La discussione sui possibili effetti dell’automazione di nuova generazione, la Industry 4.0, sui livelli di occupazione ci deve far riflettere sull’importanza dei cambiamenti di ispirazione tecnologica che sono in atto e sull’urgenza di adeguamento di modelli pensati in tempi che addirittura precedono la prima industrializzazione. Sono riflessioni dovute, specie in questo clima elettorale, alla fine di una legislatura che, al di là dei giudizi, ha avuto il merito di portare certe tematiche alla ribalta. L’annoso dibattito sulla digitalizzazione della burocrazia e del business, fa emergere la necessità di una trasformazione culturale profonda, capace di rivoluzionare interi processi di produzione e trattamento.
Per una testata come Data Manager, che sorveglia la rivoluzione informatica sin dagli esordi, e per i suoi lettori è facile, quasi doveroso, cedere al fascino esercitato dall’evolversi delle tecnologie software, o di fenomeni come l’IoT, l’Internet delle cose. Il software che diventa pervasivo al punto da poter instillare dosi pur minime di “intelligenza” anche in oggetti meccanici, abilitando anche la materia inanimata al dialogo, all’interazione che caratterizza i sistemi informatici più complessi. L’informatica senza silicio, o con una modica quantità di chip, sensori e automazione trapiantati su oggetti del tutto “stupidi”, per secoli dipendenti dal giudizio e dalla mano dell’uomo ai quali erano asserviti.
In realtà, sappiamo bene che nella difficile equazione dell’innovazione su base tecnologica il fattore umano non è una variabile trascurabile. E che nemmeno la più potente iniezione di tecnologie può, da sola, trasformare modi di fare (e di pensare) che a volte – vedi il caso della burocrazia – precedono addirittura la prima rivoluzione industriale.
Leggendo della volontà di rifocalizzazione di un colosso high-tech come Canon, protagonista a tutto tondo della dematerializzazione dell’intera catena produttiva dell’informazione grafica e seguendo il dialogo intessuto tra i partecipanti alla tavola rotonda sulla Smart Industry, si capisce meglio il valore – e le difficoltà – di una trasformazione a tutto tondo. Non solo quella digitale di una informatica consolidatasi nelle aziende nell’epoca che ha preceduto cloud computing e IoT, ma soprattutto la “trasformazione analogica” che coinvolge il nostro modo di pensare, lavorare, amministrare. Di una cultura che paradossalmente sembra aver dimenticato che, dopotutto, il vantaggio dell’intelligenza naturale su quella artificiale sta nella capacità di sorprendere.
La preoccupazione per i posti di lavoro persi per colpa dei robot di nuova generazione o del machine learning, è motivata, ma la risposta adeguata non consiste nel bloccare il cambiamento, bensì nel ridiventare protagonisti della trasformazione, reinventando noi stessi, le nostre politiche industriali, i percorsi della scuola e della formazione professionale, concepita in un’epoca in cui eravamo i soli a essere capaci di prendere decisioni. Non sarà una strada facile da percorrere, resa com’è ancora più impervia dalla narrazione di una crisi permanente che investe l’economia e le istituzioni, travolge la fiducia nel futuro, toglie la voglia di pensare alle possibili soluzioni. Forse, rendendo un po’ più analogiche le tecnologie digitali, riportandole al contesto di umanità che le ha generate e perché no, imparando da loro, ritroveremo l’entusiasmo necessario per illuminare il percorso che abbiamo davanti.