Smart city e IoT – Il bit che ci circonda

L’ultimo appuntamento delle tavole rotonde di Data Manager nel 2016 è dedicato alla IoT e alla sua principale articolazione, la smart city. ll verdetto? Necessaria una maggiore concertazione tra pubblica amministrazione e imprese, nel contesto di un nuovo sistema di regole e organizzazione

 

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L’Internet delle Cose è considerata il fondamento tecnologico di diverse grandi aree di trasformazione che riguardano l’automazione in fabbrica, il commercio al dettaglio, la sanità, la scuola e molto altro ancora. Ma a oggi, il terreno di prova forse più diffuso è quello che abbraccia i servizi e le applicazioni della smart city, che a loro volta alimentano – insieme al parallelo fenomeno della connected car e dei veicoli a guida autonoma – il grande impulso osservato in comparti come la machine-to-machine communication. La comunicazione tra i sensori e i dispositivi IoT è tuttavia solo una parte, pur rilevante, di uno scenario decisamente in crescita – come confermano del resto le cifre e le considerazioni che Daniela Rao, senior consulting & research director di IDC Italia ha sviluppato nel corso della tavola rotonda organizzata sul tema da Data Manager con l’ormai consueta collaborazione di Gruppo UniCredit. Le tecnologie IoT sono già in grado di aiutarci a gestire meglio l’energia, a risolvere le problematiche legate al trasporto di passeggeri e merci, combattere l’inquinamento, rinnovare gli strumenti e i canali della logistica e del commercio al dettaglio, implementare evoluti servizi di tipo medico-sanitario, potenziare l’educazione scolastica e rivitalizzare il turismo. Proprio per discutere di questa prima fase di maturazione dell’IoT, alla tavola rotonda hanno preso posto i rappresentanti di aziende, operatori finanziari, decisori della pubblica amministrazione, rispondendo, ancora una volta, a una nutrita serie di spunti e dando vita a una conversazione molto più “dialogata” del solito. Non sarà facile restituire la forte interattività, in sede di resoconto, ma questo è il nostro obiettivo.

VOLANO DI CRESCITA

Ai partecipanti è stato innanzitutto chiesto di raccontare le iniziative avviate, nelle aziende come nella PA. Data Manager ha cercato di raccogliere le opinioni del panel in relazione ai possibili rapporti tra IoT e innovazione all’interno delle organizzazioni, e alla capacità da parte di queste tecnologie di diventare un volano di crescita e un generatore di nuove opportunità di business, sempre nel pieno rispetto dei vincoli di sicurezza, privacy e compliance normativa impliciti in applicazioni così “disruptive” (pensiamo solamente ai veicoli a guida automatica). E naturalmente a tutti è stato chiesto di esprimere pareri sui fattori che frenano – o viceversa possono favorire – una maggiore digitalizzazione delle nostre imprese e delle aree urbane.

Daniela Rao di IDC Italia ha fornito una prima serie di valutazioni sul mercato IoT in Europa e in Italia, un ambito, ricorda l’esperta, che include le tecnologie IT ma anche oggetti e soluzioni finora esclusi dalla digitalizzazione. «In Europa occidentale – ha detto Daniela Rao – stiamo parlando di un valore di un centinaio di miliardi di dollari di cui l’Italia rappresenta circa il 13 per cento. Un mercato molto frammentato e sofisticato, due caratteristiche che lo differenziano rispetto al mercato IoT asiatico più “basic”, quantitativo, viste anche le dimensioni delle aree urbane». A sua volta l’Europa, con Francia, Regno Unito e Olanda le nazioni più vivaci, rappresenta il 22% del mercato mondiale misurato da IDC.

