Fuga di talenti dalla Silicon Valley e indipendenza della California? L’effetto della vittoria del Tycoon sugli investimenti e il settore hi-tech
Trump è il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Una vittoria oltre ogni previsione. Quello che sembrava essere quasi un finale scontato per queste elezioni 2016, si è rivelato un incredibile colpo di scena. Ma, al di là delle simpatie o non simpatie personali, che cosa significa la vittoria di Trump per la Silicon Valley? Un senso di generale e diffusa tristezza è stato il sentiment prevalente che si è registrato dopo la vittoria di Donald J. Trump. «L’orrore, l’orrore» – è stato questo il grido di Shervin Pishevar, venture capitalist della società Sherpa Capital che ha fortemente sostenuto la candidatura di Hillary Clinton. «Non abbiamo fatto abbastanza» – ha aggiunto. Ancora, Stewart Butterfield, co-fondatore di Slack, il servizio di messaggistica aziendale, ha dichiarato: «Ho il cuore spezzato».
Per alcuni, la reazione è frutto di una consapevolezza profonda: il rapporto tra il governo e il settore hi-tech sembra destinato a cambiare radicalmente. Durante gli anni di Obama, la Silicon Valley è arrivata a vedere se stessa come il motore economico e sociale del nuovo secolo digitale. Gli smartphone e i social network sono diventati talmente importanti per le imprese da divenire uno strumento indispensabile. Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft sono diventati i grandi giganti del Pianeta. Obama ha saputo utilizzare molti di questi strumenti digitali e ha sempre avuto un atteggiamento accomodante nei confronti della loro ascesa. Ora questo rapporto rischia di essere lacerato. Infatti, Trump ha promesso di avviare azioni antitrust contro Amazon; più volte ha promesso di costringere Apple a produrre i suoi prodotti negli Stati Uniti; e poi ha chiesto un boicottaggio della società quando ha sfidato l’ordine del governo di sbloccare l’iPhone di un terrorista. Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft non hanno rilasciato commenti sulla vittoria di Trump. Ma è evidente che si profila un grande cambiamento.
I leader di questi colossi hanno a lungo parlato di ambiziosi progetti relativi a un futuro in continuo progresso. I loro obiettivi non erano semplicemente economici ma anche filosofici e democratici. Certo i soldi sempre al primo posto, ma non senza l’idea di rendere il mondo un posto migliore, realizzando una sorta di giustizia sociale. Un domani alimentato da software anziché da fabbriche, offrendo una sorta di connettività radicale con la promessa di un futuro di pace e prosperità diffusa.
Muri o ponti
L’anno scorso, Sundar Pichai, amministratore delegato di Google, ha pubblicato un ampio rimprovero nei confronti del piano di Trump di vietare l’ingresso di musulmani negli Stati Uniti. Mark Zuckerberg, co-fondatore e amministratore delegato di Facebook, ha detto a un pubblico di sviluppatori che «invece di costruire muri, dobbiamo essere in grado di aiutare le persone a costruire ponti». La preoccupazione più profonda è che la tecnologia è al passo con l’umore nazionale e globale, e non è evidentemente riuscita a riconoscere le ansie sociali ed economiche che attraversano attualmente l’America.
«Nella tecnologia, abbiamo bisogno di una scala di grandezza per confrontare i fenomeni. Guardiamo il mondo attraverso la lente di metriche aggregate come il numero di pagine viste e di utenti attivi» – ha scritto in una email Danielle Morrill, l’amministratore delegato di una startup chiamata Mattermark. «Ma questo non significa che abbiamo veramente compreso le persone che si trovano dall’altra parte dello schermo in quanto individui. Questo è il pericolo, e l’opportunità». Eppure, alcune persone hanno sentito una rinnovata ispirazione ad agire in maniera ancora più audace per realizzare le loro visioni progressive. Mark Suster, imprenditore seriale di successo e attualmente impegnato come investment partner per Upfront Ventures, ha detto che «il settore hi-tech ha bisogno di prendere un respiro profondo e di riflettere su quanto accaduto». Aaron Levie, l’amministratore delegato di Box, una società di archiviazione di documenti online, ha suggerito che il settore tecnologico può farsi promotore di cambiamento anche quando affronta questioni politiche specifiche: «Per passare a un’economia guidata dall’innovazione, abbiamo bisogno di andare avanti sulle questioni di cui abbiamo parlato nella Silicon Valley per anni, come l’istruzione, la riforma dei brevetti e quella dell’immigrazione».
Effetto Trump
L’altro profilo da non sottovalutare è quello relativo alle scelte politiche che saranno adottate da Trump relativamente all’immigrazione. Sicuramente le premesse non sono delle migliori. Certo è che la Silicon Valley è una sorta di stato in miniatura di cittadini del mondo. Secondo un’analisi della National Foundation for American Policy, più della metà delle startup tecnologiche (con una valutazione che supera il miliardo di dollari) ha almeno un immigrato tra i fondatori. La grande incognita è se la presidenza Trump porterà a una fuga di talenti. Naturalmente non è chiaro quali politiche di immigrazione potrebbero essere perseguite dall’amministrazione Trump o da un Congresso con una netta maggioranza repubblicana sia alla Camera sia al Senato. Durante la sua campagna elettorale, Trump si è sempre rivelato supporter di limiti più rigorosi in materia di immigrazione. Come se tutto ciò non bastasse a destare scompiglio nel mondo dei venture capital, dopo il risultato delle elezioni statunitensi, è ritornato, ancora più forte di prima, il tema della cosiddetta Calexit. Si tratta del proposito della California di abbandonare gli USA.
A poche ore dai risultati delle elezioni, l’hashtag “Calexit”, la “Brexit” della California, è diventato popolare sui social network. Il tutto basandosi sul concetto chiave che la California, da sola, è oggi la “sesta potenza economica mondiale”. Ma quella che prima poteva essere un’idea strampalata di una frangia di indipendentisti, dopo la vittoria di Trump ha cominciato a trovare un sostegno concreto. Il concetto di una secessione pacifica dagli States tramite referendum ha colpito anche qualche big della Silicon Valley, come Shervin Pishevar, co-fondatore di Hyperloop, che ha annunciato sui social di voler finanziare la campagna per la Calexit come scelta patriottica: «La California è il motore economico degli Stati Uniti e la sesta economia mondiale. Forniamo una grande percentuale al bilancio federale. E abbiamo un peso politico importante. Per questo dobbiamo poter valutare di muoverci da soli». Non possiamo sapere se la California uscirà veramente dagli USA. Di sicuro, i venture capital sono stati scossi nelle loro certezze. E ora devono rimboccarsi le maniche.