Intelligenza artificiale, nuove connessioni e paradigmi. Alle radici della conoscenza per una nuova alleanza tra sapere scientifico e cultura umanistica
Nel libro “La nascita imperfetta delle cose” (2016, Rizzoli Editore), il fisico Guido Tonelli raccontava l’avventura della ricerca della “particella di Dio”. Nel suo ultimo lavoro, “Cercare mondi” (2017, Rizzoli Editore) è sulle tracce delle particelle più misteriose e delle galassie più remote dell’Universo. Professore di Fisica Generale dell’Università di Pisa, ricercatore del CERN di Ginevra e tra i protagonisti della scoperta del bosone di Higgs, a Tonelli piace immaginare un mondo in cui a tutti siano date le stesse opportunità: «Studiare, inseguire le proprie passioni, fare avanzare la conoscenza». Nato in un piccolo paese di montagna alle pendici delle Apuane («Vengo da una famiglia di artigiani, operai e contadini»), le sue radici sono ancora vive nei ricordi, nelle storie di duro lavoro, e nelle sventure che hanno segnato le esistenze dei suoi genitori e dei suoi nonni. Oggi, si sente un cittadino del mondo e ha la fortuna di godere di molti privilegi, ma non dimentica quanto è importante tenere i piedi ben piantati per terra. Tra gli ospiti più attesi dell’ottava edizione del Festival di antropologia del contemporaneo, Dialoghi sull’uomo, che si terrà a Pistoia, capitale Italiana della Cultura, dal 26 al 28 maggio, per Tonelli la ricerca scientifica più avanzata è un «racconto meraviglioso» che ci porta alla scoperta dell’origine dell’Universo e anche di noi stessi. La storia di una «grande avventura» e dei suoi protagonisti, uomini e donne che esplorano gli angoli più reconditi della materia, per fare un viaggio all’indietro nel tempo verso il «non-luogo da cui è nato il tutto». Ma che cosa ci renderà più umani? La tecnologia o la cultura? Se la tecnologia è soprattutto empowerment, nel modo in cui consente connessioni e interazioni sempre più complesse, e come leva della nostra capacità di evolverci, per il fisico italiano, è senza alcun dubbio la cultura il vero fattore di crescita e sviluppo. «La tecnologia ci può aiutare a risolvere una grande quantità di problemi pratici e può anche consentirci di allargare i nostri orizzonti culturali, ma senza la riflessione su di sé e sul proprio ruolo nel mondo c’è il rischio di perdersi. Di cultura e in modo particolare di cultura umanistica c’è oggi più bisogno che mai» – mette in guardia Tonelli. «Proprio perché viviamo in un mondo in cui scienza e tecnologia progrediscono a grande velocità, dobbiamo tutti sentire l’urgenza di fare in modo che la cultura umanistica tenga il passo». Chi se non i filosofi, gli umanisti, gli artisti, potranno dare senso all’esistenza umana nell’epoca del dominio della scienza e della tecnologia? Chi altri potrà aiutare l’umanità a fare i conti con i cambiamenti di paradigma che incombono, discutendone le implicazioni, valutandone rischi e opportunità?
Data Manager: La dimensione artificiale rappresenta il nostro prossimo step evolutivo?
Guido Tonelli: L’intelligenza artificiale sta facendo enormi progressi. Macchine che imparano velocemente dai loro errori saranno presto capaci di sostituirci in molte delle attività che svolgiamo abitualmente. Basti pensare alla guida dell’automobile. Noi saremo, con molta probabilità, l’ultima generazione di umani che guiderà personalmente una propria autovettura. Fra breve verranno immesse sul mercato le prime auto a guida automatica. Per un po’ il sistema sarà misto, poi, quando si vedrà che gli umani sono molto più pericolosi, e che le loro auto provocano molti più incidenti di quelle a guida automatica, la guida umana verrà bandita. Lo stesso accadrà, prima o poi, per treni, navi e aerei. Questo stesso meccanismo è destinato a travolgere prima o poi, le principali attività manifatturiere e produttive, tutte quelle impiegatizie e burocratiche, ma anche molte, considerate più nobili ed esclusive, come l’insegnamento o la medicina. Tutto questo costituirà una nuova sfida. Liberati dall’incombenza di occupare una grossa frazione del nostro tempo in attività ripetitive, l’umanità avrà la possibilità di sviluppare pienamente quelle attività creative che oggi sono appannaggio di una piccola frazione di privilegiati. La vera questione sarà se l’organizzazione sociale vigente consentirà questa transizione o se il privilegio rimarrà confinato a una parte ristretta della popolazione.
Scienziati sempre meno tecnici in camice bianco e sempre più filosofi?
Quest’idea che lo scienziato sia un essere stravagante, che viva in un mondo tutto suo, circondato da formule e teoremi è uno stereotipo vecchio a morire. Ci sono certamente colleghi così, che vivono in una specie di “torre d’avorio”, ma sono una piccola minoranza. Penso che anche fra gli idraulici, i notai o i pizzaioli sia presente la stessa percentuale di persone “mono-maniacali”, interessate cioè solo al proprio lavoro. Conosco decine di scienziati come me, appassionati d’arte, di letteratura, di politica. Persone che sono così curiose nel capire i segreti della natura, perché non dovrebbero essere altrettanto interessate a quello che succede in altri campi del sapere e dell’agire umano?
Lei si sente più scienziato o più filosofo?
