Alla tavola rotonda di Data Manager si parla di dematerializzazione e document management come esclusivo fattore abilitante della trasformazione digitale
È una battaglia in corso su più fronti quella per una diversa modalità di gestire in ufficio e nell’impresa pubblica e privata l’informazione documentale e per una crescente dematerializzazione dei dati che ancora oggi restano “attaccati” ai supporti fisici, tipicamente la carta e la modulistica. Se un tempo la sfida principale consisteva nell’assicurare la conservazione a lungo termine unita all’accessibilità, una maggiore efficienza e un minor costo nella gestione dei flussi documentali, oggi il tema della smaterializzazione entra nel contesto, ancora più complesso, della trasformazione digitale: attraverso la tecnologia – ma non solo – si cercano in altre parole risposte adeguate a due richieste fondamentali. Da un lato lo snellimento e cambiamento dei processi che regolano le transazioni e le dinamiche commerciali tra le organizzazioni, i consumatori, i cittadini. Dall’altro l’inserimento, possibilmente fluido e automatico, del contenuto dei documenti, specie se fisici, nell’universo Big Data, per evitare che potenziali giacimenti di dati preziosi diventino una sorta di massa oscura priva di valore. Accanto a queste due tematiche ci sono tanti argomenti collaterali ma non per questo trascurabili come la sicurezza, la lotta alle frodi e all’illegalità, la compliance normativa, la digitalizzazione del denaro, il “documento cartaceo” più antico e persistente. Un insieme di questioni che la tecnologia non può risolvere da sola per un motivo molto banale: dematerializzare non significa semplicemente sostituire il supporto fisico con il bit, ma costruire intorno ai dati elettronici un nuovo modo di concepire e trattare le relazioni d’affari e i rapporti sociali, rivedendo – anche radicalmente – i processi per i quali è stata inventata una burocrazia fondata sulla carta.
Archiviare non basta
I partecipanti alla tavola rotonda organizzata da Data Manager e UniCredit sulla dematerializzazione hanno dato vita a una discussione animata, che ha messo subito in evidenza il netto spostamento di attenzione dalle ragioni semplicemente “archivistiche” – combattere i costi e le complessità della conservazione e del trattamento di documenti cartacei – al primato della informazione (che nasce digitale e deve essere gestita digitalmente) e del workflow. A fronte della necessità di smaterializzare l’informazione per essere davvero in grado di sfruttare appieno la spinta dei fenomeni che insieme compongono quella che IDC definisce Terza Piattaforma (Big Data, dunque, ma anche un business sempre più mobile e social), le aziende e i solution provider riuniti nella Torre A del quartier generale di UniCredit hanno anche discusso di ostacoli e limiti culturali e normativi. Ma dove sta andando il tema della gestione documentale nel suo complesso? A questa domanda risponde Sergio Patano, research & consulting manager di IDC Italia.
«La vision di IDC parte dal supporto fisico per arrivare a tutti gli aspetti di una dematerializzazione legati alla creazione di informazione digitale». La vera differenza, afferma Patano, è determinata dall’evoluzione delle tecnologie. «Rispetto a 20 o 25 anni fa, quando c’era solo la carta, oggi “documento” vuol dire filmato YouTube, pagina in PDF, fogli di Excel e di Word, mail, messaggi di Twitter, fino ad arrivare ai log dei sistemi di sicurezza. Tutto è diventato complesso, nel formato e nel modo in cui viene gestito». L’informazione contenuta su questa infinita varietà di documenti, prosegue Patano, oggi è il fluido vitale della cosiddetta Terza Piattaforma costituita dalla combinazione di cloud computing, social, Big Data e mobility. Una sfera di business digitale dover risiedono milioni di applicazioni e che interessa potenzialmente miliardi di persone in grado di accedere al data center aziendale. «Essendo una vera piattaforma, questa sfera rende possibile lo sviluppo di diverse classi di servizi e applicazioni innovative, dalla sicurezza alla realtà virtuale, dal cognitive computing alla stampa a tre dimensioni, che a loro volta ci portano a quella che Idc definisce la trasformazione digitale e le profonde trasformazioni che essa induce sul modo di fare business».
