Dati, digitalizzazione e disruption rispetto ai modelli operativi tradizionali. Davanti alla sfida rappresentata dai concorrenti digital native, le aziende devono riconfigurare IT e processi, entrando definitivamente nell’era della Terza piattaforma
È di nuovo epoca di profonda trasformazione, per l’informatica in azienda. La storia delle tecnologie di calcolo ha impresso una linea evolutiva ben precisa ai sistemi computazionali che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, sono stati il motore dell’automazione del lavoro e dei processi di business. Una evoluzione che è sempre stata all’insegna del “sempre più piccolo e concentrato”. Quando le sue porte logiche erano costituite da valvole, il computer occupava inevitabilmente enormi stanze, consumava e dissipava una grande quantità di energia. Nella Internet delle cose, l’intelligenza digitale occupa viceversa pochissimo spazio e in certi casi può addirittura funzionare “succhiando” potenziale elettrico dalla miriade di campi in radiofrequenza che impregnano buona parte dei nostri territori proprio a causa delle comunicazioni digitali.
Dopo la prima fase in cui la piattaforma informatica per eccellenza era l’elaboratore “mainframe”, e un passo intermedio rappresentato dai sistemi midrange, si è passati a una lunga seconda fase che ha visto imporsi gradualmente la dualità server e dei terminali client, entrambi basati su potenti microprocessori ad alta densità e collegati in una rete aziendale. La svolta rispetto a questa seconda piattaforma è arrivata sotto la spinta degli standard di interconnessione (Ethernet a livello di rete locale, TCP/IP per le reti su scala geografica) e di una virtualizzazione sempre più spinta delle risorse hardware. Ma perché potesse dirsi conclusa la transizione tra la Seconda e la Terza piattaforma, si è dovuto attendere un decennio abbondante, per il completamento di quel processo di forte “consumerizzazione” e “socializzazione” delle tecnologie IT, che è il vero fattore dirompente, di un’informatica radicalmente nuova.
UNA IT SPINTA DAL BASSO
L’informatica aziendale, dice Sergio Patano, research e consulting manager di IDC Italia, «è un mondo a tre dimensioni, e non mi riferisco soltanto alla stampa 3D, una delle tecnologie che fanno da contorno alla rivoluzione della Terza piattaforma. Le tre “D” in questione sono i dati, la digitalizzazione e proprio questo elemento “disruptive”, di spostamento di paradigma». Se l’informatica client/server che le aziende hanno imparato a governare nel ventennio precedente l’avvento di Internet e della massiccia virtualizzazione aveva già rappresentato un primo momento di democratizzazione della tecnologia, nella Terza piattaforma la spinta “dal basso” è diventata irresistibile. E i primi a essere stati investiti da questa onda di piena sono proprio i tradizionali dipartimenti IT delle organizzazioni aziendali medio-grandi.
«Il chief information officer nel dominio delle tecnologie ormai viene superato a destra dalle singole linee di business e perde un monopolio di conoscenza un tempo esclusivo» – sottolinea Patano, ribadendo però che il ruolo del CIO non viene improvvisamente meno. Non è certo il caso di mandare in prepensionamento centinaia e centinaia di professionisti ben preparati. Piuttosto, Patano vuol farci capire che anche la figura dei responsabili tecnologici delle imprese è uno degli elementi di un complesso percorso di trasformazione digitale che tutte le organizzazioni, pubbliche o private, di impresa o di governo, devono intraprendere oggi per non rischiare, nell’immediato futuro, di diventare meno competitivi, poco flessibili, incapaci di cogliere nuove opportunità di crescita, o di reagire alle richieste di un mercato anch’esso tecnologicamente evoluto.
SUCCESSI CLAMOROSI E TONFI MEMORABILI
Opportunità e richieste che hanno portato alla ribalta di settori merceologici diversificati società cone Airbnb o Uber, rapidamente diventate operatori leader in domini come l’hotellerie e il noleggio di vetture con autista, senza che le stesse società possedessero un singolo albergo l’una, o un solo taxi l’altra. Ai due esempi di successo, Patano contrappone il caso di tonfi memorabili, come Kodak e Blockbuster, due realtà clamorosamente incapaci di cogliere, nel momento giusto, il giusto significato del vento di digitalizzazione che ha portato alla sostanziale scomparsa delle fotocamere analogiche o alla vera e propria estinzione del videoregistratore a cassetta. E non mancano gli esempi di player che non si possono certo annoverare tra i campioni della old economy, come la canadese BlackBerry o la finlandese Nokia (dei telefonini, non dell’originario catrame), che dopo aver dato un formidabile contributo di innovazione hanno preso sottogamba la necessità di alimentare, anche con l’agilità delle infrastrutture tecnologiche, un processo di cambiamento costante. Perché neppure l’innovazione è più quella di prima.
