La grande scommessa si chiama sviluppo sostenibile. Il dibattito sulla competitività riguarda anche il rispetto delle regole, perché l’illegalità toglie il futuro alle giovani generazioni e nega il merito e il talento. Per capire bisogna andare alla radice dei fatti e delle parole che usiamo per rappresentarle. Anche un linguaggio mutato, impacchettato in acronimi oscuri e frasi fatte, piegato sotto il peso delle scorciatoie di senso, è sintomo di un modo di pensare corrotto, come diceva lo scrittore inglese George Orwell, qualche anno prima della sua morte.
Scrivere è un atto politico e scrivere male significa pensare e agire male, scambiando l’astratto per il concreto, sorvolando sulle “cose”, senza cogliere i “collegamenti”. In questi anni, ho imparato ad analizzare i dati, a fare domande difficili, a mantenere la distanza dai fatti e dalle persone per raccontare una storia, a collaborare, a prendere l’iniziativa, a non considerare la velocità un valore assoluto e a scegliere sempre la strada più scomoda. Ma ho imparato anche a tenere duro, a vivere la precarietà come una scommessa continua, perché non si sa mai che cosa possiamo trovare, mentre ci affanniamo a cercare altro. Ciò che scegliamo ogni giorno decide chi siamo e il futuro che costruiamo. Nell’era dell’economia digitale, dei collegamenti real-time e del mondo connesso come un grande, unico supercomputer, abbiamo la straordinaria occasione di mettere l’intelligenza al servizio della crescita che non può essere solo economica.
Nel 2001, il crollo del Nasdaq travolge le dot.com che in un anno perdono più del 70% del loro valore. Scoppia la bolla della cosiddetta new economy. Ad aprile dello stesso anno, inizio a collaborare con Data Manager e un mese dopo il Financial Times stima che sono 435 le Internet company andate a gambe all’aria. L’undici settembre a New York, l’attacco alle Torri Gemelle trasforma in certezze i dubbi sul modello di una globalizzazione basata sul capitalismo finanziario. Da allora, stiamo vivendo una fase di transizione e la rete è la piattaforma di una profonda trasformazione che avanza in modo nuovo, sotto la spinta della separazione tra i livelli fisici e logici delle infrastrutture. A luglio 2008, mi trovo a Londra. L’inflazione è al 4,1%, la più alta dal ’96 e il petrolio quota 147 dollari. C’è crisi di liquidità, le banche non si fidano delle altre banche, e il dollaro inizia la sua discesa. A settembre, la bolla del mercato immobiliare sta per scoppiare. Quando Lehman Brothers, quarta banca di investimento americana, annuncia l’intenzione di avvalersi della procedura di fallimento, il mondo scopre che la tecnologia e la finanza non sono neutre.
“Where vision gets built” è lo slogan del colosso bancario, ma – una settimana dopo – non ci sono più neppure le sue insegne dorate sulla 6th Avenue di New York. È chiaro che la visione ha lasciato spazio al miraggio. La disarticolazione del potere economico da quello finanziario, del capitale dal lavoro, della produzione dai luoghi del lavoro hanno determinato una frattura. È solo l’inizio della crisi che non passa, la cui onda lunga continua ancora oggi. L’unico modo per venirne fuori si basa su tre principi: le motivazioni profonde delle persone, la creatività e la tecnologia socialmente ed ecologicamente responsabile. La crisi che viviamo è miseria morale che genera miseria economica. La crisi schiaccia e accorcia l’orizzonte, ma la crisi implica anche una “separazione”, una “cernita” – in pratica – una “scelta”. E la scelta determina un passaggio, che può diventare una catastrofe, se continuiamo ad aspettare. L’innovazione che conta di più è legata al processo di apprendimento. È la capacità di “imparare a imparare”. Non basta più conoscere la storia. Oggi, bisogna ragionare sul futuro e riuscire a immaginare come risolveremo problemi che ancora non conosciamo.