Un’azienda su tre sarà paperless
Che cosa ha a che fare con il document management? «L’evoluzione dalla prima piattaforma, quella dei sistemi centralizzati, alla terza ha investito lo stesso processo di stampa» – sottolinea Patano. «Siamo passati dalle line printer del passato a una diversificazione delle tecniche di stampa, dove contavano soprattutto le specifiche tecniche, come i materiali, la velocità di stampa, il collegamento al singolo pc o alla rete. Oggi, anche la stampa è entrata nel cloud, nella mobilità e non decidiamo più in base alle specifiche tecniche, ma in base alla soluzione più conveniente». Con un obiettivo che, avverte Patano, deve essere perseguito con tenacia. Non tanto quello di combattere e azzerare l’uso della carta, perché, come precisa l’esperto di Idc, «le organizzazioni, soprattutto in Italia, vivono ancora in un mondo molto ibrido sotto questo punto di vista: se mettiamo insieme quel 75% di aziende che dichiarano di avere ancora a che fare con documenti cartacei e un 15% che addirittura conserva la totalità delle sue informazioni sui supporti fisici, per 9 aziende su 10 la carta è ancora importante». Questa situazione andrà gradualmente migliorando secondo le valutazioni dell’analista di mercato. Nel giro di due anni dovrebbe triplicare la percentuale di aziende capaci di assicurare flussi documentali interamente digitali. IDC ritiene che una azienda su tre sarà paperless, ma resterà pur sempre una forte percentuale di situazioni ibride, in cui la maggior parte dei problemi, degli errori e dei costi, è dovuta alla necessità di passare più volte da dati digitali alla stampa e viceversa.
Informazioni libere dai silos
Da questo “pain-point”, come lo definisce Patano, derivano – oltre ai problemi di costo e complicazione – una scarsa visibilità dei dati e una incapacità di integrare i flussi informativi e di processo in una modalità che porti un reale vantaggio all’azienda nel suo insieme. «Da questo continuo passaggio dal digitale al cartaceo, dalle necessità di riportare o estrarre dalla carta le informazioni da digitalizzare, nasce una scarsa integrazione con i normali workflow dell’impresa e una difficoltà di dialogo tra i vari dipartimenti». A questo proposito, osserva subito Alberto Carrai, direttore marketing di Able Tech, che con la sua piattaforma ARXivar indirizza proprio la necessità di automazione dei flussi di lavoro, le opportunità per una diversa modalità di gestione dei processi stanno diventando alla portata di tutti. «Vediamo tra l’altro, con le nostre soluzioni, che tipicamente l’ottimizzazione dei flussi avviene proprio a livello dipartimentale: ogni singolo dipartimento tratta le informazioni di cui ha bisogno». Ma l’esperto di Idc ritorna sul discorso di una gestione più integrata. «Non voglio dire che tutti, in azienda, devono poter vedere tutto, ma la visibilità sulle informazioni aiuta sempre nel problem solving e se si continua a ragionare troppo per silos dipartimentali non si possono cogliere i vantaggi che un fenomeno come Big Data, per esempio, mette a disposizione».
Il commitment dei capi
Maurizio Maccalli, responsabile ICT di DigiCamere, interviene individuando in una cultura di processo troppo compartimentalizzata – in cui ciascuno in azienda diventa in un certo senso “geloso” delle proprie informazioni – un serio punto di resistenza alla trasformazione digitale. «La mia personale esperienza è che un forte commitment da parte del top management è l’unico modo per superare certe resistenze. Non dimentichiamo che le aziende vengono da vent’anni di informatica distribuita e quando abbiamo ricominciato a centralizzare, certe resistenze sono crollate solo davanti all’oggettiva potenza del modello web». La discussione al tavolo proseguirà all’insegna di questa prima tensione tra la piena integrazione e le prerogative dei singoli dipartimenti e delle business line – con l’invito da parte di Patano – ad affrontare i progetti di dematerializzazione in azienda in un’ottica di trasformazione di processo, valutando, all’insegna del “right-sizing” e dell’ottimizzazione, quali sono i flussi informativi da gestire, quali soluzioni di stampa adottare per la parte di informazioni che si prevede debbano continuare a vivere sulla carta e quali misure di sicurezza e privacy adottare.