Sono uno scienziato che sente fortissimo il bisogno di confrontarsi con chi spinge in avanti la ricerca in tutti i campi del sapere, non solo la filosofia, ma anche l’arte. Ho forte curiosità per i temi filosofici, anche se non ho le competenze necessarie per padroneggiarli. Cerco quindi il confronto, ascolto gli studiosi che scavano in profondità in questi ambiti e provo a capire. Mi capita spesso di scoprire che ci spinge la stessa curiosità e che ci interroghiamo sulle stesse domande. Gli strumenti che usiamo sono certamente diversi ma, alla fine, la domanda di partenza è sempre la stessa.
Che cosa sappiamo dell’Universo?
Dell’Universo sappiamo molto, sia della sua origine che della sua fine. Sappiamo che è nato da una fluttuazione quantistica del vuoto e che, per certi versi è ancora vuoto. Un vuoto che si è trasformato in una gigantesca struttura spazio-temporale nella quale si distribuiscono materia ed energia, che ha preso cioè una forma meravigliosa. Tuttavia, sono ancora molte le questioni aperte: chi ha scatenato l’inflazione cosmica, di cosa è fatta la materia oscura, da dove nasce l’energia oscura, che fine ha fatto l’antimateria e perché è così difficile unificare la relatività generale e la meccanica quantistica. Non c’è bisogno di ipotizzare alcun intervento divino per spiegare quello che osserviamo o i molti misteri su cui si sta ancora investigando. Questo non toglie valore all’atto di fede che coinvolge molti, scienziati e non. Avere fede vuol dire affidarsi a qualcosa di sovrannaturale, che si colloca appunto al di fuori della natura, al di fuori quindi dell’unico ambito nel quale la scienza può operare.
In Italia, continua la strana contrapposizione tra cultura scientifica e umanistica. Lei cosa ne pensa?
Questa contrapposizione non mi piace affatto, la considero un retaggio del passato, da superare al più presto. Per millenni, l’interesse scientifico e quello filosofico si sono intrecciati nelle stesse persone, basti pensare ai grandi come Aristotele o Democrito per giungere fino a Galilei, Newton e lo stesso Einstein. Nel Novecento, è cresciuta la separazione e le due discipline si sono radicalmente specializzate. La crescita esponenziale della scienza in generale e della fisica in particolare ha richiesto lo sviluppo di apparati concettuali e tecnici molto sofisticati, basti pensare a relatività o meccanica quantistica, che hanno contribuito a creare ulteriore difficoltà di dialogo. La filosofia sembra quasi avere rinunciato a discutere dei contenuti della scienza concentrando l’attenzione sui problemi del linguaggio e su questioni epistemologiche in generale. Personalmente, ritengo che questa divisione debba essere superata e auspico un dialogo sempre più profondo fra scienziati e umanisti. Bisogna conoscerci a vicenda, fidarsi gli uni degli altri e fare uno sforzo per avvicinare le varie discipline. Entrambi ne abbiamo bisogno. I cambiamenti nella visione del mondo prodotto dall’avanzamento della scienza e della tecnologia produrranno profondi mutamenti nelle relazioni fra individui e nell’organizzazione sociale.
I manager delle aziende che cosa possono imparare dal suo lavoro di scienziato?
Non so se possono imparare qualcosa, ma sicuramente ci sono molti aspetti in comune fra le nostre professioni, pur così diverse. Guidiamo grandi ed eterogenee comunità di individui che cercano di raggiungere un obiettivo comune. L’orizzonte in cui ci muoviamo è il mondo intero. L’ambiente in cui si agisce è spesso ostile e pieno di incertezze. I nostri budget, per quanto grandi, sono limitati e dobbiamo rispettare scadenze che ci sono imposte da una feroce competizione. Abbiamo una grande passione per il nostro lavoro e siamo capaci di coltivare per decenni sogni e ambizioni. Non ci spaventa il lavoro duro e neanche il rischio di fallire, abbiamo messo in conto che può capitare. Sappiamo che la differenza fra un successo clamoroso e una catastrofe può essere una questione di dettagli. E per questo, si dorme poco la notte. Mi capita spesso di visitare aziende con le quali collaboriamo per lo sviluppo di tecnologie più avanzate e ho parecchi amici fra manager di compagnie molto importanti. Molti di loro sono appassionati di fisica e passiamo ore a discutere di multiversi o di supersimmetria. Non può essere un caso, una pura coincidenza. C’è sicuramente qualcosa di più profondo che ci accomuna.
L’Italia è un insieme di grandi talenti e contraddizioni. In che cosa sono bravi gli italiani e che cosa dobbiamo imparare?
Io ho la fortuna di lavorare in un campo di ricerca, la fisica delle alte energie, in cui il nostro Paese gioca un ruolo importante e che ci viene riconosciuto a livello internazionale. Questo purtroppo non vale per molti altri settori. Non ci manca il talento individuale e siamo spesso capaci di inventare soluzioni per uscire dalle situazioni più difficili. Una certa dose di creatività e di fantasia ci viene riconosciuta praticamente in tutti i campi. Quello che ci manca è l’umiltà di riconoscere che siamo un disastro sul piano dell’organizzazione. Siamo costituzionalmente incapaci di organizzare le cose in maniera leggera, semplice e pragmatica. Qui dobbiamo rinunciare a fare le cose di testa nostra e accettare di copiare dagli altri, quelli che sono di gran lunga più bravi di noi: gli svizzeri o i tedeschi, per non parlare degli americani e giapponesi. Se imparassimo a mettere insieme l’efficienza organizzativa di questi paesi e l’estro e la creatività di cui siamo capaci, potremmo fare cose incredibili.