Invece di costruire autostrade e svincoli, abbiamo bisogno di recuperare le nostre strade perché le migliori città sono quelle che si dimostrano ospitali verso gli esseri umani
«Le migliori città sono quelle che si dimostrano ospitali verso gli esseri umani». Così diceva tempo fa Mikael Colville-Andersen, celebre speaker newyorkese esperto di design e mobilità urbana e fanatico delle due ruote. Nel suo speech al TEDx Zurich del novembre 2012, si lamentava delle difficoltà che incontrava nell’uso quotidiano del suo mezzo preferito, nonostante New York si posizionasse discretamente nelle classifiche delle città bike–friendly. E chissà se Colville Andersen è soddisfatto oggi dopo il decantato lavoro fatto da Janette Sadik-Khan, responsabile dei trasporti per la città di New York fino al 2013 e tutt’ora presidente del comitato scientifico strategico della National Association of City Transportation Officials. Mossa dagli stessi ideali di ospitalità, al suo operato nella Grande Mela sono attribuiti, per esempio, la costruzione di 400 miglia di nuove piste ciclabili, l’aver implementato il più grande sistema di piste ciclabili della nazione e la conversione di 60 spazi comuni cittadini. «Avrei voluto fare qualche cosa che potesse essere significativo per le persone nella loro vita di ogni giorno» – svela Sadik Khan, in un’intervista per CityLab. «E avevo due scelte: o lavorare sulla sanità o sui trasporti».
Mobilità fisica e sociale
Fin qui nulla di nuovo. La smart city affronta spesso il tema della mobilità urbana ed extraurbana. Se smart city infatti è la città dei flussi, della velocità, dei dati, è il nostro modo di muoverci ad esserne direttamente influenzato. Lo sono le code da e per fuori città nelle ore di punta, lo sono le autostrade a pedaggio automatico, gli orari degli autobus e la presenza delle pensiline. La mobilità è un mondo a parte, fatto di incroci materiali e immateriali. Come abbiamo sperimentato in Puglia nel mese di luglio, incroci a volte mortali. Nella convinzione che la mobilità fisica sia direttamente collegata alla mobilità sociale, è necessario cambiare la forma delle città. «Invece di costruire autostrade e svincoli – esorta Sadik Khan – abbiamo bisogno di recuperare le nostre strade e ricostruire a misura d’uomo». Facile a dirsi, difficile a farsi. Certo, chi ama la bicicletta farà tutto il possibile per usarla anche nella quotidianità.
Integrazione e partecipazione
Un’opinione diffusa è la credenza che biciclette e piste ciclabili causino ingorghi e pericoli per il traffico. A mettere in discussione questa tesi c’è una soluzione di gestione del traffico detta shared space e che trova applicazione soprattutto nel Nord Europa: consiste nella condivisione delle stesse carreggiate urbane da parte di automobili, biciclette e pedoni, con pochissime o nessuna linea di demarcazione a separarli e senza nessuna forma di segnaletica. Il rischio percepito è maggiore e, di conseguenza, ogni utente della strada alza il livello di attenzione verso gli altri automobilisti, ma anche verso i pedoni e le biciclette. Ciò che appare evidente, in tutti i filoni di sviluppo della smart city, è questo affermarsi di uno sguardo alla ricerca della “dimensione umana” insieme al bisogno di eliminare intermediari, di ritornare a caricarci di alcune responsabilità e affidarci, nei contesti che lo consentono, al buon senso. Quando però poi ci si scontra con disastri come quello ferroviario avvenuto a luglio in Puglia, che probabilmente sarebbe stato sventato da un’implementazione adeguata di tecnologia, si torna a riflettere. E a volte vorremmo fare un passo indietro. Ma la verità è che abbiamo raggiunto un punto “di non ritorno”. Dunque, preferiamo bit e impulsi elettrici artificiali alla nostra imperfetta natura umana? Possiamo fare a meno della tecnologia o vogliamo fare a meno della tecnologia, questo è il problema. Sappiamo che il dubbio amletico è fine a se stesso. L’avanzamento tecnologico però va indagato, controllato e domato per migliorare qualsiasi situazione lo necessiti, ma senza mai dimenticarci della nostra natura. Non si tratta di scegliere tra la tecnologia o il nostro cervello. La parola chiave, ancora una volta, è integrazione.
Giulia Cattoni @urbanocreativo