. «La trasformazione digitale – spiega Patano – avviene seguendo un percorso che di solito inizia con un piccolo team dedicato, spesso costruito mettendo insieme le figure tecniche più appassionate, quelli che chiameremmo gli “smanettoni”. Dal punto di vista organizzativo, si tratta di un nucleo completamente separato, che riceve il preciso incarico di scoperta degli aspetti fondamentali della transformation e sulla base di queste prime sperimentazioni cerca di definire i primi obiettivi del cambiamento. «Nel secondo stadio – prosegue Patano – si crea un vero e proprio ufficio dedicato alla trasformazione che avrà il compito non solo di stabilire la “mission”, ma anche di delineare una sorta di governance in modo che il lavoro non sfugga al controllo dei responsabili e le priorità aziendali vengano rispettate». Il passaggio più critico riguarda il momento in cui si decide di imprimere una accelerazione al business digitale, che diventa una funzione propria di ciascuna business unit. «Nel terzo step, in pratica il team della primissima fase sperimentale viene replicato nelle varie business unit per accelerare la trasformazione in tutta l’azienda. Se nella prima fase i progetti nascevano per iniziativa personale e in un secondo momento veniva creato una sorta di dipartimento dedicato, qui abbiamo per ogni singolo dipartimento un “ufficio-trasformazione” chiamato ad affrontare tutti gli aspetti del digitale». Sul piano organizzativo, la ideale quinta tappa è un’intera business unit dedicata allo sviluppo di una offerta innovativa. «Lo scopo della trasformazione – sottolinea Patano – è dar vita a un tipo di business autenticamente “disruptive”, inedito rispetto al passato. L’azienda deve puntare a imporsi come leader, un punto di riferimento, non un perenne inseguitore».
Il giusto equilibrio organizzativo non è però sufficiente a rendere efficace una strategia di trasformazione. Un’altra area di forte criticità investe le capacità che contribuiscono tutte insieme a una buona riuscita di un progetto di trasformazione. Che cosa intende IDC quando parla di “capabilities” digitali? «Ci riferiamo a quel mix di talenti, tecnologie, processi, governance in grado di guardare al vero motore del cambiamento digitale: lo sfruttamento, la messa a valore dei dati che circolano all’interno dell’azienda» – risponde Patano. Molto spesso, per assicurare una buona riuscita di questa miscela è necessario inserire nell’organizzazione competenze nuove o semplicemente aggiornate alle ultime evoluzioni del business digitale. Tra le aziende italiane, questo trasferimento di conoscenze – secondo le rilevazioni di IDC – avviene, in quasi l’80% dei casi di successo, attraverso un investimento in formazione interna, un lavoro sulle risorse esistenti, anche qui con punte che riguardano per esempio il mondo della grande distribuzione e dei servizi (che investono maggiormente in formazione) e il mondo PA e finance (che invece tendono a investire un po’ meno). In misura molto minore, intorno al 16%, le organizzazioni fanno ricorso a strumenti come la ricerca e l’assunzione di nuove figure (qui i settori più impegnati sembrano essere l’industria e ancora una volta i servizi). Ancora meno consistente – circa il 9% dei casi – è il ricorso a service provider.