Se ne discute ormai da tanto tempo, che forse non vale neppure la pena fornire ulteriori descrizioni, ma è giusto partire dalla definizione ormai classica di “Terza piattaforma” per comprendere meglio la lezione di Sergio Patano, presentata a settembre a Milano in occasione della Digital Transformation Conference di IDC e analizzata, insieme all’esperto, in questo speciale di Data Manager. Dopo i paradigmi del mainframe e del client/server, la Terza piattaforma nasce anche come estrema conseguenza della separazione tra risorse di calcolo fisiche e capacità di calcolo usufruibile come puro servizio. Separazione avvenuta con la virtualizzazione delle piattaforme operative, che a sua volta investe anche funzioni non strettamente computazionali, come lo spazio di archiviazione dei dati o i parametri e le funzioni delle reti, abbattendo le tradizionali barriere tra “comparti” di un data center. Il software defined everything è il fattore scatenante di un fenomeno, che elegge il cloud come architettura di base e primo pilastro, insieme ad altri tre, della nuova piattaforma. Le altre colonne portanti sono ovviamente la mobilità, la socializzazione del business e l’accumularsi dell’immenso patrimonio di dati, non necessariamente di carattere transazionale, né precisamente strutturato, che in virtù del cloud, della mobilità degli utenti e dell’infinita varietà di canali continuamente aperti tra imprese e consumatori, cittadini e pubbliche amministrazioni, utenti e altri utenti, macchine, veicoli e robot con altri macchine, vengono generati in ogni istante.
DALLA A ALLA “ZETTA”
Uno degli assi portanti della trasformazione, sta proprio nella capacità di intercettare la parte che conta di questi dati e di estrarre, come si fa con i minerali grezzi, le informazioni che permettono di convertire un semplice numero, una coordinata geografica, la lista della spesa in un negozio e in nuovo valore di business. Nella visione di IDC, i dati sono la prima “D” da tenere sott’occhio nei prossimi anni, quando tra l’aumento della popolazione e del numero di oggetti digitali intelligenti che popoleranno le nostre tasche, e l’allargamento delle possibilità di accesso ai nuovi servizi di rete, il fenomeno diventerà “Big” per davvero. «La quantità di dati negli otto anni che vanno dal 2013 al 2020 mostra un potenziale di crescita aggregata che vale il 40% ogni anno, osserva Patano. In questo modo, si passerà da un volume annuo pari a 4,4 zettabyte generati nel 2013, a un volume decuplicato, 44 zettabyte». Come dire 44 miliardi di terabyte, pari a circa cinque terabyte e mezzo per ogni singolo abitante del Pianeta, considerando però che a generare questa massa di numeri contribuiranno, nel 2020, circa trenta miliardi di oggetti della Internet delle cose. «L’utilità di questi dati dipende dalla possibilità di taggarli in qualche modo e analizzarli» – aggiunge subito Patano. Oggi, siamo in grado di farlo con poco più del 20% dei dati grezzi, ma nel 2020 non supereremo il 40% a fronte di un primo punto di forte criticità: ancora oggi il 50% dei documenti generati è di natura cartacea e l’80% dei dati complessivi non è strutturata».
In un business sempre più digitalizzato, il dato è una materia prima fondamentale da cui estrarre valore rappresentato da crescita ed espansione geografica del business corrente, opportunità di generare nuovo business in settori contigui o addirittura mai esplorati prima, fidelizzazione e allargamento della clientela consolidata, capacità di reagire velocemente alle sfide poste dalla globalizzazione dei mercati e dalle manovre di vecchi e nuovi concorrenti. In aziende già consolidate tutto questo implica una trasformazione anche radicale delle infrastrutture in direzione di una maggiore agilità e flessibilità di adattamento ai servizi richiesti. Ma richiede anche uno sforzo di cambiamento complessivo, che investe quelle che Patano chiama le «cinque facce» della trasformazione digitale. O meglio, dell’informazione digitale – precisa Patano – che equivale alla capacità di sfruttare queste informazioni «per ottenere un vantaggio competitivo, consentendo all’azienda di rispondere alle opportunità rapidamente, attraverso decisioni informate». Al di là di una infrastruttura IT agile, è fondamentale adottare un approccio olistico in grado – sulla base di competenze derivate dal mondo digitale – di guidare l’azienda nella trasformazione dei modelli di business, dei processi interni e dell’intero ecosistema di relazioni.
