Neil Harbisson, ai confini dell’identità

Mente e corpo. La transizione bio-tecnologica del primo artista cyborg della storia

Neil Harbisson è un compositore, visual artist e fotografo. Inglese di nascita, spagnolo di adozione. Affetto da una rara patologia, la acromatopsia congenita, che non gli permetteva di vedere i colori, Neil Harbisson ha deciso di superare questa condizione, iniziando una “transizione” bio-tecnologica che lo ha portato alla creazione della Cyborg Foundation. Per lui, il cielo è sempre stato grigio e la televisione in bianco e nero. La Pantera Rosa, Greenpeace e Profondo Rosso non hanno mai avuto molto significato. Ma dal 2004, ha deciso di dare una svolta alla sua condizione, lavorando al progetto Eyeborg, un sensore in grado di trasformare la frequenza della luce in onde sonore che vengono inviate a un chip installato nel cranio. Una specie di impianto cocleare a conduzione ossea, che ha cambiato completamente non solo il suo modo di vedere il mondo, ma ne ha ampliato la percezione oltre i cinque sensi. Quando mi trovo seduto davanti a Neil Harbisson, nella piccola stanzetta grigia e senza finestre del Centro Congressi di Milano, in occasione della dodicesima edizione del SAS Forum, non so bene cosa pensare. Siamo uno di fronte all’altro. Lui vestito di nero. Taglio di capelli da novizio. Io indosso il mio solito gilet arancione e non posso fare a meno di pensare che effetto gli farà. In attesa di iniziare l’intervista, faccio finta di niente, ma non riesco a staccare lo sguardo dalla sua antenna che disegna un arco dalla nuca fino alla fronte. Quella stranezza ha lo stesso effetto dell’uncino del capitano dei pirati, nelle avventure di Peter Pan. Anzi, Neil Harbisson è Capitan Uncino e Peter Pan insieme. L’antenna di Harbisson ha un richiamo potentissimo. È una dichiarazione al mondo intero di autodeterminazione.

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Prima di incontrare Neil Harbisson, non sapevo se considerarlo un artista che ha saputo trasformare la sua disabilità in un punto di forza, un genio della body art 3.0, oppure un “fenomeno” e basta. Una cosa è certa. Harbisson non sta solo modificando il suo corpo: sta potenziando i suoi sensi per andare oltre la normale percezione di quella che lui stesso definisce «realtà reale» e che non ha nulla a che fare con la realtà virtuale o realtà aumentata. La sua antenna è un tentativo di agire sulla materia viva del suo corpo. Un’opera d’arte a tutti gli effetti, che fa discutere. Non una protesi per rimediare a una disabilità. Ma un gesto artistico radicale. Per diventare il primo “cyborg project vivente”, Harbisson ha dovuto fare i conti con il pregiudizio delle persone, con la reticenza ufficiale dei medici, la morale della società e anche la legge. Per noi, Neil Harbisson è una delle infinite possibili varianti di quella macchina già perfetta, che è l’essere umano. Del resto, la tecnologia è empowerment. Serve a ridurre le differenze che creano squilibrio. A trovare soluzioni a problemi complessi. A comprendere la realtà che ci circonda. A renderci più umani e meno soli. A scoprire chi siamo veramente, facendo – però – attenzione a non confondere il mezzo con il fine. Chi ancora oggi concettualizza le tecnologie come “corpi estranei” alla “natura umana” dimentica o ignora l’articolata relazione tra soggetto e strumento che – se riletta in chiave evolutiva e neurofisiologica – mostra che in realtà noi agiamo e pensiamo anche in funzione degli strumenti o delle macchine che utilizziamo per interfacciarci con il mondo e le altre persone. Questo fatto non significa trascurare eventuali rischi, ma valutarli con maggior consapevolezza e coscienza critica.

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L’ansia di distinguere tra “naturale” e “artificiale” non è quasi mai dovuta a una volontà tassonomica di marcare un confine sulla base di dati di fatto, ma nasconde l’intenzione, più o meno cosciente o subdola, di confondere l’essere e il dover essere. Già Hume, secoli fa, ci metteva in guardia dal non sovrapporre i due piani. Lo aveva ben compreso Kubrick, mostrando all’inizio di 2001: Odissea nello spazio come il primo strumento tecnologico, un semplice osso usato come una clava, avrebbe determinato l’intera evoluzione dell’uomo. E a ribadirlo di recente sono stati anche i giudici della Corte Suprema americana, quando hanno stabilito che gli smartphone costituiscono una sorta di protesi del nostro corpo. Di che cosa ci meravigliamo, allora? La tecnologia in tutte le sue forme e declinazioni, dalla scrittura alla stampa, dalla ruota allo smartphone, passando per le nanotecnologie, internet, la chirurgia dei trapianti e degli impianti, trasforma ogni cosa. E forse – lo dico a me stesso – prima di giudicare quello che ancora non riusciamo a comprendere, dovremmo fare lo sforzo di metterci in ascolto per capire che identità e trasformazione stanno tra loro come materia e forma, essere e divenire.

Data Manager: Che rapporto hai con la tecnologia?