Il primo caso di studio sottoposto all’attenzione dei partecipanti alla tavola è quello presentato da Emilio Manca, head of multichannel operations and management systems department di UniCredit. «La dematerializzazione per le banche in generale e per UniCredit in particolare – esordisce Manca – è un modo per risolvere una difficile equazione: ridurre i costi legati alla carta e tutti i costi operativi, cercando al tempo stesso di seguire le future fonti di redditività». La clientela di una banca è sempre meno affezionata all’esclusiva relazione con lo sportello in filiale, al suo posto preferisce usufruire di una molteplicità di canali fisici e digitali, spesso iniziando su un canale una relazione d’uso che termina su un canale diverso. «Per questo – afferma Manca – per UniCredit la dematerializzazione rappresenta una formidabile opportunità». Il problema sta nel come interpretarla. «Nel settore bancario, non è facile perché per essere validi, i contratti stipulati con il cliente devono avere una forma scritta “ab sustantiam”. Dematerializzare in un contesto in cui l’assenza di carta può determinare la nullità di un contratto è un’incognita».
Formidabile opportunità
La soluzione multicanale adottata da UniCredit consiste, secondo Manca, nel disaccoppiare completamente il momento in cui viene generato il contratto da autorizzare da quello in cui il cliente apporrà la firma elettronica forte, utilizzando la tecnologia più opportuna al canale che si sta utilizzando. «In filiale, ricorriamo per esempio alla firma grafometrica su tavoletta: via web possiamo utilizzare l’abbinamento tra le credenziali di cui l’utente dispone e una “one time password” che può essere generata da un dispositivo fisico o un virtual o mobile token. Una volta apposta la firma, prosegue Manca, un’autorità certificatrice emette un certificato digitale remoto che viene associato al contratto o all’operazione autorizzata. Essenziale, perché questo disaccoppiamento funzioni, è una soluzione di workflow che permetta alla banca di tracciare l’operazione in ogni suo istante e di seguirne l’iter indipendentemente dal canale utilizzato, proprio per rispettare i criteri di multicanalità nel rapporto con il cliente. Oggi, conclude Manca, il 34% dei clienti UniCredit è in possesso di un certificato digitale remoto, tanto che la firma digitale forte è diventata anche un servizio, FirmaMia, regolarmente a catalogo. «Dematerializzare vuol dire soprattutto esplicitare subito una serie di controlli che garantiscono anche in futuro l’integrità formale di un contratto». Il vero problema dell’introduzione di una trasformazione come questa sta proprio nel change management, riconosce Manca: il workflow digitale, con i suoi automatismi, riduce i costi e dà molte garanzie, ma richiede, da parte di chi lavora in banca, di rinunciare alla apparente flessibilità della carta. «Nel mondo cartaceo, nessuno si accorgeva di una firma apposta in un momento successivo». Il mondo elettronico – in questo – è inesorabile.
La rivoluzione della Fepa
In rappresentanza di un settore spesso criticato per la vischiosità delle sue procedure, Maurizio Maccalli parla dell’ambizioso progetto di dematerializzazione su piattaforma Ibm che DigiCamere ha implementato con grande successo per la Camera di Commercio di Milano e i suoi 800 dipendenti. «Il progetto, realizzato nel giro di pochi mesi, è stato agevolato da un segretario generale che ha subito compreso i vantaggi in termini di efficienza, possibilità di controllo dello stato delle pratiche e risparmio di tempo» – racconta Maccalli. Ma siamo stati aiutati anche da una serie di novità che si stanno affacciando solo recentemente nel contesto della PA, a incominciare dall’obbligatorietà della fatturazione elettronica». Grazie al sistema di gestione del ciclo passivo che le Camere milanesi hanno implementato – aggiunge il responsabile informatico di DigiCamere – l’organizzazione è oggi al quarto posto in Italia per tempi di pagamento dei suoi fornitori. Un altro aspetto decisivo evidenziato da Maccalli, insieme al commitment da parte dei responsabili, è la creazione di un apposito ufficio per la gestione digitale dei flussi, che ha contribuito molto in fase di testing della piattaforma. Nessun documento interno a Camere di Commercio, secondo Maccalli, viene più trasposto su carta, inclusi gli ordini ai fornitori esterni che vengono firmati in modo digitale e inoltrati via Pec.
