Teoria dei contratti. Il Nobel a Hart e Holmstrom

Qual è stato il contributo dell’economia al progresso dell’umanità? Gli anni della crisi hanno messo in luce i limiti della cosiddetta “scienza triste”. Nel 1976, il Nobel per l’Economia andò a Milton Friedman le cui idee sono ancora oggetto di vivaci controversie.

Nel 1985, fu la volta (unica) dell’italiano Franco Modigliani per i suoi studi sul risparmio, i mercati finanziari e il mix Debt-Equity, tema centrale di tante operazioni di finanza aziendale degli ultimi anni. Nel 1994, il riconoscimento andò a John Nash per la teoria dei giochi non cooperativi e tre anni più tardi alla coppia Sholes/Merton per gli studi sulla determinazione del valore dei famigerati derivati. Dalla sua istituzione, sono stati assegnati 75 premi Nobel di cui 40 a studiosi americani.

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L’ultimo in ordine di tempo è andato al britannico Oliver Hart e al finlandese Beng Holmstrom per i loro studi sulla teoria dei contratti. In un contesto globale, in cui le regole tecniche soverchiano i principi, il premio a Hart e Holmstrom accende l’attenzione sui meccanismi contrattuali che dovrebbero bilanciare l’interesse dei manager di massimizzare i profitti per gli azionisti e di raggiungere gli obiettivi prefissati (da cui dipendono i loro compensi), e l’interesse dell’organizzazione a evitare di essere esposta a rischi troppo alti. Ma su che cosa si basano il sistema di incentivazione e i meccanismi che spingono i manager ad agire nell’interesse dell’azienda e ad assumersi i rischi? Friedman riteneva che i manager in quanto “agenti” per conto terzi sono dei “dipendenti” al servizio esclusivo degli azionisti.

Come si valuta però questo interesse nel lungo periodo? Per esempio, si potrebbero considerare la scelta di un AD di vendere gli asset principali dell’azienda come scelta strategica in un piano di risanamento e quella di un amministratore pubblico che ha sottoscritto derivati per avere liquidità nel breve periodo per fare delle opere pubbliche, zavorrando i bilanci futuri. Chi ha agito nell’interesse vero degli azionisti (che nel caso della PA sono i contribuenti)? Come la buona fede si presume ed è alla base di ogni contratto, ogni “agente” è sempre “self interest” anche quando agisce per conto terzi. Regole e strumenti possono non bastare, se manca un imperativo morale ad agire nell’interesse di tutti.

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