Chi investe oggi in soluzioni IoT e in quali aree? IDC individua una decina di aree di spesa ordinate in sei categorie: produzione industriale, commercio al dettaglio, mondo consumer, energia, trasporti e applicazioni intersettoriali (come gli smart building e le auto connesse). «Innanzitutto, vediamo il mondo consumer con i dispositivi wearable, il wellness e tutto il mondo assicurativo, connected car compresa, un’area destinata a crescere con dinamiche molto rilevanti nei prossimi anni». Bisogna rilevare che se il settore IT vale circa cinque volte l’IoT in Italia, oggi l’IT in senso stretto è un mercato piatto. «Tra qualche anno probabilmente non parleremo più di IT ma di un unico grande comparto IoT» – ha affermato l’analista di IDC. «Non è pensabile una evoluzione dell’ICT che non comprenda l’Internet delle cose e questa è la vera trasformazione». Al di là della spesa attribuibile ai consumatori, che rappresentano l’edge della rete e il punto verso cui si sposta l’intelligenza dell’oggetto connesso, il corpo umano è una vera frontiera dell’IoT per tutta una serie di attività come il pagamento, l’accesso a facility aziendali, i servizi di trasporto.

SMART CITY A CONFRONTO

Smarthome e movimentazione di persone e merci sono oggi le due aree più dense di progettualità, entrambe con buoni potenziali di crescita. Forte anche l’intera tematica infrastrutturale, dalle reti TLC all’energia. «Qui dominano fenomeni come le reti di telecomunicazione low range ma anche la smart grid e le altre infrastrutture distribuite» – sottolinea Daniela Rao, parlando di un ambito che rappresenta un terreno di confronto tra operatori di TLC e IoT. Il mondo del manufacturing viene valutato al terzo posto in funzione dei casi di studio osservati, pur essendo particolarmente frammentato e verticalizzato. «Abbiamo poi tutto il public sector, con creste contenute e fondi assegnati con molta calma, non solo in Italia ma anche in Europa e in Asia, dove viste le dimensioni si investe relativamente poco». Infine, il commercio al dettaglio che si muove soprattutto lungo gli assi della multicanalità e della user experience.

Per quanto riguarda la smart city, nell’estate 2016, IDC ha condotto uno studio basato su un questionario di self assessment relativo a 120 centri urbani europei. Alle singole amministrazioni è stato chiesto di valutare lo stato dell’arte dei rispettivi progetti di smart city in funzione di una scala valutativa a cinque livelli: dal minimo, rappresentato dalla messa in campo di singole iniziative “ad hoc”, isolate tra loro, fino al massimo delle città intelligenti “ottimizzate”, dove integrazione, innovazione e miglioramento continuo si traducono in un ecosistema di servizi solido, ben governato e finanziariamente sostenibile. Quasi la metà, il 44%, dei 120 soggetti preferisce collocarsi al primo livello: «In effetti – confessa Rao – ci aspettavamo che i progetti in Europa fossero un po’ più progrediti sulla strada della standardizzazione e della industrializzazione». Appena il 9% delle smart city prese in considerazione è al massimo stadio di maturazione. Tra i due estremi, ha proseguito l’analista, esistono situazioni molto variegate. Circa un quarto dei progetti, specialmente quelli del Regno Unito e paesi nordici, è arrivato al quarto livello, la cosiddetta area “managed”, entrando cioè già in ottica di governance senza tuttavia aver messo a punto un piano davvero ottimizzato. «Negli stadi iniziali, ha concluso Daniela Rao, sono molto importanti due elementi. Quello del budget che non sempre viene assegnato in via definitiva, cosa che si estende a diversi progetti non solo in Italia. Un altro tema è legato alla governance e agli stakeholder: risulta difficile individuare chi deve gestire la smart city, chi la finanzia, dove ha sede la sala regia».

L’UFFICIO IN CONDIVISIONE

Come ha spiegato Davide Rimonta, head Offices Projects and Digital Real Estate di UniCredit Business Integrated Solutions, la sensoristica dell’IoT aiuta il gruppo bancario nelle sue strategie di smart working ed efficientamento legato a una diversa gestione del patrimonio immobilare. Con il lavoro flessibile UniCredit sta rivisitando l’uso degli spazi fisici con l’introduzione di un concetto di desk sharing che, secondo Rimonta, «viene compensato nei confronti dei colleghi ai quali chiediamo di rinunciare allo spazio di lavoro esclusivo con un arricchimento del work setting, più adatto al variare delle attività durante la giornata». Secondo pilastro dello smart working è rappresentato dalla possibilità di lavorare una volta alla settimana da casa o da qualsiasi luogo infrastrutturato adibito a ufficio momentaneo. Grazie alla sensoristica, il team di Rimonta ha analizzato le percentuali di occupazione delle scrivanie in situazioni normali, fissando un coefficiente pari a 0,8 nelle sue regole di condivisione: 80 scrivanie non esclusive, ogni cento dipendenti. Inoltre, UniCredit sta per introdurre a Verona il primo edificio completamento “nativo” per il desk sharing. «Una piattaforma di realtime occupation monitoring ci aiuta attraverso la sensoristica a verificare in ogni istante le postazioni disponibili tra scrivanie e aree comuni».

