L’accordo ha dimostrato senso di responsabilità, ma il grado di soddisfazione di media e opinione pubblica non è così positivo. Ecco come mantenere la giusta rotta green
Tredici giorni per dettare un piano in grado di risolvere l’emergenza sul riscaldamento globale. Questo è stato la COP21, ovvero la XXI Conferenza delle Parti dell’UNFCCC, l’acronimo del trattato ambientale prodotto dall’ONU nella storica conferenza ambientale sul clima di Rio de Janeiro avvenuta nel 1992.
Sigle e date, citate tutte insieme, creano sempre confusione. Eppure, si riferiscono a un problema preciso e ben chiaro: la necessità di risolvere una volta per tutte la questione riguardante le emissioni dei gas serra. Vent’anni di meeting e conferenze hanno finalmente portato a una forte e unanime presa di coscienza: quasi 200 paesi si sono arresi ufficialmente ad accettare la “vulnerabilità” del nostro Pianeta.
L’accordo di Parigi dimostra una notevole assunzione di responsabilità, ma resta il fatto che il grado di soddisfazione di media e opinione pubblica non è positivo come quello comunicato dai governi. Ciò che stride è l’incoerenza tra l’impegno di affrontare l’emergenza e l’assenza nel testo di elementi che possano attribuire responsabilità legali a chi non rispetta gli accordi dettati.
L’impressione è quindi che la COP21 sia stata molto conscious, ma poco smart. Nonostante questo aggettivo sia sovrautilizzato – e spesso a sproposito – racchiude in sè molti concetti che, se interpretati al meglio, non risultano mai obsoleti e possono continuare a essere da guida. La prima verifica degli obiettivi raggiunti avverrà tra sette anni e, da qui a quella data, solo la volontà dei singoli governi farà da bussola.
SMART– Lestezza, agilità, celerità, lungimiranza. L’accordo diventerà giuridicamente vincolante se sarà ratificato tra aprile 2016 e aprile 2017 da un numero sufficiente di paesi. La data per l’entrata in vigore è il 2020 e la prima verifica degli obiettivi avverrà nel 2023. Ma se continueremo a inquinare nelle stesse quantità odierne per altri tre anni, sarà impossibile raggiungere gli obiettivi fissati.
COSA SI PUÒ FARE? – Capita che lo studio del rapporto fra nuove tecnologie e trasformazioni del territorio venga visto come un tema visionario e troppo lontano dalle esigenze concrete e immediate del territorio. Lungimiranza va a braccetto con innovazione. E l’innovazione non può non avere un dialogo e un rapporto stabile e sano con la tecnologia.
PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE – Nel trattato, non ci sono né una roadmap chiara né obiettivi a breve termine: si basa completamente sulla “buona volontà” dei singoli paesi (espressa in Indc).
COSA SI PUÒ FARE? – Valorizzazione delle risorse a km 0, elettricità a zero emissioni di CO2 che sfrutti le migliori scelte a disposizione in ogni paese e la sostituzione dei motori a combustione interna con veicoli elettrici.
COLLABORAZIONE E IMPEGNO SOCIALE – I paesi più industrializzati volevano che fossero gli organismi internazionali a controllare il rispetto delle quote di emissioni da parte di ogni paese, ma i paesi emergenti hanno chiesto e ottenuto che ogni stato verifichi le proprie, con una specie di autocertificazione.
COSA SI PUÒ FARE? – La soluzione non è chiudere porte e finestre. In questo senso assumono un valore prezioso iniziative di sharing economy, di collaborazione e il confronto e la verifica costante attraverso tavoli internazionali.
ONESTÀ, RISPETTO, EDUCAZIONE – Sapevate che l’accordo non prevede nessun intervento per il traffico aereo e navale? Nessun paese vuole conteggiare questa voce tra le sue emissioni delle tratte internazionali: hanno ottenuto che non si specificasse una data per la decarbonizzazione dell’economia dei trasporti e della logistica.
COSA SI PUÒ FARE? – Attenzione al “greenwashing”! Bisogna continuare a costruire e diffondere una morale ecologica internazionale in grado di coinvolgere l’economia di tutti gli stati. La paura si sconfigge facendo affidamento all’intelligenza.
Giulia Cattoni @urbanocreativo