Dematerializzare all’esterno
A questo proposito, interviene Davide Blanchetti, responsabile ICT di Edenred, leader italiano nel settore dei buoni pasto. «Il concetto di dematerializzazione riguarda in realtà due ambiti. Uno interno, dove sono molto d’accordo con il richiamo di Patano alla soppressione dei silos e alla spinta verso una piena integrazione dei workflow. Altra cosa però è la dematerializzazione di documenti diretti verso entità esterne». Un’azienda di servizio come Edenred, spiega Blanchetti, ha rapporti diretti con un gran numero di piccoli esercenti che accettano i buoni pasto e si rivolgono a Edenred per ottenerne il rimborso. «Noi ci stiamo muovendo per ridurre i costi interni e le tempistiche di convenzionamento. I nostri affiliatori, quando vanno da un merchant – oggi o nel prossimo futuro – avranno in dotazione un tablet per le operazioni che riguardano la stesura dei contratti. Ma un punto su cui discutiamo molto con il nostro ufficio legale è se la firma apposta dai nuovi affiliati possa essere considerata contrattualmente valida». I dubbi di Edenred si agganciano, in effetti, alla problematica della fatturazione elettronica tra privati, un possibile obiettivo normativo che secondo Blanchetti favorirebbe la dematerializzazione anche nelle realtà più piccole e meno infrastrutturate, insieme – aggiunge Sergio Patano di IDC – «alla varietà di soluzioni tecnologiche grafometriche e biometriche che oggi si possono mettere in campo per garantire anche in assenza del supporto cartaceo il cosiddetto “processo di riconoscimento certo».
Cominciò tutto con la qualità
Nel suo intervento, Alberto Carrai ricorda le motivazioni che hanno spinto Able Tech a sviluppare la sua piattaforma di gestione documentale e worflow, ARXivar. «In origine, c’era l’esigenza, in base alle normative sul controllo della qualità, di classificare con precisione tutta la documentazione aziendale». In un certo senso, lo scopo del document management nell’era della Terza Piattaforma è rimasto lo stesso: non perdere mai di vista i dati. «Esistono troppi contenitori per le varie tipologie di informazioni e quando c’è bisogno di uno specifico dato, un contratto, una fattura, devono partire le squadre di ricerca. L’idea di processo interdipartimentale si basa sulla capacità di amalgamare dati provenienti da fonti diverse». Tutto questo è possibile con ARXivar e con un approccio che privilegia il corretto flusso delle informazioni prima del singolo documento, offrendo alle aziende di medie dimensioni (il target di riferimento di Able Tech) significative opportunità di risparmio di risorse economiche e di spazio, oltre a uno strumento in grado di tenere a bada quello che ancora oggi è un grosso generatore di costi e complessità: la posta elettronica che inevitabilmente accompagna ogni processo lavorativo. Rivolgendosi a Carrai e ai suoi colleghi, Maurizio Maccalli di DigiCamere si sofferma a questo punto sul tema del passaggio all’uso massiccio di dispositivi mobili. Il responsabile marketing conferma che ovviamente la copertura della mobilità è una parte essenziale del percorso evolutivo di una piattaforma di document management. «Le aziende si stanno abituando pian piano all’idea di portare in esterno il lavoro. Certo, bisogna pensare alle problematiche di sicurezza, ma è il compito del suo responsabile, non di chi gestisce i flussi documentali».
Mobile e sicuro
Emilio Manca di UniCredit ribadisce che pur in un contesto di policy di sicurezza molto severe – che in banca proibiscono completamente l’uso di dispositivi mobili personali – anche una realtà bancaria complessa come UniCredit utilizza piattaforme social come WhatsApp per le comunicazioni di lavoro e le relazioni con il cliente. Mentre Stefano Romelli, B2B customer intelligence manager di Samsung Electronics Italia ribadisce che a fronte delle minacce di smarrimento, furto e attacco ai documenti digitali, le risposte ci sono: «Come per le porte usb del pc, Samsung mette a disposizione la sua nuova Knox Suite, che protegge il sistema operativo, le applicazioni e persino il bios del telefonino, implementando una totale differenziazione tra uso personale e uso aziendale. Lo stesso vale per le nostre stampanti, che consentono di accedere ai documenti prodotti solo se autorizzati».