IL CLIENTE INNOVATORE
Il dato più deludente, osserva infine Patano, riguarda il valore esiguo – uno striminzito 2% – riferibile ai casi di collaborazione tra aziende. Perché è un segnale così negativo? «Perché stiamo andando incontro a un ecosistema fatto di “coopetitor” più che di “competitor” e il fatto che io possa appoggiarmi su competenze sviluppate da altri per arricchire il mio portafoglio di offerta, facendo quindi leva sul patrimonio di skill accumulate da altri non è ancora sufficientemente ben percepito». E nell’esperienza di Patano, mancherebbe un giusto spirito di collaborazione anche all’interno delle aziende, tra le singole business unit. «Non dimentichiamo poi – aggiunge l’esperto di IDC Italia – che l’ecosistema di cui stiamo parlando oggi è costituito anche dai clienti, che se ben “ascoltati” possono contribuire direttamente o indirettamente all’innovazione di prodotto». Del resto, anche la percentuale del 16% – che nei sondaggi di IDC rappresenta le nuove competenze che le aziende acquisiscono esternamente – è probabilmente troppo bassa. «È bassa per due fondamentali ragioni» – spiega Patano. «Innanzitutto, le persone che dispongono di certe competenze non sono molto numerose ed è inevitabile che, in questo momento di forte attenzione nei confronti del digital business, siano molto richieste». Non stupisce che le organizzazioni cerchino di colmare determinati gap culturali attraverso la formazione e l’aggiornamento delle proprie risorse interne. Una pratica tra l’altro lodevole, ma per chi si è mosso in ritardo, i tempi di recupero si allungano. L’unica certezza è che il modo di fare business oggi deve cambiare, anche passando per la capacità di collaborare, di federarsi, anche rinunciando a ricavi potenzialmente superiori. Il rischio in molte situazioni è perdere intere commesse a favore di chi è più agile di te. «Siamo in un mondo in cui il leader di domani potrebbe non essere lo stesso di oggi, o potrebbe venire da un settore completamente diverso» – osserva ancora Patano. Guardate il caso di quell’operatore online che ha iniziato vendendo libri ma che proprio in virtù dei grandi cambiamenti introdotti, delle tecnologie adottate, oggi è diventato il maggior fornitore di servizi di cloud computing e un leader assoluto per tutto l’e-commerce. Amazon ha ridisegnato completamente l’intera catena di approvvigionamento e fornitura di beni e servizi». Analogamente, quello che oggi è uno dei maggiori broadcaster in Italia, Netflix, non esisteva sul nostro mercato fino a tre anni fa. «I confini che oggi definiscono chi è il mio concorrente, potrebbero non valere più tra qualche mese, ogni volta bisogna ridefinire il “campo di battaglia”».
Tutto questo si riflette nelle difficoltà che secondo IDC si manifestano anche nell’area della pianificazione. Nell’era della digital transformation, la roadmap aziendale non può più essere monolitica e di lunghissimo periodo. Occorre pianificare in modo altrettanto modulare, flessibile, tracciando rotte che consentano di rispondere immediatamente a una situazione di mercato che si sta orientando verso altre direzioni, o di inseguire opportunità che si intravedono solo all’ultimo momento. Una pianificazione ad assetto variabile che oggi è resa possibile dalla tecnologia dell’automazione anche in contesti produttivi industriali. «Il mio esempio – afferma Patano – riguarda il mondo del retail di beni di consumo e della grande distribuzione organizzata (GDO), dove l’avvento degli strumenti del software analitico, predittivo, sta modificando le logiche di fulfillment, con una graduale riduzione dei tempi per le scorte di magazzino. Il secondo passaggio sarà il real time fulfillment: in base al costante monitoraggio della merce venduta, andrò parallelamente a riempire il mio magazzino. Fino ad arrivare al terzo stadio, in cui la produzione real time, facilitata da innovazioni come la stampa 3D e dalle future tecnologie, permetterà alle aziende di “ipercustomizzare” i prodotti in tempi estremamente ridotti». Patano cita anche l’esempio di un collega di IDC Italia, appassionato di ciclismo, che non riusciva a sostituire il supporto utilizzato per montare sul manubrio il piccolo computer di bordo, spezzatosi per una caduta. «Non c’era verso di recuperare il pezzo attraverso i normali rivenditori finché il mio collega non ha trovato in Irlanda un’azienda di stampaggio 3D che in pochi giorni gli ha fornito un pezzo del tutto simile sulla base di un semplice disegno».
