Il data center è morto. Viva il data center!

Le aziende devono però avviare progetti di differenziazione infrastrutturale, in chiave multicloud, in grado di mettere fine al concetto di infrastruttura monolitica che ha guidato l’evoluzione del data center fino ad oggi

Con l’avvento del cloud e le sue promesse di semplificazione, agilità ed economicità, in molti avevano ipotizzato una precoce fine del data center aziendale a favore di servizi cloud erogati da megadata center di terzi. La realtà si è però dimostrata ben diversa da quanto ipotizzato, non tanto per i modi, quanto soprattutto per i tempi di realizzazione. Il cloud è sicuramente il principale pilastro su cui le aziende devono investire per l’evoluzione del data center in un’ottica di digital transformation (DX). Tuttavia, inizialmente il suo sviluppo in Italia, soprattutto nel modello di delivery pubblico e ibrido, ha incontrato diversi ostacoli che ne hanno rallentato l’adozione. Citiamo il digital divide molto spinto in diverse aree italiane; la questione della localizzazione del dato; i timori per la sicurezza delle informazioni e della privacy; offerte contrattuali non sempre chiare; data center non pronti a dialogare con l’esterno a causa di ambienti legacy non facilmente “cloudizzabili”.

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Fortunatamente, la percezione del cloud è contestualmente maturata, evolvendo da “panacea” di tutti i problemi legati al data center a valido strumento al quale le aziende si stanno rivolgendo per avviare il percorso di trasformazione digitale. Tale approccio è sostenuto anche dagli investimenti che in Italia hanno portato la spesa complessiva in public cloud a 850 milioni di euro nel 2016, con una crescita che supera il 28% rispetto al 2015, e che si prevede supererà il miliardo di euro nel 2017 (con una crescita del 24% circa). Le ragioni di tali investimenti sono riconducibili alle esigenze delle aziende sempre più alla ricerca di soluzioni che rendano effettivamente agili e flessibili le proprie infrastrutture.

Per massimizzare gli investimenti passati, senza perdere i vantaggi che le tecnologie digitali portano in termini di innovazione, le aziende devono portare avanti progetti di differenziazione infrastrutturale, che mettano fine al concetto di infrastruttura monolitica che ha guidato l’evoluzione del data center fino ad oggi. CIO e IT manager dovranno adottare un’infrastruttura ibrida che li metterà nelle condizioni di distribuire servizi da un pool di risorse IT in grado di disegnare soluzioni “tailor made”, capaci di soddisfare le effettive esigenze del business. Esigenze che sono più legate a bisogni di reattività e time-to-market che non a ragioni economiche. In questo contesto, quindi, le aziende dovranno cogliere il meglio che soluzioni di private cloud, colocation, hosted cloud e public cloud offrono sul mercato, per disegnare una soluzione di cloud ibrido o meglio ancora multicloud che “calzi a pennello” rispetto alle proprie necessità di gestione IT e di supporto al business.

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Software defined infrastructure

Per effettuare questo passaggio, non è più possibile prescindere dall’adozione di soluzioni software defined per il computing, lo storage e il networking, che disaccoppino le capacità di elaborazione, archiviazione e di networking dalla componente hardware fisica per offrirle in modalità di servizio. Il passaggio alla software defined infrastructure permette di ridurre le barriere all’ingresso, aumentare la scelta dei clienti e ridurre al minimo il vendor lock-in, andando a impattare positivamente sui costi e flessibilità e liberando risorse per un migliore allineamento tra IT e business. Nell’ottica della ricerca della flessibilità, svolgono un ruolo altrettanto importante i modelli di sottoscrizione dei servizi cloud. A tal proposito, le indagini condotte da IDC mostrano come nel corso dei prossimi anni oltre il 40% della spesa IT infrastrutturale delle aziende sarà basata sul modello pay-as-you-go. Ancora una volta, a guidare gli investimenti in quest’ottica sarà il giusto mix tra maggiore flessibilità, migliore time-to market e maggiore economicità, oltre a un sempre più consistente spostamento dei costi da CAPEX a OPEX. Questo avverrà sebbene in alcuni casi l’eccessiva variabilità dei costi possa essere vista come un elemento poco gestibile nei budget aziendali, alla costante ricerca di una spesa predeterminata e certa.

