Mentre il Piano Industria 4.0 mostra segnali di successo con una crescita degli ordini del 28,5 per cento nel secondo trimestre del 2017, è già arrivato il momento di guardare all’Industria 5.0. In attesa di un nuovo Rinascimento industriale italiano, occorre un cambio di passo. Non è in discussione il “saper fare” delle imprese italiane, ma la capacità di fare sistema
Al di là di ogni semplificazione che ha trasformato l’espressione Industry 4.0 in una specie di “buzzword”, nel suo duplice significato di mix di tecnologie abilitanti e di piano di investimenti predisposto dal ministero dello Sviluppo economico, lo scenario della “fabbrica connessa” è molto complesso, soprattutto per i manager e i decisori aziendali chiamati a governarlo e a implementarlo, anche nella prospettiva dell’integrazione tra robotica avanzata e intelligenza artificiale, dove la relazione uomo-macchina è sempre più stretta e dove ricerca e produzione dialogano direttamente a bordo linea. Secondo i dati resi noti dall’ultima assemblea dell’UCIMU, nel secondo trimestre gli ordini di macchine utensili e robot sono in crescita del 28,5 per cento. Un dato che certifica che il piano di incentivi predisposto dal ministro Carlo Calenda sta funzionando e che gli investimenti sono ripartiti. Certamente, l’efficacia delle misure (il superammortamento del 140 e l’iperammortamento del 250 per cento) si potrebbe misurare solo in un’ottica di lungo periodo, ma al momento non è chiaro se ci saranno spazi di manovra in finanza pubblica per rendere più strutturali gli incentivi. Segno che il peso del deficit resta il principale ostacolo di una politica economica in grado di riavviare il sistema operativo del Paese e sbloccare energie e crescita.
«In questa fase di profonda trasformazione, la mappa delle imprese italiane presenta molti chiaroscuri» – dichiara Salvatore Majorana, direttore del Technology Transfer dell’Istituto Italiano di Tecnologia, aprendo i lavori del WeChangeIT Forum di Data Manager. La Commissione europea pubblica ogni anno l’Innovation Scoreboard. L’Italia per molti decenni è stata al 15esimo posto su 28. Poi siamo scivolati al 16esimo, superati anche dalla Repubblica Ceca. Se guardiamo bene, i numeri sono abbastanza tristi. Anche per il 2017, l’Italia perde posizioni e, con un punteggio di 75,1, resta nel gruppo di coda dei Paesi innovatori moderati. Ricerca e sviluppo sono fattori determinanti per l’innovazione. In pratica, significa che i paesi più ricchi investono di più ed è per questo che sono più ricchi. In Italia, la ricerca pubblica investe poco meno della metà dell’uno per cento del PIL. I privati stanno molto peggio, poco sopra la metà della media europea. A fronte di questi dati che ci dicono che siamo un po’ un fanalino di coda di questo “treno” ad alta velocità, abbiamo però una capacità di generare competenza e tecnologie straordinarie. Negli ultimi anni, l’indice di citazione medio dei lavori di ricerca universitari (Field Weighted Citation Impact) mostra che l’Italia è più letta ed è più studiata di quanto non lo sia la produzione scientifica nel Nordamerica e in Europa. Vuol dire che facciamo una produzione scientifica di qualità ed è un bene che non dovremmo dimenticare. Il vero tema è trasferire questo tipo di conoscenza al sistema produttivo per scaricare a terra questa energia di attivazione. All’interno dell’Istituto Italiano di Tecnologia, Salvatore Majorana svolge un ruolo attivo nell’identificazione dei business model e nella strutturazione di spin-off della ricerca, sviluppando partnership strategiche con imprese e operatori finanziari. Le collaborazioni con le imprese industriali italiane e internazionali dell’Istituto spaziano dalla robotica alla scienza dei materiali, dalle neuroscienze ai sistemi di produzione di energia rinnovabile. «Occorre un cambio di passo per cogliere le opportunità, se non si vuole perdere definitivamente la sfida della competizione industriale. Non è in discussione il “saper fare” delle imprese italiane, ma la capacità di fare sistema» – spiega il nipote del famoso matematico Ettore Majorana. «Bisogna avere più coraggio per valorizzare l’innovazione e credere in chi fa impresa». Bisogna affrontare il tema dell’innovazione sia dal punto di vista culturale sia degli incentivi come sta facendo il MISE, ma prestando attenzione a intercettare le reali esigenze delle imprese, predisponendo misure adeguate, non isolate, e adottando un metodo di lavoro basato sul monitoraggio dei risultati perché la politica degli incentivi non si riduca alla fine in un semplice aumento di spesa. Dal super ammortamento al credito di imposta per il progetto di ricerca fino alle misure di sovvenzione alla formazione e all’adeguamento professionale del personale sono tutte misure che contano.