INTELLIGENZA AL CENTRO
La lista di problematicità stilata da IDC comprende un ultimo punto, la piattaforma, che ci riporta alla materia di cui è fatto tutto questo cambiamento. L’informatica. Oggi, la maggior parte delle aziende che hanno intrapreso un percorso di digital transformation hanno ancora a che fare con una sorta di dualità. Da un lato la piattaforma IT, rappresentata dal tradizionale data center, frutto di una lunga serie di investimenti e dove non a caso spesso dominano ancora componenti di vera e propria legacy accanto a risorse che hanno viceversa già assorbito gli effetti della virtualizzazione, della graduale astrazione tra substrato computazionale fisico e i servizi software messi a disposizione dalla infrastruttura. Dall’altro la cosiddetta “Digital IT”, dove tutto – dati e applicazioni – viene esposto sotto forma di servizio per essere utilizzato o ricombinato in nuove funzionalità. La spinta della iperconvergenza, fenomeno conosciuto anche come Software Defined Everything (una infrastruttura IT dove la separazione tra fisico e logico riguarda sia le funzioni computazionali e di rete sia gli spazi di archiviazione), ci sta portando verso una piattaforma unificata. Se i dati sono il nuovo petrolio, dobbiamo essere in grado di trasformare questa materia prima in un ciclo continuo di creazione di valore, acquisizione di informazioni, “insight” decisionali e azioni sul mercato, che vengono costantemente macinate all’interno di un “intelligent core” infrastrutturale» – spiega Patano. «In questo “core” convivono algoritmi, codici e modelli, circondati dagli strumenti di integrazione e di sviluppo che ci aiutano a far dialogare nuovi servizi e risorse legacy. Queste ultime non sono necessariamente qualcosa di negativo, ma è fondamentale per l’azienda svolgere un’azione di re-platforming per far dialogare con i processi interni tutto ciò che arriva dall’ecosistema esterno, grazie all’IoT, al mobile. Come si rende possibile questo dialogo? «Ridisegnando i sistemi nell’ottica dei microservizi, o esponendo la propria struttura applicativa attraverso le API. Insomma, un continuo dialogo tra interno ed esterno, anche in chiave di infrastruttura senza confini, supportata da fornitori che riducono sempre più latenze di rete e ritardi nella risposta, che penalizzerebbero – secondo Patano – la user experience di chi è ormai abituato a un digital business fluido e senza scatti».
A proposito di piattaforme per la trasformazione digitale, la stessa IDC ha preparato una serie di note che approfondiscono i concetti qui delineati. Questa piattaforma, secondo gli esperti della società di ricerca, rappresenta la futura evoluzione dell’architettura tecnologica capace di imprimere una accelerazione alle iniziative di trasformazione delle aziende. Essa consente una rapida realizzazione, verso l’esterno, di prodotti, servizi ed esperienze digitali senza smettere, al proprio interno, di creare i presupposti per una radicale modernizzazione dell’intero ambiente IT, il cui obiettivo è appunto costituire il “core digitale” descritto da Patano. Le organizzazioni in grado di “ri-architettare” la propria infrastruttura su ampia scala attraverso l’approccio della piattaforma per la trasformazione, hanno più probabilità di emergere, da qui a tre-cinque anni, come le imprese “native digitali” del futuro. Ma com’è fatta la piattaforma per la trasformazione? Una sommaria definizione dell’infrastruttura IT del futuro parla di una piattaforma principalmente rivolta verso l’esterno dell’azienda, con il fondamentale obiettivo di creare una rete, o ecosistema, di clienti, partner e fornitori tutti interconnessi con l’azienda. Ecosistema che utilizzerà (generando un fatturato) le informazioni e i servizi che la rete e la capacità innovativa dell’azienda saprà mettere loro a disposizione.
Per dare un’idea dei nuovi modelli di business che possono emergere grazie al supporto di una infrastruttura dati così flessibile, IDC cita un’intervista di due anni fa al CEO della casa automobilistica Audi, Rupert Stadler. L’intervista precede il caso dello “scandalo diesel” che ha successivamente investito il Gruppo Volkswagen di cui Audi è parte, ma il senso delle parole di Stadler conserva tutto il suo potere evocatore di un futuro che sarà molto probabilmente diverso, anche per un car maker di grande tradizione. Nell’intervista per l’edizione online della rivista Bilanz, il CEO di Audi affermava che l’azienda, nell’arco dei cinque anni successivi, avrebbe puntato l’obiettivo di generare il 50% del fatturato (che è di circa 54 miliardi di euro) attraverso servizi per la mobilità basati essenzialmente su information technology, software e servizi. Un importante pilastro di questa strategia, spiegava Stadler, era rappresentato dagli aggiornamenti software “after market” distribuiti direttamente over-the-air, cioè attraverso connessioni wireless. Per esempio, proseguiva il CEO, il cliente Audi potrà ordinare e installare nuove interfacce grafiche e funzionali per tutti gli strumenti del cruscotto. Inoltre, come del resto accade per tutta l’industria della nuova “connected car”, anche Audi ha in preparazione una serie di servizi innovativi riferiti alla mobilità dei suoi clienti. Quando uno di loro parcheggerà la sua auto all’aeroporto prima di partire per un viaggio, il veicolo potrebbe essere affidato al garagista per una revisione e una eventuale rimessa a punto. Il servizio potrebbe essere erogato attraverso una chiave virtuale che il cliente invia al garagista con il proprio smartphone: la chiave funzionerà solo per i tecnici autorizzati che preleveranno la vettura e la riconsegneranno al termine della revisione.