Ulteriore motivo che sta spingendo le realtà italiane ad adottare tale tipologia di modelli è l’opportunità di misurare l’effettivo consumo di IT da parte delle LOB e quindi poter finalmente applicare un corretto chargeback, trasformando anche in questo caso in realtà una delle chimere dei primi deployment del cloud. Ma non è tutto qui. Nei processi di selezione, le aziende porranno il modello pay-as-you-go come uno dei requisiti fondamentali nella selezione dei propri partner infrastrutturali, ponendo immediatamente fuori dal mercato quegli attori che non saranno in grado di soddisfarlo. Nelle scelte per le evoluzioni tecnologiche, il “cloud first” diventerà quindi sempre più la regola, tanto che nella battaglia per l’approvvigionamento di soluzioni e servizi ICT che mette a confronto tre differenti approcci – buy vs. build vs. cloud –, quest’ultima risulterà la soluzione sempre più richiesta e quindi quella con le carte in regola per essere anche vincente. Questo approccio da parte delle aziende spinge IDC a stimare che entro pochi anni oltre il 40% della spesa ICT delle aziende italiane in nuovi prodotti, soluzioni e servizi sarà cloud based.

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Contestualmente, si assisterà a un’accelerazione nel percorso di adozione di cloud ibrido e soprattutto di multicloud, tale che entro qualche anno le aziende più orientate all’innovazione e che avranno fatto della flessibilità il proprio mantra, avranno oltre la metà dei propri asset IT al di fuori del data center aziendale. Nello stesso orizzonte temporale, le aziende avranno molti più dati archiviati all’esterno delle proprie infrastrutture on-premise di quanti risiederanno sui data center aziendali. Tale situazione imporrà tanto una revisione delle strategie di cloud storage per favorire l’integrazione e la migrazione tra ambienti differenti, quanto un ridisegno delle policy per la gestione della sicurezza, della privacy e degli SLA con i cloud service provider.

Workload-Centric Cloud

La transizione all’hybrid cloud e al multicloud impone l’adozione di soluzioni per la gestione dei cloud che sia workload-centrica. Per questo motivo IDC prevede che nei prossimi 18-24 mesi tre aziende su quattro adotteranno soluzioni di gestione che siano Workload-Centric Cloud (WCCMS), al fine di automatizzare l’assegnazione di ogni singolo workload alla risorsa cloud corretta in termini di costi, performance, sicurezza e accordi contrattuali. L’automatismo sarà basato su policy predeterminate e contribuirà ad alleggerire il personale IT da attività manuali e con scarso valore aggiunto. L’adozione di soluzioni di questo genere avrà maggiore probabilità di avere un esito positivo dove ci sarà un’efficace, effettiva e possibilmente open based esposizione delle applicazioni business critical tramite API. Questo è vero sia per le applicazioni di nuova generazione, che nativamente prevedono un’esposizione via API, sia per le applicazioni monolitiche di vecchia generazione per cui diventa necessaria una scomposizione in micro-servizi per una loro esposizione. Tale approccio consentirà di favorire la circolazione delle informazioni tra le applicazioni, evitando silos informativi e abilitando in questo modo la costruzione di modelli predittivi per lo sviluppo di un processo di decisione informato. Il cloud in tutte le sue forme non potrà sostituire i data center on-premise, le aziende però devono continuare a investire nell’evoluzione tecnologica della propria infrastruttura ICT per consentirle di interagire con l’esterno in modo veloce, agile e sicuro.

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Sergio Patano, senior research and consulting manager di IDC Italia