Rilevanza, continuità, crescita: la trasformazione digitale mette in discussione tutte le strategie per assicurare il futuro delle aziende, in ogni settore. I modelli tradizionali per affrontare i cambiamenti del mercato si rivelano inadeguati; l’ingresso di nuovi concorrenti, più veloci nell’innovazione, mette a rischio posizioni di leadership conquistate in lunghi anni di lavoro.
Il dato emerso nel 2015 dalla ricerca “Digital Vortex” del Global Center for Business Transformation, ovvero che quattro incumbent su dieci avrebbero potuto perdere nel giro di cinque anni il loro vantaggio competitivo se non avessero compreso e abbracciato al livello più alto nell’azienda la digital transformation, è tutt’ora valido: anzi, nel giro di così poco tempo, altri trend tecnologici allora emergenti – penso per esempio alle intelligenze artificiali o al machine learning – sono usciti dagli ambiti di nicchia e si sono imposti all’attenzione collettiva.
A fronte di questo scenario, il rischio più grande che un’azienda può correre è quello di pensare che tutto sommato la digitalizzazione sia una questione di IT: qualcosa da cui “mettersi al riparo” semplicemente ammodernando servizi e piattaforme tecnologiche, da “sfruttare” offrendo alle proprie linee di business soluzioni più agili ed efficienti, senza però affrontare adeguatamente l’aspetto organizzativo e culturale.
In realtà, la digital disruption è spinta dalla pervasività della tecnologia, ma diventa pervasiva nell’azienda – e diventa una incredibile opportunità di crescita – solo se l’evoluzione tecnologica diventa parte integrante del modo di essere e stare sul mercato di ogni specifica impresa. Solo se le sue potenzialità sono sfruttate filtrandole attraverso la “lente” dei suoi obiettivi, della sua storia e delle sue persone.
Facciamo un esempio. E’ assodato ormai che la possibilità di ottenere grandi quantità e nuovi tipi di dati, connettendo alla rete e fra di loro oggetti, persone e processi rappresenta una grande opportunità di crescita. La possibilità di analizzare questi dati e trasformarli in informazioni utili per ottenere più produttività, efficienza e innovazione ha bisogno certamente di soluzioni tecnologiche per la connettività e le analytics. Prima ancora, però, ha bisogno delle conoscenze delle persone che lavorano quotidianamente nell’azienda. Solo le persone possono dare un senso a questi dati, per indirizzare la ricerca di informazioni nel modo adatto a risolvere uno specifico problema, per modificare un processo operativo o “vedere” possibilità di innovazione. E l’organizzazione deve dare spazio alle persone, abbandonando rigidità ancora diffuse a favore di un approccio collaborativo, aperto al contributo di tutti.
Per affrontare la trasformazione digitale quindi dobbiamo partire dalle persone, dai processi e dalla cultura. Dobbiamo essere consapevoli che la chiave del successo è fare emergere il valore del nostro know-how, il nostro patrimonio di capitale umano, di esperienza e di professionalità, in un contesto digitalizzato. Per farlo, mentre investiamo in tecnologie, dobbiamo assicurarci che le persone abbiano le competenze necessarie ad “attivare” il loro sapere attraverso i nuovi strumenti e gli spazi per esprimerle, quali che siano la loro posizione gerarchica e il loro ruolo.
Agostino Santoni, amministratore delegato di Cisco Italia