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Sul puntuale intervento di Giuseppe Faraci, CIO and head of Clinical Engineering del Centro Medico Santagostino, una importante rete privata di poliambulatori medici, non convenzionati con il Sistema Sanitario Nazionale ma uniformati a una politica di prezzi calmierati, facilitati dall’uso molto efficiente delle risorse, emerge la rilevanza della tipologia di sensoristica. «La sperimentazione di UniCredit – secondo Faraci – richiama il lavoro che stiamo portando avanti per monitorare i tempi di visita, proprio perché un tempo ottimale dà risultati più efficaci». Il Centro medico si è posto la problematica di come taggare i pazienti e la strada giusta non può passare per l’uso di telecamere, troppo invasive dal punto di vista della privacy. «Stiamo ragionando sull’impiego di microcontrollori stile Arduino e di sensori di accesso, orientandoci su un discorso di controllo algoritmico, che sovrappone le agende di visita della giornata agli eventi che si verificano real time». Un problema, ribatte Rimonta, che anche UniCredit si è posto nell’analisi degli schemi di occupazione degli spazi nelle filiali, dove al posto delle videocamere – da escludere per analoghe regole di compliance normativa – o di mappe termiche (più adatte secondo Rimonta allo studio di importanti flussi all’interno di grandi spazi chiusi, tipicamente i centri commerciali), vengono misurati i tempi di attesa o di servizio erogato da sportelli e desk consulenziali.

IL CAR POOLING IN BANCA

Tra gli strumenti per la gestione degli spazi di lavoro condivisi in UniCredit c’è anche la nuova app che verrà rilasciata per la prenotazione in tempo reale delle risorse disponibili. «Tra le novità, abbiamo introdotto un concetto di check-in che riduce il numero di risorse prenotate ma non utilizzate, e che utilizza ancora meglio le risorse che si sono liberate, risultando così nuovamente prenotabili». Il controllo dei livelli di occupazione ha infine importanti ricadute sul tema dell’efficientamento energetico e della riduzione degli sprechi di illuminazione e riscaldamento. Rimonta conclude il suo intervento iniziale con un rimando alla dimensione del rapporto tra lavoro flessibile e smart city. «L’idea è che tutta la nostra presenza in città diventa più intelligente» – sottolinea il responsabile Real Estate di UniCredit Business Integrated Solutions. Posso lavorare da casa ma anche in altri punti che siano strategicamente o logisticamente più comodi, senza privarmi di quelle che sono le facilities tipiche dell’ufficio o della possibilità di incontrare colleghi nei nuovi hub, alternativi alla propria sede, messi a disposizione». Per questo, UniCredit è aperta alla collaborazione con le varie municipalità per servizi come il bike o il car sharing e sta sviluppando, in collaborazione con terze parti esterne, soluzioni di car pooling aziendale che dovrebbero partire proprio dalla città di Milano.

Non da Milano, ma da Torino, arrivano le prime risposte sugli interrogativi che riguardano in modo specifico la smart city. L’intervento di Paola Pisano, docente di informatica e assessore ai Servizi Demografici e Statistici, Toponomastica, Sistemi Informativi, Progetto Smart City, Innovazione del Comune di Torino, diventa subito occasione per ingaggiare la tavola rotonda sulle questioni del finanziamento, della sostenibilità e della governance dei piani per la digitalizzazione dei servizi ai cittadini.