OGNI PRODOTTO È DIGITALE
Questa realtà alternativa, in cui il produttore di un’auto genera con la vendita dei veicoli lo stesso volume d’affari derivante dai successivi servizi software-based, è possibile quando un prodotto industriale viene opportunamente “rivestito” di uno strato digitale aggiuntivo: una nuvola informativa associata che il produttore originario e i suoi vecchi e nuovi partner possono mettere a frutto proprio per migliorare l’esperienza d’uso e offrire opportunità nuove all’acquirente. Ma l’infrastruttura IT delle aziende deve potersi agganciare al nuovo contesto. Oltre alla focalizzazione verso l’esterno, la piattaforma deve attivare un approccio che possa svecchiare in modo radicale gli ambienti di legacy, il cosiddetto “core IT”, ridefinendone processi e funzionalità, tanto per l’utenza interna che per l’ecosistema esterno. Tale piattaforma, secondo IDC, deve assicurare almeno quattro tipologie di servizio: 1) l’intelligent core; 2) i servizi di integrazione e orchestrazione; 3) i servizi di PaaS (Platform as a Service) e quelli destinati agli sviluppatori delle applicazioni; 4) i servizi di engagement, o se si vuole, “esperienziali”.
Che cosa si intende per intelligent core? Il nucleo intelligente della nuova infrastruttura agisce da tramite tra le decisioni di natura tecnologica dell’impresa e lo sviluppo sul piano filosofico e l’implementazione delle scelte fatte dall’intera organizzazione. Il nucleo ingloba i servizi di Platform as a Service e quelli per lo sviluppo applicativo – compresi gli ambienti di deployment che i clienti utilizzeranno – per esempio il Container as a Service (Caas) il Function as a Service (FaaS) e i tradizionali ambienti di esecuzione delle applicazioni (tutti servizi che possono essere raggruppati nella più estesa categoria del PaaS di nuova generazione). Il vantaggio di una architettura così concepita sta nella sua capacità di accogliere tutti i dati che l’azienda ha identificato come generatore di valore al di là dei singoli sistemi o processi. L’obiettivo, per questo tipo di approccio, è la possibilità di dar luogo – in tempo reale – alle azioni e ai risultati più efficaci come parte integrante dell’operatività quotidiana in azienda. Una capacità di cui l’organizzazione dispone proprio in virtù di una miglior percezione di quelle che sono le informazioni disponibili, di un potenziamento dei normali strumenti decisionali umani (istinto compreso) e dell’automazione di compiti e processi decisionali in precedenza affidati all’operatore umano. Le capacità che “l’intelligent core” mette a disposizione dell’impresa possono rientrare in quattro categorie: 1) Descrittiva/identificativa: individuare, a partire da una prima scrematura dei dati, quali condizioni suggeriscono la necessità di analisi più approfondite; 2) Predittiva: determinare con quale livello di probabilità sarà richiesta una specifica azione; 3) Prescrittiva: prendere automaticamente una decisione sui passi successivi a una determinata situazione; 4) Apprendimento: il mattone fondamentale per “l’intelligent core” è costituito dall’insieme dei servizi di autoapprendimento che consentono un continuo monitoraggio delle attività attraverso le fasi di individuazione, previsione, prescrizione e azione.
