Biologia e tecnologia VS mine anti-uomo

mine anti-uomo

Circa mezzo milione di persone in tutto il mondo e 15-20mila individui ogni anno viene ferito o ucciso da mine terrestri. Più di 100 milioni di tali dispositivi sono ancora nascosti nel sottosuolo di oltre 70 Paesi.

Un problema.

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Qualcuno – più o meno elegantemente – avrà esclamato “siamo nella cacca!” senza immaginare di essere a un passo dalla soluzione.

E’ questa l’idea di alcuni studiosi dell’Università Ebraica di Gerusalemme e in particolare di una squadra di ricercatori dell’Istituto di Scienze Umane Alexander Silberman di Givat-Ram che hanno saputo ben incrociare tecnologie, biologia e chimica prendendo spunto dai sofisticati dispositivi sempre più spesso utilizzati per il rilevamento “automatizzato” di esplosivi nell’area merci e bagagli degli aeroporti o in altri contesti in cui una deflagrazione potrebbe rivelarsi fatale oltre le normali condizioni di pericolo che la contraddistinguono.

Gli scienziati israeliani sono arrivati all’incredibile scoperta che ha portato a riconoscere una sorta di utilità in batteri come l’Escherichia Coli (temutissimi da chi avverte malesseri in area intestinale e vescicale), che possono aiutare le attività di individuazione degli ordigni interrati a profondità variabili nei terreni teatro di conflitto.

L’attenzione si è concentrata proprio sul temuto e infido microrganismo unicellulare, responsabile di svariate infezioni dell’apparato urinario e non solo. La chiave di volta dell’esperimento risiede nelle piccole quantità di vapore rilasciate dal trinitrotoluene (più comunemente tritolo), l’elemento chimico principalmente usato negli ordigni esplosivi.

Precedenti studi avevano rilevato che il batterio (presente abbondantemente sia nell’ambiente circostante sia all’interno dell’intestino dei mammiferi), se messo a contatto con il DNT (Dinitrotoluene, il precursore del tritolo) assumeva una particolare colorazione verde fluorescente.

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Tale peculiarità ha permesso agli scienziati di arrivare alla soluzione di quella che nei paesi dilaniati dalle guerre è vista come la maggior causa di morte.

Interrate quindi in una piccola fetta di suolo diverse bombe disinnescate, hanno incapsulato circa 100.000 cellule batteriche in perle composte da polimeri derivanti da alghe e letteralmente spruzzate sul terreno durante la notte.

Nelle successive 24 ore, il ricorso ad un laser ha consentito di riconoscere da una distanza di 20 metri la fluorescenza dei batteri a contatto con il vapore emanato dalla sostanza esplosiva. La dinamica appena descritta ha permesso di “mappare” la disposizione delle mine e ha consentito di individuare le migliorie ritenute necessarie da apportare.

L’aumento della sensibilità e della stabilità dei sensori batterici, l’ampliamento della velocità di scansione del laser per coprire grandi aree e la riduzione delle dimensioni dell’apparecchiatura (così da poter esser utilizzata all’interno di veicoli senza pilota o droni) sono alcune delle modifiche prese in considerazione per perfezionare il risultato del progetto.