La metà di ottobre è stata segnata dall’annuncio del Presidente Obama di essere pronto a sferrare un attacco cibernetico nei confronti della Russia e, sostanzialmente, contro chiunque voglia mostrare i muscoli tecnologici
Le parole di Barack Obama sono rimbalzate in ogni angolo del pianeta e la sigla WW3 si è fatta agevolmente spazio senza che il “normale” pubblico avesse il tempo di capire che l’acronimo sintetizza World War 3 e quindi il terzo conflitto mondiale. A chi, conoscendo la mia ultraventennale passione per l’information warfare, mi ha domandato se ci sia da preoccuparsi, ho serenamente risposto «no», incrociando lo sguardo allibito dei più diversi interlocutori che si aspettavano una filippica su quanto rimbombato sui giornali. Non c’è bisogno di agitarsi, infatti, perché la battaglia è già cominciata anche se tutti continuano a conversare di queste cose, utilizzando verbi al futuro o al condizionale. L’indicativo presente e forse il passato prossimo (potremmo azzardare anche quello remoto, senza tema di smentita) sono i tempi più adatti per esprimerci in modo maggiormente appropriato nel momento in cui si affronta il tema.
A mutuare una dicotomia cara a Ferrante Pierantoni (ingegnere nucleare, docente di reattori veloci all’Università di Bologna, ai vertici di ENEA e poi membro dell’Autorità per l’Informatica, profeta della cyberwar un quarto di secolo fa), il “campo di battaglia” va scisso in due fronti: la guerra “delle informazioni” (che ha per bersaglio dati, programmi e sistemi) e quella “con le informazioni” (che nel mirino piazza l’opinione della gente, gli stati d’animo, le conseguenti scelte).
Il duello, nel primo caso, ha già avuto manifestazioni non sistematiche, con significativi ma sporadici episodi di hacking: incursioni e manovre di denial-of-service hanno tempestato in maniera randomica il territorio virtuale degli schieramenti contrapposti. L’area di combattimento – a dispetto del tradizionale uno-contro-uno – prospetta una presenza almeno tripolare di soggetti contendenti (USA, Russia e Cina), ciascuno interessato a giocare la partita contro gli altri due. Nel secondo caso, la sfida “con le informazioni” è in piedi da sempre e ora sta conoscendo una sorta di climax, caratterizzato dalla perfettamente calendarizzata uscita di notizie a cura di Julian Assange. Il portavoce di Wikileaks sta distillando il contenuto delle caselle di posta del capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, facendo franare la credibilità e l’affidabilità della candidata democratica alla Casa Bianca. Il dosaggio farmaceutico di mail imbarazzanti è strumentale alla vittoria elettorale di Donald Trump e chi conosce Wikileaks (e soprattutto chi ne ha stimato la “terzietà” rispetto a qualsivoglia sistema) è stupefatto nel vedere quella “non-organizzazione” (come direbbero gli esponenti di movimenti delle nostre parti) schierarsi in modo indubbiamente smaccato dalla parte di un personaggio oggetto di comune discussione.
Come nelle guerre convenzionali, l’opera della “propaganda” ha un suo ruolo ed è capace di far “danni” non meno delle “solite” armi. Chi prende una tastiera e veicola messaggi appetibili può disporre di un volume di fuoco in grado di inchiodare chi sta nella trincea contrapposta. Le rivoluzioni moderne fanno perno sulla “disinformatia” e sull’abilità di coinvolgere chi non ha ancora scelto la barricata dove sistemarsi per combattere. La condizione di belligeranza, in questa dimensione, è acclarata. La contesa per la Presidenza degli Stati Uniti interessa anche a chi sul proprio pennone certo non fa sventolare la bandiera a stelle e strisce. Proprio quel “qualcuno” sa di poter condizionare l’elettorato, ancor prima di preoccuparsi di mettere in campo hacker incaricati di modificare l’esito delle urne. E questo colpo (uno dei tanti della raffica in corso) è già andato a segno. Per la guerra “delle” informazioni c’è ancora tempo. Come i giocatori di poker, i protagonisti al tavolo non hanno nessuna fretta di calare le loro carte.