DIREZIONE D’ORCHESTRA
Una seconda tipologia di servizi del “core intelligente” è rappresentata dai servizi di integrazione e orchestrazione. Si tratta di un’altra classe fondamentale di funzionalità della piattaforma di trasformazione, quella che stabilisce le connessioni necessarie per scambiare dati e servizi attraverso l’intera architettura decentralizzata, supportando i requisiti transazionali e analitici in tempo reale o semi-reale che abilitano tutte le forme di ingaggio esperienziale del cliente, l’awareness dell’intero ecosistema, i processi decisionali “aumentati”, la creazione di prodotti e servizi automatizzati e connessi. Perché questo tipo di servizi è così importante? Perché i servizi, nel business digitale, viaggiano spesso a una velocità che sfuggirebbe ogni tentativo di gestione convenzionale da parte di operatori umani, il che li rende sempre più dipendenti da una gestione automatizzata o addirittura da una completa autogestione. La positiva implementazione di servizi di integrazione nell’ambito della piattaforma per la trasformazione digitale risulterà in un maggior livello di automazione. Con molti vantaggi, tra i quali segnaliamo: sicurezza più efficace e nativa; scalabilità orizzontale e illimitata in ambienti server e serverless; migliore elasticità e resilienza; individuazione, prevenzione e risoluzione automatizzate dei problemi; riduzione complessiva dei costi attraverso la creazione e la gestione dei servizi di integrazione e orchestrazione a livello più basso possibile, su una base infrastrutturale software e hardware a elevatissima efficienza di costo; maggiore portabilità run-time; disponibilità su base self-service di una molteplicità di ruoli utente, ivi compresi partner, sviluppatori terza-parte, non-specialisti in integrazione, data scientist, analisti di business e utenti finali.
La carta di identità del “core intelligente” prevede una terza tipologia di servizi, quelli specifici di Platform as a Service e gli strumenti rivolti allo sviluppatore. Il management dell’azienda deve prendere coscienza dei mutamenti che hanno avuto luogo nel mercato dei servizi di supporto allo sviluppo e di piattaforma software, e imparare a valutare in che misura questi mutamenti possono impattare sulle strategie di trasformazione della loro organizzazione. Due aspetti critici ma separati riguardanti lo sviluppo e il deployment applicativo sono: i cambiamenti sul piano operativo e le decisioni da prendere a livello di sviluppo e deployment. Nel primo caso, bisogna affrontare con la necessaria franchezza temi come l’adozione della metodologia DevOps; i microservizi; un approccio razionale al tema del ciclo di vita applicativo; l’automazione e intelligenza artificiale; la piena adozione dei principi della API Economy. Nel secondo caso, a livello di sviluppo/deployment si tratta invece di prendere efficaci decisioni in materia di modernizzazione applicativa; paradigmi di sviluppo; modalità di “impacchettamento” del codice; deployment di infrastrutture cloud.
E infine, l’ultimo livello di servizi, quelli che riguardano l’ingaggio del cliente (finale o interno che sia) e le sue attività esperienziali. Nell’arco dei prossimi tre-cinque anni, anche questi servizi avranno un ruolo sempre più grande nella trasformazione digitale dell’impresa e per il top management e i responsabili tecnologici è urgente comprenderne la funzione e l’importanza strategica, in un’ottica di business autenticamente multicanale. Ecco alcune delle situazioni che una efficace piattaforma esperienziale deve essere in grado di abilitare. La prima è la condivisione dei dati con i partner per facilitare operazioni e interazioni, assicurare un livello necessario, adeguato e puntuale di risorse, forniture e prodotti da parte dei fornitori e mettere a disposizione le informazioni sui prodotti e i servizi che l’azienda propone ai suoi clienti. La seconda è il coordinamento di informazioni e anagrafiche relative ai clienti attraverso tutta l’azienda. La terza è la consegna e l’erogazione ai clienti di prodotti e servizi attraverso canali fisici e digitali. La quarta è il supporto all’impiego ottimale di quel prodotto o servizio anche dopo l’acquisto. La quinta è l’offerta di informazioni e suggerimenti su ulteriori prodotti e servizi che il cliente potrebbe essere interessato ad acquistare.