«Quando cambierà il lavoro, e già è cambiato, dovremo insegnare alle nostre persone a lavorare in un contesto nuovo ed è lì che si giocherà la sfida» – mette in guardia Majorana. «Non tanto nell’introduzione di una nuova tecnologia, ma nel far funzionare tutto il sistema che c’è intorno a un nuovo asset tecnologico». Del resto, la capacità delle persone di adattarsi al cambiamento è una variabile che non possiamo controllare, perché il tempo di adattamento non è comprimibile. Pur nel balletto delle cifre, delle modiche agli incentivi e degli investimenti, che alimentano il dibattito e anche le polemiche, dobbiamo tornare a fare programmi a 20 anni, come fanno i paesi più innovativi, e dobbiamo fissare degli obbietti sul ruolo che come Paese pensiamo di poter esercitare (o meritare) nei prossimi trent’anni. Al contrario, abbiamo sempre lasciato l’iniziativa delle imprese. E grazie al cielo, le imprese hanno dimostrato di essere creative e capaci di intercettare il cambiamento. Peccano – però – di capacità di aggregazione e di eccesso di personalismo. Lo sforzo di rimanere piccole, autonome e indipendenti in un mondo globalizzato non è più una scelta che premia: la tecnologia ha accelerato i movimenti di capitali, uomini e merci. Ha ridotto le frontiere. E, oggi, il confronto è con i giganti dell’Est.
Data Manager: Cominciamo con la rivoluzione industriale, che sta modificando così velocemente il mondo delle imprese, delle organizzazioni e del lavoro come lo conosciamo oggi. Per qualcuno l’Industry 4.0 è un treno in corsa. O ci salti su o resti tagliato fuori. Ma è consigliabile saltare su un treno ad alta velocità di cui però non si conosce la destinazione?
Salvatore Majorana: Assolutamente sì. Assistiamo a un aumento straordinario della velocità di adozione di nuove tecnologie, che spesso comprendiamo nelle loro piene potenzialità solo dopo averle utilizzate per un certo tempo. In questo senso, il nostro sistema produttivo non può permettersi di rallentare e restare a guardare: o si sale sul treno o si perde la partita. La manifattura rappresenta oltre quattro quinti delle esportazioni complessive e rimane il settore di punta della nostra economia, quello dove si concentra l’innovazione. Parliamo di un unico mondo produttivo ibrido che abbraccia i tre tradizionali comparti produttivi, primario, secondario e terziario.
In questa fase di profonda trasformazione, la mappa delle imprese italiane presenta molti chiaroscuri. Qual è il ruolo dell’Istituto Italiano di Tecnologia per aiutare l’innovazione e il trasferimento tecnologico?
L’IIT ha una duplice missione: generare conoscenza, attraverso ricerca scientifica di altissima qualità, e favorire il trasferimento delle soluzioni tecnologiche al sistema produttivo. Sul fronte del trasferimento tecnologico, l’IIT attivamente ricerca imprese capaci e/o interessate a includere nuove tecniche, materiali, sensori, farmaci nel loro ciclo di crescita. Oggi, gestiamo circa 120 progetti all’anno con imprese consolidate, dalle medie imprese alle multinazionali, italiane e non. Abbiamo sviluppato la formula dei laboratori congiunti, abbiamo attivato una trentina di contratti di licenza su brevetti e favorito il lancio di 17 nuove imprese innovative. Siamo una piattaforma di ricerca aperta al sistema delle imprese, che opera con regole chiare e trasparenti.
L’Italia sa ancora “inventare” cose nuove “che piacciono” al mondo, ma sembra che questa capacità si sia ristretta a un pugno di imprese all’avanguardia. È veramente così?
Non credo che siano poche le imprese italiane capaci di portare innovazione e sviluppare “cose che piacciono”. Al contrario c’è tantissima Italia nei prodotti e nei sistemi industriali di tutto il mondo. Quello che facciamo veramente male, almeno nel settore delle tecnologie, è comunicare questa enorme capacità inventiva del nostro Paese.
Ricerca, sviluppo e innovazione. Il complesso delle imprese italiane mostra un forte divario di capacità innovativa rispetto ad altri sistemi avanzati e forti differenze tra settore pubblico e privato. Ma è sufficiente un “pin” se il cambiamento non coinvolge anche i processi?
Gli investimenti in innovazione nel nostro Paese sono veramente bassi se confrontati con il nostro PIL e, dal mio punto di vista, drammatici se parliamo di giovani idee alla ricerca dei primi fondi. Questo dato, confrontato con il precedente, dovrebbe farci arrabbiare tutti: siamo tra i paesi al mondo che generano più cultura, e tra quelli che in quella cultura investono di meno. A pensarci sembra proprio una follia. E finiamo con il regalare il nostro investimento agli altri, a partire dalla nuova emigrazione di laureati.
Quando sente parlare di Industry 4.0, che cosa la convince di più e cosa la convince di meno?
