L’intelligenza artificiale che non fa paura

intelligenza artificiale come arma

Il dibattito sul cognitive computing comincia a tingersi dei toni della preoccupazione. Nel mondo produttivo, dobbiamo già misurarci con l’impatto occupazionale di una automazione sempre più spinta, capace di portare a termine operazioni di assemblaggio molto complesse, andando così non più a sostituire ma ad affiancare le capacità dell’uomo. Se già oggi la robotica industriale è in grado, a costi accessibili e comunque ammortizzabili, di prendere il posto della forza lavoro umana nelle fabbriche, che cosa succederà quando l’intelligenza artificiale di nuova generazione riuscirà a prendere decisioni ancora più complesse e sensibili, sostituendosi a esseri umani che hanno studiato a lungo per sviluppare specifiche competenze?

Su questo tema – e sulle eventuali conseguenze dell’automazione spinta sul piano della redistribuzione di risorse e profitti economici – il mondo sarà impegnato a discutere nei prossimi anni, a tutti i livelli. Nel frattempo però, l’intelligenza artificiale sta diventando un fenomeno sempre più concreto e accanto al solito universo di geniali startup, capaci di muoversi in modo tattico su diversi mercati, ci sono aziende di enorme reputazione che esortano a fare scelte più strategiche e per questo mettono a punto portafogli di offerta, iniziative di marketing e comunicazione, contenuti che promuovono il cognitive computing in chiave ancora più culturale che tecnologica.

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C’è un dominio di importanza fondamentale in questa fase di trasformazione digitale del business, dove gli strumenti dell’informatica cognitiva, in particolare il machine learning, l’apprendimento automatico, possono già oggi fare la differenza, senza dare spazio a troppi dubbi su chi continuerà ad avere il controllo della decisione. Questo dominio si chiama Big Data, una vera e propria visione filosofica del dato come ingrediente della vitalità dell’azienda, della sua capacità di accelerare il go-to-market e incrementare la qualità di prodotti e servizi, di competere sul mercato, di generare margini nuovi attraverso l’invenzione di cose e approcci del tutto nuovi.

E c’è una figura sempre più trasversale e “al di sopra delle parti” chiamata data scientist, che sempre più spesso troveremo nelle aziende là dove dai dati si cerca di estrarre valore, passando dal mero numero alla reale conoscenza. Per quanto possa essere bravo, il data scientist ha a che fare con un universo di dati molto intricato, che – secondo gli esperti – richiede una lunghissima fase preparatoria per permettere a questi “minatori” della conoscenza di esercitare il loro intuito analitico. Per l’azienda “knowledge driven”, inoltre, sarà importante riuscire a estendere le capacità analitiche anche a coloro che senza aver studiato da data scientist potrebbero prendere decisioni migliori grazie agli analytics.

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Il cognitive computing può diventare un partner estremamente interessante in entrambi i casi. Può velocizzare il lavoro preparatorio del data scientist e affiancare il decisore meno esperto rendendo in parte automatica l’analisi, suggerendo possibili collegamenti, rendendo visibili certe correlazioni. Una intelligenza artificiale che non fa paura perché lavora con l’uomo senza prendere il suo posto.