ALLA RICERCA DELLA GIUSTA MISURA
Man mano che crescono anche i livelli di digitalizzazione di clienti, fornitori e partner, una valida implementazione di servizi di ingaggio/esperienza riconducibili a un arsenale di servizi e dati, “digitalmente trasformato” nel quadro di una più complessiva strategia di trasformazione dell’azienda, può – sottolineano gli esperti di IDC – determinare la futura sostenibilità dell’azienda stessa. Ma quale livello di maturazione hanno raggiunto le aziende italiane nella realizzazione di questa complessa tabella di marcia? Sergio Patano ha individuato una serie di indicatori che ci aiutano a valutare le conseguenze determinate dal livello di trasformazione raggiunto (i dati riguardano ancora una volta le risposte italiane ai sondaggi IDC EMEA “European DX Practice”). Alla voce, “Arricchimento prodotti esistenti con i dati”, IDC misura una percentuale di adeguamento piuttosto bassa: il 6%. Si cresce all’8% passando alla voce “Arricchimento portfolio con prodotti di terze parti” e da qui si sale al 10% della voce “Aumento delle capacità di innovazione”. Anche alla domanda relativa all’indicatore “Abilitazione del cloud”, rispondono positivamente solo il 12% degli intervistati, mentre nel 16% dei casi, alla voce riguardante la multicanalità, si registra una “Accelerazione/espansione del canale distributivo”. Una maggiore capacità di “Aggregazione dati” è osservata nel 22% dei casi presi in esame e infine un quarto dei rispondenti afferma di aver rafforzato la “Connessione di partner e fornitori”.
E a proposito di indicatori, il quinto e ultimo ambito di criticità rilevato da IDC riguarda proprio la capacità di valutare correttamente gli effetti delle iniziative intraprese a livello di trasformazione. A fronte dei cambiamenti introdotti sia nella propria architettura IT sia sul piano organizzativo, è naturale che anche le metriche utilizzate, per distinguere tra decisioni profittevoli e mosse sbagliate, debbano subire un adeguamento. Applicando i canoni messi a punto dai suoi colleghi, Patano distingue tre categorie di parametri – indicatori di natura finanziaria, business e operativa – costruendo per ciascuna delle tre tipologie di valutazione una matrice che misura, su cinque assi verticali, la percentuale di innovazione, il supporto del cliente, la capitalizzazione dei dati, le business operation e le risorse umane. Una buona strategia di trasformazione digitale è quella che riesce ad aggiudicarsi una significativa percentuale di budget nell’immediato (entro due anni di tempo) e le cui forze di business riescono a registrare una altrettanto significativa percentuale di iniziative approvate (con una contemporanea riduzione del budget “bruciato” in progetti che non è stato possibile portare a buon fine).
Sul fronte del supporto al cliente, la buona riuscita implica un maggior grado di profittabilità della clientela già nell’arco dei 36 mesi; un valore di NPS (Net Promoter Score, in pratica la proporzione di persone che si dicono soddisfatte di un marchio o di un prodotto contro la quota di insoddisfatti) compreso tra 50 e 100 entro i 18 mesi; e a livello operativo una complessiva crescita dell’interazione dei clienti, anche nel caso di prodotti che non generano profitto nei conti economici. L’efficacia di una strategia di valorizzazione dei dati si valuta invece misurando la percentuale di investimenti sulle piattaforme data-related; la percentuale di crescita dei ricavi direttamente legati alle piattaforme realizzate; e una riduzione dei costi per l’acquisizione dei dati esterni ottenuta attraverso un impiego efficiente delle API. A chi vuole ottenere un quadro affidabile delle ricadute sulle operations, Patano suggerisce di misurare la quota di market share di prodotti e servizi digitali; l’effettiva capacità di mettere sul mercato un nuovo prodotto o servizio ogni due o tre anni; e un aumento delle aspettative del cliente per ciascuno di questi prodotti o servizi. E infine, nell’azienda felicemente trasformata, la forza lavoro registra l’uso di strumenti digitali di “management by objectives” anche da parte della dirigenza; un incremento della produttività oraria dei knowledge worker; e una accelerazione delle iterazioni più ripetitive ottenuta con i tool dell’intelligenza artificiale. Al di là della nuova gerarchia di indicatori chiave, IDC ha inoltre chiesto agli stessi intervistati di identificare quali tipi di ritorno siano stati registrati in funzione dei rispettivi investimenti. Dalle risposte emerge un quadro che ai primi posti privilegia gli effetti a livello di crescita della customer experience e riduzione dei costi operativi (entrambi al 51%); la generazione di nuovi ricavi (49%). Un po’ meno rilevanti ma pur sempre consistenti, sono l’impatto sulla soddisfazione del dipendente e la crescita dei clienti (37%); e la crescita delle revenues esistenti (35%). Agli ultimi posti della classifica dei ROI della trasformazione digitale troviamo secondo IDC la riduzione dei tempi decisionali (27%) e, sorprendentemente, proprio il time-to-market di nuovi prodotti (18%).
