Il recupero del capitale di rischio

Analisi dell’espansione del settore del venture capital attraverso il 2015 e 2016, possibili scenari e sviluppi evolutivi

Il 2016 entra nel secondo quadrimestre con dati positivi per il mondo del capitale di rischio. Se si prendono in considerazione i dati dell’anno passato, infatti, risulta evidente come i gruppi di private equity abbiano investito in società europee in proporzioni decisamente maggiori rispetto a quelle viste in qualsiasi altro periodo degno di essere ricordato a partire dal 2008. I cosiddetti investimenti di “growth equity”(investimenti nella fase late stage ovvero quando l’impresa ha già superato la fase di avvio) che si collocano a metà strada tra il capitale di rischio e le operazioni di “leveraged buyout” (ovvero le operazioni finanziarie che sono dirette ad acquisire una società attraverso lo sfruttamento della capacità di indebitamento della società stessa) hanno raggiunto un importo pari a € 6,5 miliardi nel 2015, con un aumento pari all’11% rispetto ai numeri registrati nell’anno precedente, come dichiarato da Invest Europe. Allo stesso tempo, il numero di società destinate a beneficiare degli investimenti “early stage” è sceso del 13%, indicando così la progressiva tendenza dei venture capital di focalizzare i loro investimenti in società più grandi e già stabilizzate da diverso tempo, fenomeno già diffuso negli USA. Gli investimenti in private equity in ambito europeo sono aumentati del 14 per cento, arrivando a 47,4 miliardi di euro, rispetto all’anno precedente. Più di 36 miliardi sono stati raccolti in forma di leveraged buyouts, comportando quindi anche alti livelli di debito. In particolare, gli investitori di growth equity (o investimento nella fase late-stage) cercano obiettivi e mete in cui i rendimenti possono essere generati da una crescita organica e l’offerta si dirige sempre più frequentemente verso aziende che abbiano un rapporto stretto con gli imprenditori.

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La catena degli investimenti

«L’Europa ha la sua parte di merito nei confronti delle società di grande successo che sono ormai progredite, superando la fase iniziale di startup e diventando in grado di accedere al growth capital». Così ha dichiarato Dörte Höppner, amministratore delegato di Invest Europe. Il crescente aumento dei piani di investimento destinati al cosiddetto growth capital dimostra come la catena di investimenti di capitale di rischio stia diventando pienamente efficiente e funzionale. Diversi gruppi di private equity statunitensi, specializzati nella crescita del patrimonio netto e negli investimenti nella fase matura delle società, hanno ampliato l’ambito delle loro attività in Europa negli ultimi anni, tra i quali possiamo citare Warburg Pincus e General Atlantic. TPG, il gruppo statunitense che è intervenuto con un primo round di investimento in Uber e Airbnb, di recente ha portato a termine il suo primo investimento di growth capital nel Regno Unito, acquistando una quota di maggioranza in Frank Recruitment Group. «Stiamo assistendo chiaramente sia a una forte offerta di capitale di investimento a lungo termine sia a una forte domanda da parte delle società di tale tipologia di capitale» – ha dichiarato Höppner. In ogni caso, nonostante i numeri siano rivelatori di una crescita nel settore del capitale di rischio, dobbiamo comunque prendere atto del fatto che si tratti ancora di una piccola percentuale, se commisurata alla situazione degli Stati Uniti. Anche nei grandi mercati come la Francia, gli investimenti nel capitale di rischio rappresentano lo 0,3 per cento del prodotto interno lordo rispetto all’uno per cento negli Stati Uniti, dove i piani pensionistici pubblici sono i più attivi sostenitori di investimenti alternativi.