Neil Harbisson: Per me la tecnologia non è semplicemente un tool o un wearable. Ma è parte del mio corpo: io stesso sono tecnologia. Studiando musica, ho approfondito il rapporto tra luce e suono. Entrambi hanno una frequenza ed entrambi hanno un colore. I primi tempi, dopo l’impianto, mi sforzavo di memorizzare i nomi dei colori associati alle note. è stato come imparare a parlare una lingua nuova, immerso in una realtà che non conoscevo. Poi il mio cervello si è adattato e tutte queste informazioni sono diventate percezione. Non dovevo più pensare alle note. Come capita di non pensare più alle parole da tradurre in un’altra lingua. Diventa automatico. E anche i sogni sono diventati a colori.

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Adesso la tua visione è “normale”?

Normale è una parola che non mi piace. Sono arrivato a percepire tutti i gradi del cerchio cromatico. Ma poi ho pensato che potevo spingermi oltre e ho aggiunto gli infrarossi e gli ultravioletti. Del resto, nella realtà esistono molti più colori di quelli che l’occhio umano riesce a percepire. Pensiamo agli insetti. Io non riesco comunque a vedere i colori come le altre persone, ma riesco a percepirli in un modo completamente diverso, registrando le frequenze di tutto ciò che vedo e così posso realizzare dei ritratti sonori delle persone, che diventano poi anche impronte visive.

Che cosa è cambiato?

Il livello di percezione di tutto ciò che mi circonda. Anche i suoni normali, come il campanello della porta o la suoneria del cellulare stanno diventando colore. La cosa funziona in entrambe le direzioni. Quando entro in una galleria d’arte è come andare a un concerto, perché ogni dipinto ha una sua musicalità. Mi piace Warhol perché le sue opere producono suoni netti e distinti. Quando mi vesto, non abbino i colori, ma armonizzo i suoni. Anche il modo di percepire la bellezza e il rapporto con le persone sono cambiati. La bellezza è una questione di armonia e si può sentire e vedere. E non è una caratteristica che hanno tutti.

Come ti definiresti?

Mi considero un cyborg, una specie differente di essere umano modificato. Non si tratta della somma di due sensi, ma della creazione di un senso completamente nuovo.

Qual è la cosa più difficile?

All’inizio, la cosa più difficile è stata trovare un chirurgo disposto a operarmi. Ho ricevuto molti no ufficiali. Mi dicevano che il dispositivo era pericoloso. Come negli anni Sessanta, la chirurgia per il cambiamento di sesso non era accettata dai comitati di bioetica, oggi, non è accettata la chirurgia per il passaggio da una specie a un’altra.

E poi che cosa è successo?

Un medico si è offerto di operarmi durante il suo giorno di riposo, ma ho dovuto firmare una clausola di riservatezza. Dopo l’operazione, la cosa più difficile è stata spiegare perché lo avevo fatto. Essere me stesso è l’impresa più grande. Perché siamo veramente noi stessi quanto più ci avviciniamo all’idea che abbiamo di noi. Tutti abbiamo un progetto dentro di noi da realizzare. E in ciascuno di noi, c’è un’opera d’arte che aspetta di essere portata alla luce.

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Sei religioso?

Non sono religioso. La mia sperimentazione non è contro un dio creatore che ci ha fatto a sua immagine e somiglianza. Anzi, la considero una collaborazione.

Che cosa significa potenziare i sensi?

I sensi sono la nostra unica via di accesso alla conoscenza della realtà. Forse, sono una gabbia. Potenziare i sensi non significa alterare la realtà, ma accedere a un livello di conoscenza più profondo. Sono al quarto upgrade della mia antenna e mi sento pronto per l’innesto di un altro organo di senso. Per la prima volta, possiamo fare un salto evolutivo interspecie.

Quali sono i rischi?

A parte qualche mal di testa, sono già stato hackerato una volta e può essere molto fastidioso. Se gli stimoli diventano troppo forti o fastidiosi, copro la mia antenna con le mani o la spengo se voglio restare in silenzio. Più o meno come fanno tutti, quando si coprono le orecchie o gli occhi per non vedere o sentire.

Perché hai creato la Cyborg Foundation?

Per aiutare le persone che vogliono intraprendere il mio stesso percorso di trasformazione, integrando la tecnologia all’interno del corpo. La mia prima battaglia nella rivendicazione dei diritti dei “cyborg” è stata con il ministero degli Interni inglese che non accettava la mia foto con l’antenna sul passaporto. Ho sostenuto che si trattava di una parte del mio corpo, e alla fine hanno ceduto. Nel database della fondazione, ci sono sperimentazioni per impianti di memoria, sensi per percepire in anticipo i cambiamenti di pressione della crosta terrestre per prevedere i terremoti, occhi bionici dotati di sensori per la visione notturna.

La tecnologia funziona come una leva dell’evoluzione umana?

Io penso che l’evoluzione sarà intraspecie. Quando la tecnologia diventerà organica e gli impianti potranno essere stampati direttamente nel DNA, potremmo scaricare ogni tipo di up-grade e potremo connetterci molto di più con la natura. Credo che la vita sarà molto più emozionante se smettiamo di creare applicazioni per gli smartphone e iniziamo a creare applicazioni per il nostro corpo.