L’idea è quella di utilizzarli come spinta per un e-commerce di nuova generazione. Eppure gli automi virtuali nascondo già delle insidie
I bot, o chatbot, non sono di certo una novità. L’utilizzo più vasto è quello che ha visto le stanze di chat in voga nel decennio scorso (mIRC tra tutte) essere gestite da buttafuori automatizzati, in grado di rispondere alle richieste degli utenti fatte sotto forma di stringhe. Inevitabile però, che quando a parlarne siano aziende del calibro di Microsoft, Facebook e più di recente Google, il tema dei bot possa diventare di interesse generale, soprattutto in relazione a ciò che rappresenteranno per la navigazione consumistica del futuro prossimo.
Cosa saranno
Destinati ad essere assistenti pronti e funzionali per il commercio digitale, oggi i bot sono in realtà un pericolo. L’agenzia di sicurezza informatica Distil Networks ha infatti rilevato che circa il 40% del traffico prodotto dai bot sia maligno, ovvero nasconda scopi di violazione e hackeraggio. Questo vuol dire che per ogni servizio di bot genuino, ce ne siamo quasi un equivalente fasullo: “I bot sono il cuore di alcuni toolkit – spiegano dalla Distil – è tempo per le compagnie di avviare procedure di messa in sicurezza nelle attività b2c perché è a quei processi che i criminali puntano. I cattivi ragazzi costruiscono liste di nomi utente e password, ottenute dai bot, per poi effettuare attacchi di brute-force per ottenere gli accessi del conto in banca, del servizio sanitario o postale”. Visto il rinnovato interesse sui bot, non è difficile immaginare un contesto in cui una persona venga spiata o spinta a chattare con un software malevolo, in grado di spingerla a cliccare su link poco raccomandabili o mettere in moto azioni di social engineering tese a rubare informazioni private. Di quali bot fidarsi allora? Difficile dirlo, anche se è plausibile che i siti che li offrano, certifichino la loro presenza e, soprattutto, la difendano costantemente.