Per anni il governo cinese ha monitorato le comunicazioni dell’Unione Africana tramite microfoni spia nel quartier generale e furti periodici dai server
Nel gennaio del 2012, Addis Abeba aveva salutato la nascita del nuovo quartier generale dell’Unione Africana. Il palazzo era stato costruito ed equipaggiato tecnologicamente grazie a un fondo del governo cinese di circa 200 milioni di dollari. La finalità? Ben poco etica, visto che per cinque anni, la struttura ha inviato in Cina comunicazioni e documenti classificati, senza che nessuno potesse accorgersene. Esattamente nel gennaio del 2017, un’indagine sui network di sistema aveva individuato alcune vie digitali preferenziali alquanto strane tra l’Etiopia e Shangai. Queste non erano state avvallate dall’Africa che, di fatto, è stata spiata da Pechino tramite furti periodici di informazioni e microfoni spia, installati nelle diverse stanze della sede.
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Cosa è successo
Come spiega un report di Le Monde, dopo ogni mezzanotte dal 2012 al 2017, i tecnici cinesi prelevavano dai data center di Addis Abeba ciò che volevano, creandosi un vero database sul paese e sui legami con le altre nazioni. Tra i numerosi file, molte conversazioni vocali ottenute dai microfoni mai individuati dal persone della sede centrale dell’Unione. Non è chiaro come e quando tali elementi siano stati sfruttati dal governo cinese che ha fatto presto a negare ogni violazione, come del resto fa per le varie accuse di spionaggio mosse in giro per il mondo.
Non può ovviamente essere un caso, anche se sono attese ulteriori indagini, soprattutto per capire a chi appartenga il server a Shangai depositario dei segreti africani, ad oggi attribuito a un’utenza anonima. Non è da escludersi dunque un’attività di hacking ad opera di terzi che, visto l’ambito, pare alquanto chiaro sia da collegare agli interessi internazionali del dragone rosso.