L’INFORMATICA PARLA LA LINGUA DEL BUSINESS
Il tema dei KPI per il business digitale è assolutamente critico a fronte di un cambiamento che investe le architetture IT, le organizzazioni e i processi messi in atto dalle imprese. Se la digitalizzazione porta con sé una trasformazione profonda dei modelli di business e delle catene di produzione del valore, il management deve poter contare su indicatori e regole di valutazione dell’efficacia delle proprie risorse IT. Si tratta di uno spostamento imponente delle metriche applicate, che avviene – oltretutto – in una fase intermedia, in cui molte organizzazioni ancora non sono in grado di gestire l’informatica come un vero servizio di business, guardando quindi al valore di business delle tecnologie utilizzate. La lunga tradizione delle metriche utilizzate finora, con la loro attenzione prospettica, di lungo-termine, sull’efficienza della gestione di infrastrutture, applicativi e componenti, sta gradualmente venendo meno, anche se è difficile sostituirla. Eppure, una misura corretta può aiutare a indirizzare le proprie scelte e a investire in modo adeguato. Nei nuovi contratti IT sottoscritti dai responsabili delle diverse linee di business (LoB), impone come sempre determinati livelli di affidabilità, disponibilità, reattività e flessibilità nell’erogazione di servizi IT che sono critici per l’effettivo raggiungimento dei risultati. Ma per le nuove metriche il vero imperativo è “di tutto e di più”. A parità di spesa. Qualsiasi organizzazione che faccia un determinato uso delle tecnologie informatiche è chiamata ad affrontare la questione dei “nuovi” KPI se davvero vogliamo ottenere soddisfacenti livelli di brokering (arbitraggio), integrazione e orchestrazione dei servizi IT “business oriented” resi possibili dalla Terza Piattaforma e dalla sua pletora di acceleratori di innovazione.
La trasformazione digitale richiede una misurazione differenziata per i molteplici contributi che l’IT offre a supporto degli obiettivi di business, partendo tuttavia da due presupposti. Come nel caso delle reti di distribuzione di corrente elettrica, gas o acqua, una LoB si aspetta semplicemente di ricevere servizi affidabili e ad alto rendimento, senza preoccuparsi minimamente delle caratteristiche dei canali di erogazione, dei meccanismi di accumulazione e delle fonti utilizzate. Allo stesso modo, le funzionalità informatiche sono sempre di più viste come qualcosa che deve esserci quando serve. Tutti i servizi di natura tecnica impiegati a supporto dell’IT, non destano alcun interesse nei responsabili di business le cui carriere e i cui salari dipendono dal raggiungimento di obiettivi di business che sono però condizionati dal digitale. In conclusione, tutto questo significa che la trasformazione digitale non può più essere misurata con i tradizionali parametri legati, per esempio, a un efficiente impiego delle capacità dei server, delle risorse di banda e da tante altre “tecnicalità”. Bisogna utilizzare il linguaggio dei bilanci e dei business plan, con i valori normalmente condivisi nelle sale dei consigli di amministrazione, negli uffici degli investitori e dal top management. IDC fa una distinzione tra KPI “a consuntivo” e KPI “preventivi” per individuare nel primo caso quei parametri che misurano i risultati ottenuti (ROI, ammortamento dei costi, entrate contabilizzate e così via) e che possono aiutare a delineare una chiara, ripetibile aspettativa di business da cui trarre un ordine di priorità per le iniziative di trasformazione di più lungo termine. I KPI preventivi invece fungono da predittori di tipo operativo per la misura dei risultati raggiunti, dei progressi fatti e del complessivo successo di obiettivi di business a breve termine (pipeline di vendita, soddisfazione del cliente, miglioramenti nei processi e così via), cosa che a sua volta consente alle varie iniziative di trasformazione digitale di affrontare situazioni di “fail fast”, in cui l’eventuale cattiva riuscita di una decisione viene identificata subito, evitando eccessivi accantonamenti di fondi su tematiche improduttive.