È passato più di un anno dallo scoppio dell’emailgate scaturito dalle comunicazioni insicure intraprese da Hillary Clinton, oggi candidata democratica alla prima poltrona della Casa Bianca.
A marzo del 2015, l’allora Segretario americano era finita in un ciclone mediatico, quanto mai ragionevole, per aver usato il client di posta, e relativo server, del suo sito personale. Sin qui nulla di così tremendo se non fosse che il dominio privato veniva sfruttato anche per l’invio e la ricezione di posta riservata, classificata e protetta dal segreto di stato. Non vi è mai stata l’evidenza di intrusioni di hacker o di paesi stranieri all’interno della piattaforma, ma il solo fatto di usare un indirizzo non validato dal governo e, soprattutto, privo di qualsiasi certificato SSL, ha messo a repentaglio non solo il partito della Clinton ma l’intera organizzazione politica USA.
Cosa succede
Nonostante tutto, l’FBI ha assolto la donna dall’ipotesi di reato. Dopo oltre 16 mesi, l’indagine si è conclusa solo con una dura critica all’operato negli anni di governo, nei quali è stata “estremamente imprudente”. James Comey, direttore dell’FBI ha così motivato la decisione dell’organo federale: “Non abbiamo prove che Clinton e i suoi colleghi volessero violare deliberatamente le leggi che proteggono il materiale riservato ma sono stati di sicuro negligenti nel trattare informazioni delicate e private”. Sul server incriminato sono passate, in tutto, 30.000 email di cui almeno 2.000 di natura confidenziale, oltre a 52 catene, contenenti botta e risposta, etichettate come classificate. Secondo il Dipartimento di giustizia, il caso non sarebbe stato influenzato dalle recenti vicende politiche che vedono Hillary Clinton concorrere alla Casa Bianca ma è lecito pensare che una decisione contraria avrebbe spianato la strada al temuto Trump.