«I servizi della smart city sono difficili da finanziare e portare alla maturità» – è in sostanza il discorso del neo-assessore della giunta pentastellata torinese. «Ma sono complicati anche da promuovere tra gli stessi abitanti, spesso inconsapevoli delle opportunità offerte dalla digitalizzazione. Gli approcci praticabili – però – ci sono e vengono affrontati con successo,  sembrano affermare sia la Pisano sia i rappresentanti del mondo delle utilities e della system integration seduti al tavolo.

LA FURBIZIA DELLA MOLE

La situazione trovata al momento del suo insediamento, riconosce l’assessore torinese, ricorda molto lo scenario descritto da Daniela Rao. «Tanti progetti interessanti, ma allo stadio pilota». Perché? «Il problema principale osservato è che dai servizi avviati latitano scalabilità e precisi modelli di business». La luce intelligente è bellissima quando viene sperimentata su una decina di lampioni in città, ma una volta che i test finiscono non si riesce a imboccare il sentiero della continuità. «Se i lampioni smart si rompono chi li ripara? L’Università che non ha manutentori o il Comune? E tutto si blocca perché gli attori coinvolti non si sono posizionati correttamente, primo tra tutti, l’amministrazione locale che non è il soggetto che paga un servizio, ma che dovrebbe essere visto dalle aziende come un partner. Se ci fidiamo solo della capacità economica di un Comune, un progetto non riesce a scalare».

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Gianluca Salvaneschi, head of Strategic Business Development & IoT South & Central Europe Orange Business Services, dice di concordare su questo punto. «In questo ambito, l’operatore Orange non lavora con le amministrazioni municipali ma con le utilities che possono ripagarsi i progetti con i risparmi energetici ottenuti. Mancano ancora veri modelli di business, ma abbiamo una serie di valori aggiunti, per esempio sui lampioni si possono installare telecamere per il controllo del traffico e la mobilità genera dati e informazioni che si possono rivendere». E Marco Moretti, Cio di una importante utility locale, A2A di Milano e Brescia incalza: «Il problema è che continuiamo a pensare in termini di modelli di business tradizionali, mentre dovremmo inventarne di nuovi». Una necessità, questa, avvertita anche dagli amministratori alle prese con una problematica di marketing di servizi rivolti a cittadini, che – come osserva Paola Pisano – sono soggetti molto diversi dai consumatori e non percepiscono nello stesso modo né i vantaggi né le motivazioni alla base di certe iniziative. In Francia, obietta Salvaneschi, le smart city riescono a decollare rispetto alle fasi di sperimentazione proprio perché i modelli di business si trasformano e oggetti come i pali della illuminazione intelligente moltiplicano il loro valore perché costituiscono una infrastruttura polivalente capace per esempio di creare marginalità con applicazioni Big Data. Ma c’è anche, nota l’esperto di Orange, il forte sostegno dello Stato centrale.

UN CESTINO CHE NON SI PUÒ RIFIUTARE

Quella del responsabile delle infrastrutture IT di A2A è sicuramente una delle voci più positive alla tavola rotonda. A2A investe sia in illuminazione intelligente sia in smart parking, e a Milano sta per inaugurare, grazie ad A2A Smart City, una “newco” costituita proprio per il lancio dei progetti più innovativi. Primo fra tutti, un piano di “digitalizzazione” dei cestini stradali che tramite sensori di volume possono monitorare il proprio stato di riempimento e fornire dati preziosi per renderne più efficiente lo svuotamento, grazie alla ottimizzazione dei percorsi seguiti dai mezzi di raccolta. «La smart city arriva in un momento di contrazione delle marginalità tradizionali, ma si può fare. Dobbiamo essere autonomi nella nostra capacità di guidare gli investimenti, ricevendo però il pieno supporto e la sponsorship dei Comuni». Tra le iniziative in campo, c’è anche un hackathon promosso per la prima volta a Brescia lo scorso settembre, con una sessantina di giovani sviluppatori chiamati a sfidarsi sul piano delle idee innovative basate sulle tecnologie A2A. Anche Roberto Orofino, direttore Sistemi Regione di Lombardia Informatica ritiene che una possibile soluzione passi attraverso l’attrattiva, che i servizi innovativi possono esercitare nei confronti dei cittadini-utenti, e i vantaggi ottenibili in termini di recupero di efficienza. «La raccolta dei rifiuti – sostiene Orofino – è da sempre un insieme di gioia e dolori per le municipalità. Ma quelle che riescono a introdurre nuovi servizi lo fanno, riducendo la tassazione grazie alla maggiore efficienza. Il cittadino è disposto a pagare quando questa viene percepita nel modo giusto». Tutti i partecipanti concordano tuttavia sulla necessità di costruire, intorno alle iniziative di smart city, un clima di forte coesione tra sponsor pubblico e imprese che collaborano, siano esse le tradizionali aziende municipalizzate o aziende private.

