Commodore 64 o ZX Spectrum?

Questi ultimi quarant’anni del mondo ICT sono stati talmente densi di innovazione che ci vorrebbero fiumi di inchiostro per raccontarli. C’è un episodio che penso significativo e che mi piace raccontare della mia vita. Accadde trent’anni fa circa. Durante gli anni dell’università, imparare a programmare praticamente era disagevole: significava battere a macchina decine e decine di schede perforate per poi passarle al “sancta sanctorum” del centro elaborazione dati, mitico CED, fornito di un mastodontico UNIVAC, dove una piccola “casta sacerdotale”, che mi ricordo piuttosto antipatica, restituiva dopo giorni e giorni un tabulato stampato. Spesso accadeva che il risultato non fosse quello atteso e conteneva errori, e allora ecco che il supplizio ricominciava. Solo negli ultimissimi anni del mio percorso accademico, in particolare durante la tesi, ebbi la fortuna di poter mettere le mani su un minicomputer della Digital (un PDP 9) e mi pareva un sogno poter lavorare con maggior libertà, anche se solo in pochi e determinati slot di tempo. Anche durante i miei primi anni lavorativi, in una grande multinazionale americana, pur disponendo di un terminale sulla scrivania collegato al mainframe, mi sentivo comunque limitato nelle mie “libertà informatiche”.

Ma a un certo momento arrivò qualcosa che mi cambiò la vita: acquistai uno ZX Spectrum, un piccolo computer totalmente personale delle dimensioni di un attuale tablet, dotato di una CPU Z80 a 3.5Mhz e con 48Kbyte di RAM. Si poteva connettere a un televisore come monitor e l’input era basato da un semplice registratore a cassetta. Con lo Spectrum mi sono divertito, ci ho giocato ma soprattutto programmato tantissimo: in Basic, principalmente, ma anche in C, in Pascal, in Fortran. Anche in un linguaggio che allora sembrava talmente rivoluzionario quanto fantascientifico perché si diceva prodromo dell’intelligenza artificiale: il LISP. C’era anche una “comunità avversaria”, quella dei seguaci del Commodore 64, computer basato su una CPU 6510 a 0.985Mhz e con 64Kbyte di RAM. I “commodoriani” erano molti di più, e quindi noi “spectroniani” rappresentavamo la nicchia, ma proprio per questo eravamo ancor più tenaci e appassionati. Quello che ci accomunava tutti però, era il concetto rivoluzionario della “libertà digitale” perché finalmente ci eravamo affrancati dalle rigidità e dalla schiavitù di un’informatica centralizzata. Contestualmente, iniziava l’era dei PC e quindi dell’informatica distribuita e una decina d’anni dopo sarebbe apparsa Internet, facendo esplodere una rivoluzione che abbiamo ancora sotto i nostri occhi. Le infrastrutture di rete furono poi il mio pane quotidiano e quante ne potrei dire anche su loro, ma non ho più spazio.

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Mi piace solo ricordare che Data Manager è stata testimone attenta di tutto questo percorso. Non solo ha osservato, spiegato e approfondito le tante tappe attraverso professionisti di grandissima qualità, ma lo ha fatto con infinita passione, che secondo me è un valore che si è mantenuto nel tempo in tutti coloro che difendono la tradizione di questa grande e bella rivista. La stessa passione che mi ricordo nel bimbo che fui, davanti alla magia del televisore e anche negli occhi di Gianni Caporale, primo e grandissimo capo redattore di Data Manager, che ci ha lasciati e che ci tengo a ricordare. Umberto Galimberti, filosofo, sociologo e docente universitario italiano, ci ricorda che “con la tecnica l’uomo può ottenere da sé quello che un tempo chiedeva agli dèi”. Io credo che questo aforisma colga molto bene la storia dell’ICT di questi ultimi quarant’anni, e chissà quante sorprese ci riserva il futuro. Meditiamo, gente. Meditiamo…