UN REGISTA PER IL FILM DIGITALE
Un primo punto riguarda una leadership che riesca a progettare e implementare una strategia di cambiamento dell’intera organizzazione. La terza “faccia” del business digitale si identifica nella relazione con i clienti, una relazione molto più diretta e paritaria di un tempo, che lascia al cliente un maggiore spazio di decisione e manovra, muovendosi lungo una molteplicità di canali – on e offline – e di punti di contatto. Questa maggiore interattività punta a creare, grazie a esperienze più vicine al digital lifestyle che ciascuno di noi ha imparato a costruirsi in questi ultimi anni, un diverso clima di fiducia e complicità che va sicuramente esteso alla sfera dei collaboratori esterni e interni. «La trasformazione del modo in cui le aziende, grazie alle tecnologie digitali accedono e gestiscono i talenti, li connettono tra loro e con l’ecosistema per generare ulteriore valore, è un altro dei volti del nuovo modo di fare business» – sottolinea Patano. Last but not least, c’è il quinto aspetto, quello dei modelli operativi.
«Le business operation devono complessivamente diventare più reattive ed efficaci, facendo leva sui prodotti e i servizi, gli asset dell’organizzazione, le persone, i partner tutti digitalmente connessi intorno al vero “core” della trasformazione digitale: l’informazione e l’architettura su cui essa poggia». L’importanza di quest’ultimo punto, secondo Patano si percepisce anche da una prima analisi degli investimenti finalizzati alla trasformazione digitale che emerge dalle ricerche IDC. Se nel 2015, la voce riguardante il cambiamento dei modelli operativi attirava il 49% della spesa in digital transformation, le proiezioni per il 2020 anticipano una spesa più equilibrata per le tre voci riguardanti i modelli operativi, le infrastrutture informative e l’esperienza multicanale, che dovrebbero connotare gli sforzi evolutivi delle aziende con livelli compresi tra il 25 e il 38% di spesa. Più in dettaglio, le stime IDC considerano una spesa mondiale in tecnologie per la digital transformation che supererà i 2.100 miliardi di dollari nel 2019, andando a pesare per oltre il 50% sul totale della spesa ICT mondiale attesa per quell’anno. Fra tre anni, quindi, la maggior parte degli investimenti aziendali in tecnologie informatiche sarà destinata ai processi digitali.
Gli analisti stanno già registrando un progressivo spostamento della spesa ICT verso i progetti di digital transformation. La quota della spesa “trasformativa” sul volume complessivo del mercato ICT si è assestata di poco sopra al 30% nel 2015 partendo dal 28% nel 2014, anno in cui IDC ha iniziato a monitorare il fenomeno. Ma già nel 2016, la componente relativa alla trasformazione digitale è destinata a superare il 35%, per un valore di poco superiore ai 1.300 miliardi di dollari. Il trend individuato da IDC indica che la quota della spesa in trasformazione sul totale ICT supererà il 40% nel 2017 e arriverà a toccare il 52% nel 2019, quando oltrepasserà sensibilmente i 2.000 miliardi di dollari di valore.
IT E LOB INSIEME PER IL CAMBIAMENTO
Ma come si deve affrontare, la terza “D” del nostro scenario, la “disruption” digitale che, come si è visto, non si limita a cambiare le regole e i paradigmi dell’IT? In una dinamica che vede i nuovi entranti, nati già digitali (le varie Uber, Netflix, Airbnb, Amazon e Alibaba) confrontarsi continuamente sui mercati con aziende storiche o comunque già affermate, queste ultime ricevono un forte impulso a una trasformazione che si traduce innanzitutto nella nascita di ruoli diversi, figure di riferimento, veri e propri leader della trasformazione.
Come ci spiega l’esperto di IDC, si tratta a volte di posizioni a metà strada tra quello che era il tradizionale dipartimento IT e le varie “Lob”, le linee di business, responsabili dell’innovazione e della digitalizzazione che spesso ricevono in dotazione un budget ricavato erodendo in piccola parte le voci di spesa convenzionali. Il primo passo di questa strategia consiste in genere nel mettere a punto una piattaforma di servizio digitale, sfruttando in particolar modo i servizi disponibili attraverso i cloud pubblici, rivolgendosi in modo molto diretto alla clientela B2C. È a questo punto, osserva ancora Patano, che le tradizionali architetture IT delle aziende vivono un momento di separazione: da un lato un primo stadio di piattaforma digitale, molto orientata al cloud, dall’altro l’infrastruttura impegnata a supportare attività B2B, le relazioni con le risorse umane e i partner. È una informatica a due marce che l’organizzazione digitale non può permettersi di tenere a lungo separate. Idealmente, conclude Patano, si deve costruire «un ponte tra le due piattaforme» e i piloni di questo ponte sono rappresentati da architetture cloud sempre più ibridizzate.