Per Giancarlo Veltroni, CFO di Randstad, i profondi cambiamenti che emergono da dibattiti come questo non possono non comportare una serie di ostacoli e difficoltà da risolvere. «Abbiamo parlato di un tema che fa sicuramente parte di questo cambiamento. Se una spinta può essere la riduzione dei costi e la ricerca di una modalità di lavoro più efficiente e integrata – vista dalla mia prospettiva – la dematerializzazione è anche fonte di investimenti perché oltre all’idea di efficienza ci sono forti esigenze di mercato e clientela». Veltroni fa l’esempio dei progetti che spingono Randstad, uno dei leader del settore del lavoro interinale, a “virtualizzare” le sue filiali e la contrattualistica, per rendere ancora più dinamiche e “always on” le assunzioni temporanee. «Sento parlare di processi. Ma non dimentichiamo le procedure che devono sostenerli» – conclude Veltroni, esprimendo una certa preoccupazione per i ritardi che le organizzazioni più piccole stanno scontando rispetto alle grandi.
Documentare la creatività
Mentre la tavola rotonda si avvia alla sua conclusione, c’è il tempo per un ultimo spunto: focalizzarsi sul documento forse non basta. Ordini e fatture rappresentano solo l’endpoint di un lavoro che è fatto di tante situazioni creative, di appunti e note sparse che nessuno documenta, ma per le quali esistono ormai diversi strumenti software specifici. «È il nocciolo di tutto il nostro discorso» – afferma Paolo Fila, Cio del gruppo Citterio, presente ormai su scala globale con i suoi salumifici. Alla fine, tutte le aziende riusciranno ad avere il loro sistema di workflow. Ma io penso anche a ciò che si è appena detto, alle fasi di preparazione di un progetto, di ideazioni di un prodotto nuovo, il lavoro che parte dalla materia prima, tocca le fasi di produzione e confezionamento, lo studio del gradimento da parte del mercato e così via. Dobbiamo riuscire a organizzare ciò che è destrutturato per definizione». Non solo. «Il disordine – interviene subito Romelli di Samsung – è parte inevitabile di qualsiasi progetto dalle sue bozze alla fase creativa». Ma le risposte, prosegue il responsabile B2B di Samsung, ci sono e il gruppo coreano, che oltre a fornire dispositivi e software di dematerializzazione e gestione è anche un grande fruitore di queste soluzioni, è in grado di affiancare il cliente in questa ricerca. «Penso in particolare ai nostri sistemi multifunzione, direttamente connessi alle piattaforme di content management, di condivisione, con interfacce ormai basate su Android e un ricco corredo di applicazioni disponibili nello store online».
Senza biglietto, ma non di straforo
C’è un ultimo contributo da ascoltare, quello di Davide Pifferi della direzione pianificazione strategica, piani di innovazione e integrazione commerciale di Trenitalia. Ma è un contributo di valore per una dematerializzazione che non può restare confinata a un ambito solo aziendale. Il discorso parte da due esempi concreti degli sforzi che il gruppo pubblico dei trasporti – che come sottolinea Pifferi oggi integra in misura crescente mezzi su ferro e, con Busitalia, su gomma – sta facendo per digitalizzare i suoi processi. «Il primo caso è legato al ticketless, che non vuol dire semplicemente e-ticket, cioè un biglietto che risiede comunque da qualche parte e puoi decidere di stampare, e offre la possibilità di salire sui nostri mezzi con la certezza di poter essere riconosciuti come viaggiatori. Oggi, questa modalità viene estesa anche ai treni regionali e gli stessi punti vendita convenzionati, come la rete dei terminali Sisal».
L’obiettivo di Trenitalia, in questo senso, è tutt’altro che banale perché, come osserva Pifferi, il biglietto del treno è in realtà un documento molto complesso, che assolve alla triplice funzione di titolo di viaggio, scontrino fiscale e contratto di servizio. «Potete immaginare le difficoltà cui andiamo incontro nel dematerializzare un oggetto come questo, anche in termini di relazioni con enti esterni, Agenzia delle Entrate compresa». Il secondo caso rappresenta un altro grosso sforzo in direzione del treno digitale. Si tratta della dematerializzazione della cosiddetta “borsa di bordo” in altre parole di tutta la documentazione, un tempo cartacea, che accompagna il viaggio del capotreno. «Trenitalia può smaterializzare molto» – spiega Pifferi. Ma se vogliamo rendere l’esperienza di viaggio tra due punti davvero facile e fruibile, occorre un enorme sforzo per rendere interoperabili i diversi sistemi di trasporto utilizzati, dal volo al trasporto locale». Dopo workflow, normativa, procedura, ordine destrutturato, interoperabilità, la parola chiave “experience” in tutte le sue declinazioni si aggiunge così a tutte le altre di un universo informativo libero dai vincoli della carta.