METTERE LE TECNOLOGIE IN COMUNE

La partnership tra pubblico e privato è uno snodo importante. Tra gli strumenti di sviluppo degli  ecosistemi c’è il project financing. Ma si riesce a gestire questo tipo di piattaforme sul piano burocratico e normativo? «A fatica» – ammette Paola Pisano. «Come ente pubblico, dobbiamo dare le stesse opportunità a chi opera sul mercato, non possiamo scegliere l’azienda “migliore” ma quella che vince il bando e spesso i bandi non premiano il valore in più dato dalle tecnologie». Torino, prosegue l’assessore, si sforza di fare partnership sfruttando le nuove norme sugli appalti innovativi e svolgendo un grande lavoro di scouting per individuare, con la mentalità del business accelerator, le aziende e i service provider più interessanti, invitandoli al confronto, presentandoli alla cittadinanza. «Il prossimo luglio, si ripeterà l’iniziativa realizzata con la European Innovation Academy, per selezionare startup e progetti (non solo sulla smart city), facendoli discutere con mentor di tutto il mondo». Per Orofino di Lombardia Informatica, gli ecosistemi che possono diventare il fondamento di una forte digitalizzazione delle nostre aree urbane sono «una partita aperta ed entusiasmante, dove sicuramente la collaborazione tra pubblico e privato, i cambi generazionali, il mentoring, il coinvolgimento delle startup che dobbiamo contribuire a far nascere e consolidare devono essere guardati con estrema attenzione da tutta la PA».

A questo proposito è interessante l’esempio portato al tavolo da Eros Buffo, responsabile Centri di Competenze Smart Platforms del system integrator Indra, la cui visione è quella di una smart city non come raccolta di servizi verticali end-to-end, ma come piattaforma orizzontale su cui innescare, modularmente, elementi di specializzazione corrispondenti ai vari servizi. Solo partendo da questo approccio infrastrutturale di insieme, si possono evitare problemi come la ridondanza e duplicazione delle cose già fatte. «Per realizzare una città smart non dobbiamo partire dal problema e arrivare al sensore, perché sprecheremmo denaro e risorse in una soluzione che resterebbe isolata e difficile da riutilizzare». In Spagna, ha fatto scuola il caso della città La Coruña, una città grande come Bergamo che ha costruito una solida partnership tra università, municipalizzate e aziende private, dando vita a una infrastruttura oggi condivisa da una quindicina di servizi». Una parte significativa dell’investimento (in tutto, per rendere smart La Coruña sono stati spesi circa 12 milioni di euro) ha avuto come obiettivo l’informazione e il coinvolgimento della cittadinanza e così oggi, la città dell’estremo nord-ovest ispanico è diventata un modello ispiratore e una “calamita” di talenti e iniziative imprenditoriali.

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IL SERVIZIO CHE (NON) FA NOTIZIA