Per quanto riguarda il livello di digitalizzazione delle imprese in Italia, dall’osservatorio di IDC, i ricercatori della sede italiana fanno notare che la digital transformation si sta allargando velocemente a tutti i settori, contaminando imprese di ogni dimensione lungo intere filiere. «Soprattutto – si legge in una recente nota – il percorso d’innovazione sta coinvolgendo tutti i ruoli aziendali, dalla tecnologia al business, portando a nuove forme di collaborazione e integrazione. La cooperazione tra imprese, vendor e laboratori d’innovazione, e tra i diversi ruoli aziendali, è indispensabile per gestire la natura complessa e multiforme della trasformazione digitale. Anzi, alcune aziende hanno già compreso che i benefici di questa cooperazione possono essere amplificati, creando veri e propri ecosistemi che combinano nuovi modelli di business, tecnologie digitali, informazioni e stakeholder, questi ultimi sia individui che altre imprese.
NELLA CERCHIA DEGLI INNOVATORI
Sono le tematiche emerse dall’edizione 2016 di Innovators Circle, una serie di incontri esclusivi promossi in collaborazione con IDC da SAP e Intel dedicati proprio al cambiamento verso il business digitale. In tre diversi appuntamenti che si sono articolati quest’anno tra Milano e Roma, i business manager delle più importanti aziende italiane, responsabili di progetti di trasformazione digitale, hanno condiviso con gli ideatori di Innovators Circle esperienze progettuali e linee di azione per competere con successo nel mondo digitale, grazie anche agli interventi di relatori da aziende come Enel, Univeg, La Feltrinelli, Acea. Per l’occasione IDC ha inoltre sviluppato, insieme a SAP, un nuovo strumento di assessment – l’IDC Digital Transformation MaturityScape Tool – che consente alle aziende di conoscere il proprio posizionamento e ricevere raccomandazioni personalizzate per orientarsi nella digital transformation. A Fabio Rizzotto, research and consulting senior director di IDC Italia, il compito di illustrare i trend principali della digital transformation e di moderare la discussione tra relatori e partecipanti alle discussioni degli Innovators Circle. È ormai chiaro, che la trasformazione digitale è una delle principali priorità di business. Lo era per il 66% delle aziende italiane nel 2015, lo è diventata per il 76% delle imprese nel 2016, evidenzia Rizzotto. Ma è anche evidente che la consapevolezza di questa importanza pone i CIO e le aziende di fronte a una nuova serie di sfide. Per le imprese italiane, sottolinea Rizzotto, questo si traduce in quattro punti fondamentali. Il primo: «Trovare, coltivare e trattenere personale qualificato (per il 72% delle aziende italiane)». Il secondo: «Tracciare e comprendere i comportamenti digitali e le aspettative dei clienti (70%)». Il terzo: «Possedere una chiara visione di come il digitale possa aiutare a ottenere un vantaggio competitivo (67%)». Il quarto: «Far dialogare dipartimenti e persone, fare sistema (63%)».
La trasformazione digitale delle aziende italiane sta entrando a diretto contatto con gli elementi più sensibili del business: competenze, visione, collaborazione, stile di innovazione. «La capacità di amalgamare queste leve con nuove architetture e soluzioni tecnologiche sarà determinante per rispondere alle esigenze di dinamismo e velocità dettate dagli ecosistemi digitali» – evidenzia Rizzotto. Un sentiment, conclude il collega Sergio Patano, pienamente confermato dall’indagine – ristretta ma molto significativa – che IDC ha proposto a fine settembre ai partecipanti dell’evento Digital Transformation Conference. «Due terzi delle aziende rappresentate alla conferenza afferma di essere già al lavoro su strategie di trasformazione» – racconta Patano. «Il rimanente terzo non ha ancora definito una precisa strategia ma la sta attivamente prendendo in considerazione. È la prima volta che non vengono registrate aziende che non si pongono neppure il problema. Un altro elemento che emerge dai nostri questionari è che la guida e le risorse finanziarie per la trasformazione derivano da un forte connubio tra IT e linee di business, c’è un forte commitment da parte dell’IT a non cedere la leadership, evitare i rischi della duplicazione, della cosiddetta Informatica-ombra portata avanti autonomamente e senza controllo dalle linee di business». Come dire che nell’era delle architetture cloud, il CIO dell’impresa digitale non viene messo da parte, ma dovrà allargare i suoi orizzonti, in un ruolo “meta-tecnologico” che deve essere riconosciuto dal top management e da tutte le divisioni aziendali.