Scenario italiano

Il più grande singolo investitore istituzionale dell’Europa, il fondo pensionistico del governo norvegese con un valore di ben 900 miliardi di dollari non investe in attività di private equity o alternative che vadano al di là del settore immobiliare. E in Italia? Che cosa sta succedendo? Lasciamo che siano i numeri a parlare. Si passa dai 7,2 milioni di euro registrati a gennaio ai 12 milioni di febbraio per poi riscendere drasticamente a 2 milioni a marzo e recuperare in grande stile nel mese di aprile con ben 15,7 milioni. Un ammontare record il cui merito si deve principalmente a tre grandi investimenti così suddivisi: 7 milioni di euro in Silk Biomaterials da parte di Principia, 3 milioni in Sardex con il contributo di Invitalia Ventures e da ultimo 4,5 milioni in Next14 da parte di investitori privati. Si è avuta quindi anche all’interno dei confini nazionali una crescita con un aumento di 10 milioni di euro rispetto all’ammontare del capitale di rischio del 2015. Tra gli altri round di investimento di notevole importo, si possono menzionare WineOwine, un portale e-commerce di vini di qualità di piccoli produttori italiani, che ha ottenuto un seed di ammontare pari a 800mila euro e InVRsion, una startup che ha sviluppato applicazioni di realtà virtuale in diversi campi che spaziano dal retail all’automotive e all’immobiliare, ottenendo un seed di 600mila. Si devono poi senza dubbio prendere in considerazione, in questo quadro di crescita nel settore del capitale di rischio, due grandi exit, quella di Yogitech e Wishdays, nonché microfinanziamenti di importo inferiore ai 200mila euro distribuiti tra le nascenti startup. Intanto, se da un lato aumentano gli investimenti nel capitale di rischio, contribuendo ad alimentare il settore dei venture capital, dall’altro lato non si può non tenere conto della crescita, su binari paralleli, del settore del crowdfunding, fenomeno in espansione nell’ambito delle modalità di finanziamento delle startup.

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Nuove opportunità

Il crowdfunding, in particolare, potrebbe essere un competitor ancora più significativo per i venture capital nei prossimi tempi, con l’entrata in vigore, in data 16 maggio 2016, del III titolo del Jobs Act (Jumpstart Our Business Startup ACT), relativo alla disciplina di tale processo di finanziamento. La legge degli USA spiana la strada per nuove opportunità ai comuni investitori. Chance Barnett, amministratore delegato di crowdfunder.com, in un’intervista su Forbes, ha dichiarato che «questa sarà la prima volta dopo oltre 80 anni in cui il cittadino medio avrà opportunità d’investimento nelle aziende in fase di startup». I portafogli degli startupper non saranno quindi più sostenuti in via esclusiva da milionari e venture capitalist ma anche dal contributo dei singoli investitori. Le prime iniziative al riguardo sono già in corso. Rohan Shah, uno studente dell’Università della Pennsylvania, ha creato Slice Capital, un portale online che connette le startup con investitori di ogni tipo. «Ci stiamo concentrando proprio sugli investitori non accreditati» – ha detto Shah. «Stiamo targettizzando una community sconosciuta, ma colleghiamo anche angel investors e venture capitalist». Le startup prese in considerazione da Shah sono obbligate a fornire dati precisi sui livelli di spesa, introiti e tasse. Tali dati verranno poi vagliati dalla Securities and Exchange Commission. Nella stessa direzione si pongono molti competitor quali Wefunder, SeedUps ed Equity Net. Tuttavia, rimane ancora la diffidenza di molti venture capitalist, quali Diane Fraiman, partner di Voyager Capital che ha dichiarato: «Il crowdfunding ha permesso a molte persone di partecipare all’innovazione mondiale, ma questo non può sostituire il confronto che gli startupper cercano con gli investitori». Quanto all’Italia, dobbiamo ricordare che con la delibera numero 19520 del 25 febbraio 2016, la Consob ha apportato importanti modifiche al regolamento sull’equity crowdfunding per allargare la platea dei possibili investitori e semplificare le modalità di investimento. Tuttavia, perché il crowdfunding possa divenire un istituto diffuso su larga scala anche nei confini nazionali, dovremo aspettare ancora.

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