Cinzia Leone, connessi e disintegrati

In un mondo di connessioni, lo sguardo delle donne ha la capacità di cogliere i segnali del cambiamento. «L’algoritmo è conformista, non è rivoluzionario»

Il cliente è la specie più difficile da catturare. «Il target che si vuole colpire è sempre più instabile e infedele, soprattutto quello femminile, da sempre bombardato dalla pubblicità e oggi accerchiato dagli algoritmi di machine learning» − ci spiega la scrittrice, giornalista, visual facilitator e autrice di graphic novel, Cinzia Leone che con la blogger Francesca Chelli ha tenuto al Festival della Comunicazione di Camogli un incontro dal titolo Pink marketing. Come difendersi e vivere felici. Se le vie del marketing sono finite, benché siano diventate multicanale, quelle del racconto si intrecciano, passando dalla dimensione reale a quella digitale, mettendo insieme mezzi e linguaggi diversi.

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«Le novità nascono dalla Rete e arrivano sulla carta stampata» – spiega Cinzia Leone. «Andiamo sempre più verso un modello ibrido di comunicazione dove, le connessioni si moltiplicano e gli strumenti si potenziano a vicenda ma non si annullano». Le connessioni caratterizzano non solo la tecnologia, ma anche la natura dei rapporti umani. Viviamo in un complesso di storie individuali e collettive che modellano le nostre identità. Le informazioni passano da un device all’altro, utilizzando codici diversi. Tutto questo ha un impatto sulle relazioni che intratteniamo, sulle nostre abitudini e sulle nostre possibilità espressive. «Siamo connessi, ma anche un po’ disintegrati» – afferma Cinzia Leone. «Siamo iperconnessi ma iniziamo a scollegarci dal centro dei problemi. Siamo al centro ma costantemente alla periferia. Questo genera uno spaesamento geografico ed emotivo. Siamo costantemente online, bombardati di informazioni, eppure sempre meno capaci di capire quello che accade intorno a noi».

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Cinzia Leone è artigiana delle parole e artista delle immagini. Ironia e capacità di mettere insieme le cose, non le fanno difetto. Parola d’ordine: multitasking. Gomma e penna wireless, matita e scanner. Un arsenale ibrido che permette di «potenziare la creatività» e di seguire il processo creativo, «che è nomade per definizione». Il Pink marketing è una categoria della scienza delle vendite ma anche una chiave di lettura per tracciare l’identikit della donna d’oggi. Il modo di parlare alle donne, spesso intriso di stereotipi, ha subito una profonda evoluzione. «Le grandi aziende hanno capito che l’80 per cento degli acquisti in famiglia è deciso dalle donne. Anche se non si può parlare veramente alle donne quando i board continuano a essere composti solo da uomini». L’immagine della donna sta cambiando: moglie, madre e professionista affermata “che vive con il tempo e la performance”. Da uomo – in dichiarato conflitto di interesse – penso che bisognerebbe liberare le donne anche da questo ultimo stereotipo di perfezione che le tiene inchiodate, permettendole finalmente anche di sbagliare (e di guadagnare) alla pari di un uomo. E forse, dovremo smettere di parlare di donne al plurale, come se fossero tutte uguali, tutte votate a una sola causa, una sola idea, una sola volontà. Dalla mistica della calza alla casalinga di Voghera, l’immagine della donna ha sempre oscillato tra ambivalenze e ambiguità. Da esiliata a viaggiatrice consapevole della cultura e del sapere. Oggi, sempre più protagonista, la donna non è solo soggetto di storie di successo, ma anche autrice. Perché, come scriveva Virginia Woolf, quando le donne cominciarono a scrivere “qualche forza fece sì che scrivessero romanzi”. E la letteratura disegnata, o “graphic novel”, è materia viva di questo cambiamento. «Non solo aumentano le protagoniste femminili ma aumentano le lettrici. Il fumetto rispecchia e spesso anticipa i fenomeni della società. E lo sguardo delle donne ha sempre la capacità di cogliere i segnali del cambiamento». Parola di Cinzia Leone.