L’aspetto che trovo più convincente è quello delle misure predisposte per favorire il processo di rinnovamento, dal credito d’imposta al super ammortamento, passando per gli aspetti fondamentali della formazione e riqualificazione dei lavoratori. Lo Stato ha infatti un peso importante nel processo di cambiamento, e credo abbia mostrato di saper interpretare questo momento storico. Quel che mi convince di meno è la confusione che percepisco sul significato di “industria 4.0”. Sì perché dal punto di vista di chi lavora a contatto con la ricerca, sotto questo titolo troviamo un insieme, più o meno organizzato, di tecnologie che, prese singolarmente, sono già mature (o molto mature). La grande novità va ricercata nel nuovo modo di guardare al sistema produttivo, che può finalmente essere trattato come un organismo integrato a monte e a valle. La fabbrica esce dal perimetro della fabbrica e diventa un tassello integrato del Sistema, capace di rispondere a esigenze molto diversificate in maniera flessibile e rapida.
Gli investimenti e le misure di cui l’Italia si è dotata con il Piano Industry 4.0 promettono di accompagnare le aziende in questa fase di trasformazione. Ma bastano per riavviare il sistema operativo del Paese?
Gli incentivi sono importanti. Da soli, però, non sono sufficienti. Occorre definire una roadmap chiara per sostenere gli investimenti e la ricerca, eliminando quei fattori abilitanti, che invece di favorire l’adozione di innovazione da parte dell’imprese, la frenano o la bloccano. Penso all’ordinamento, alla legalità, alla tutela della concorrenza, all’efficienza delle amministrazioni pubbliche, al sistema di istruzione, alla finanza. Il pacchetto varato dal MISE ci fa ben sperare, ma l’impegno a supportare la trasformazione del sistema produttivo non può limitarsi a questo: una maggiore attenzione ai fondi per la formazione e la ricerca è un dovere che abbiamo verso i nostri figli, così come dobbiamo fare lo sforzo di dotarci di programmi a 15 o 20 anni e perseguirli con determinazione. Non si pensi infatti che fornire più denari a scuole e università possa da sé colmare il divario tra ricerca e impresa. È ormai imperativo rivedere i modelli di funzionamento del sistema educativo e della ricerca per incentivare il dialogo con l’industria. Penso a KPI chiari e oggettivi su cui misurare il rendimento della ricerca e ai quali collegare, ad esempio, modelli premianti: chi è bravo a rapportarsi con l’impresa merita di ricevere più mezzi di chi non attiva modelli collaborativi. Per facilitare il processo di rinnovamento, occorre superare molte complessità che affliggono la vita degli imprenditori, perché su quelle ci giochiamo una partita importante. Dalla richiesta di una concessione per un sito produttivo fino al sistema della Giustizia. Bisogna fornire a chi fa impresa tempi più certi su cui fare i propri programmi.
Invece, le imprese vincenti hanno imparato a fare a meno dei fattori abilitanti di sistema. Se potessimo recuperare quell’energia, forse potremmo correre di più ed essere più competitivi?
È vero. L’Italia è un paese fondato su meccanismi che disperdono molte energie. Però le aziende vincenti non sono quelle che fanno a meno del sistema ma quelle che il sistema lo sfruttano meglio di altre. Vedo due azioni possibili da mettere nella roadmap: la prima riguarda la semplificazione del sistema burocratico, la riduzione delle incertezze, il ripristino di un principio di equità fiscale. La seconda riguarda il superamento del sistema delle microimprese, facilitando le aggregazioni per portare sul mercato mondiale gruppi più solidi e capaci di confrontarsi con le vere sfide dei prossimi decenni.
Sicuramente, abbiamo bisogno di un nuovo modello, che non può essere quello Alitalia. Allora come si cambia, pensando al lavoro e alle sfide che abbiamo davanti?
Il lavoro è già cambiato, e le tecnologie hanno avuto la loro parte in questo. Quello che finora è cambiato poco è il modo di intendere il lavoro, di inquadrare la formazione professionale, di comprendere in che direzione si va. L’introduzione di nuove tecnologie non può, e non deve, essere fermata. E proprio per questo il lavoro deve imparare a stare al passo. Le nostre imprese sono in ritardo, e se è vero che investiamo poco in ricerca, forse dovremmo pensare a quanto, ma soprattutto come, investiamo in formazione del personale. Su questo punto, il programma di Industry 4.0 ha avuto il coraggio di mettere un chiaro accento. Il modello Alitalia, direi che dovremmo metterlo da parte. Invece di guardare agli interessi personali, dobbiamo guardare agli interessi del sistema. Fare gli interessi del sistema aiuta anche a realizzare i propri. Storicamente la lezione arriva da lontano. Il grande Impero romano aveva la capacità di fare sistema.
In conclusione, bisogna avere più coraggio e saltare sul treno dell’Industry 4.0?
Non è in discussione il “saper fare” delle imprese italiane, ma la capacità di fare sistema e parlare con una voce soltanto. Siamo giganti per creatività ma a livello di investimenti early stage siamo nani. L’Industry 4.0 è un treno che potrebbe non ripassare se lo dovessimo perdere.
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