«Tanta parte dei problemi di queste forme di marketing locale è attribuibile alla mancanza di strumenti adeguati per arrivare al cittadino, il quale vive la città di sfuggita, la nota poco, ci sta, la usa, e spesso non capisce che il suo comportamento può trasformare la città». È il commento di Emanuela Donetti, fondatrice di Urbano Creativo, agenzia che si occupa di gestire e pianificare in modo innovativo l’urbanistica e le infrastrutture del territorio. A proposito di marketing urbano, Emanuela Donetti ricorda come in Italia sia in vigore una legge, la numero 150 del 2000, che rende obbligatoria la comunicazione da parte del Comune. Spesso però chi è addetto alla comunicazione pubblica non viene formato, spesso e volentieri è il fuoriuscito del giornale locale a diventare comunicatore: ma una cosa è il giornalista che scova le notizie e un’altra mettersi nei panni dell’amministrazione che eroga servizi ai cittadini». La fondatrice di Urbano Creativo mette in evidenza una delle tante carenze che rappresentano un ostacolo al consolidamento, nell’ambito della PA, di una progettualità basata sulle nuove tecnologie. Roberto Orofino di Lombardia Informatica cita anche la mancanza di un sistema di regole adatto alla smart city. «Stiamo riempiendo le nostre città di sensori, ma qual è il sistema di regole di cui dotarsi? Il tema etico del comportamento è centrale nella questione smart city, perché lo stile di vita delle persone cambia completamente». Allo stesso tempo, Orofino ritiene che la presenza di troppi decisori sia un freno alla crescita del fenomeno e per questo si dice interessato agli effetti di figure come quella di Diego Piacentini (la tavola rotonda si è svolta diverse settimane prima della recente crisi di governo, ndr), teoricamente in grado di accorciare i tempi dell’innovazione, grazie a una delega molto forte. «Personalmente – afferma Orofino – tifo per una maggiore centralizzazione. C’è bisogno di un “tiranno digitale” che ci dica cosa fare».

A proposito di regole e meccanismi decisionali suonano particolarmente efficaci le parole di Mauro Cicognini, membro del direttivo e del comitato tecnico scientifico di CLUSIT. Molte delle tecnologie alla base dell’IoT – la sensoristica, l’automazione dei sistemi e persino di oggetti sensibili e ingombranti come gli autoveicoli a guida autonoma, evocati da diversi dei nostri interlocutori – sono fonte di preoccupazione. «Noi non siamo in grado di formare un certo tipo di progresso, così radicato in una psiche che ci spinge ad apprezzarne l’utilità» – sottolinea l’esperto. «Ancora una volta il problema è culturale, stiamo raggiungendo un punto in cui è difficile stare al passo dell’innovazione ed educare le nuove generazioni all’uso di una tecnologia che cresce troppo velocemente, senza darci il tempo di sviluppare la necessaria esperienza, introducendo i necessari meccanismi di retroazione». Ma in questo senso la sicurezza è un grande abilitatore di possibili misure di controllo. «Quando si parla di dati misurati dai sensori, l’integrità delle informazioni è fondamentale perché aiuta a capire gli effetti e le conseguenze della tecnologia e a dominarla, specie quando si tratta di servizi erogati nel contesto di una pubblica amministrazione democraticamente eletta».

TECNOLOGICI MA POCO ORGANIZZATI

Ultimo in ordine cronologico a intervenire nel dialogo è Alberto Olivetti, CIO di Start Romagna, azienda consortile che gestisce le reti di trasporto pubblico nelle tre province di Ravenna, Forlì e Rimini. Trasparenza e informazione sono secondo Olivetti due parole chiave nella pletora di servizi digitali che un gestore di mezzi pubblici può mettere a disposizione della propria utenza e al proprio interno, come strumento di ottimizzazione di aspetti come la movimentazione e la manutenzione dei veicoli. «Come molti operatori del settore – spiega Alberto Olivetti – Start Romagna segue il filone della “smart people for smart bus”, rilasciando applicazioni per l’acquisto dei biglietti online, la gestione dei viaggi, persino del pagamento delle eventuali contravvenzioni. Spesso però, il problema è come “far atterrare” nelle città queste iniziative». Per chi prende gli autobus, la “vetrina” più importante è la pensilina di attesa alla fermata. «La maggiore difficoltà è rendere smart questa pensilina attraverso un progetto di digitalizzazione con al centro il cittadino, che deve essere informato in modo dinamico di tutte le opportunità». Il responsabile IT di Start Romagna parla anche della sua partecipazione a un progetto europeo in collaborazione con Continental, basato sulla raccolta in tempo reale di dati sulla pressione dei pneumatici dei veicoli. «I dati arrivano direttamente in officina e permettono di bloccare automaticamente i mezzi quando questi non sono in sicurezza». Uno dei tanti esempi, di quanto le realtà locali siano allineate con il resto dell’Europa sul piano delle tecnologie. Il ritardo, conclude Olivetti, è ancora una volta di tipo organizzativo.