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Data Manager: Nell’era delle connessioni, com’è cambiato lo story telling delle imprese?

Cinzia Leone: Le storie non sono tutte uguali. In principio, era l’immagine, non la parola. La Cappella Sistina è un esempio di story telling. La Colonna Traiana è un altro esempio unico di narrazione sequenziale. L’evoluzione della narrazione va dalle caverne al tablet e comprende tutto: i graffiti e i banner. Le impronte di mani preistoriche sono state la prima infografica dell’umanità. E molte di quelle mani erano femminili. La rete ha solo moltiplicato il fenomeno narrativo.

Immagini e parole insieme sono più forti oppure l’attenzione del lettore/elettore/consumatore è più debole?

La narrazione dipende dal contesto, dal target e tende alla semplificazione e all’immediatezza. Lo smartphone anticipa la cronaca del grande tabloid. I social aggregano la narrazione delle nostre vite. Così la comunicazione è sincronica e diacronica. Nella geometria della rete, immagini e parole insieme occupano più spazio e attirano più attenzione. Un’accoppiata molto potente e complessa, che però deve essere gestita con cura. Un’immagine può essere una scorciatoia o un momento di grande sintesi. Molto dipende dalla nostra capacità di leggere le immagini. È una questione di linguaggio e di codici. Per descrivere un’immagine ci vogliono molte parole. Ma le parole rispetto alle immagini sono più evocative e permettono di ricostruire nella mente la propria Anna Frank o la propria Anna Karenina. L’immagine invece non permette di uscire fuori dalla sua impronta. L’immagine è più potente ma più impositiva. La parola ha un grado di libertà superiore.

Fumetto e tecnologia: come si coniugano linguaggi diversi?

La rete ci ha abituato all’alto e al basso. È un ritorno al papiro. Basta vedere come si srotolano le pagine web. Gli stumenti determinano anche la direzione dello sviluppo. La prima scrittura è stata bustrofedica: aveva una direzione fissa, quella dell’aratro nel campo. Oggi, è quella dello smartphone.

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Iperconnessi ma scollegati dal centro dei problemi. Che cosa significa?

L’overloading di informazione sta facendo saltare l’intermediazione. E questo è molto pericoloso e anche molto superficiale. Una trappola anche per le imprese. Stiamo perdendo due grandi capacità: la selezione e la concentrazione. Che sono due momenti della creatività ma anche della comunicazione e del pensiero critico. Connessi va bene, ma connessi nel modo giusto e con le “cose” giuste.

L’ascolto è la prima regola della relazione?

L’azienda deve essere in ascolto. La potenza degli algoritmi seduce perché rende potenti. Ma questa potenza è solo apparente perché finisce per proporci cose già acquistate, ex mariti e vecchi fidanzati. Gli algoritmi hanno trasformato i social in grandi banche dati dei consumi. Dobbiamo essere capaci di governare tutto questo. Le aziende possono conoscere i nostri gusti, ma non il nostro desiderio di cambiamento. L’algoritmo è conformista, non è rivoluzionario. Le aziende meglio guidate sono quelle che hanno imparato non a comunicare il prodotto ma il mondo di riferimento, costruendo una narrazione continua con il cliente.

Sappiamo veramente chi è il nostro cliente e quali sono i suoi desideri?

In generale, il cliente di oggi è sicuramente più evoluto di quello che comprava l’Ovomaltine. Le donne sono le regine dei consumi. E questo determinerà dinamiche nuove anche nella società. Più le aziende saranno capaci di dare ascolto alle differenze – percependo i cambiamenti della narrazione, senza imporre la propria – più saranno vincenti.

La parola da cancellare?

Non c’è nessuna valenza politica. Ma vorrei cancellare la parola “rottamazione”, sostituendola con “manutenzione”. Dobbiamo manutenere sentimenti, mondi e storie.

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