Il cambiamento ispirato alle tecnologie non è più dominio esclusivo dei tecnologi: è il messaggio più spiazzante della tavola rotonda, organizzata da Data Manager e UniCredit sulla digital transformation
Le riviste specializzate tendono ad affrontare il tema del collegamento tra innovazione tecnologica e crescita privilegiando il punto di vista dei fornitori di queste tecnologie. L’obiettivo della nuova tavola rotonda organizzata da Data Manager in collaborazione con UniCredit è più ambizioso, e mira a coinvolgere anche il mondo della domanda qui rappresentato dai CIO, una figura ormai istituzionalmente adibita a fare da cerniera tra le esigenze, talvolta contrapposte, di supporto tecnologico al business e la trasformazione di procedure e modelli: un ideale trait-d’union tra gli obiettivi del management e gli strumenti abilitatori, fondamentale interprete di linguaggi diversi e non facili da armonizzare.
Ancora una volta l’obiettivo è raccogliere pareri e suggestioni, ma anche vere e proprie “ricette” sul significato dell’innovazione tecnologica e sul potenziale economico della trasformazione nonostante i fattori che la rendono così lenta e difficile nel nostro contesto nazionale. Ecco i nomi delle personalità e delle aziende che hanno preso parte all’evento: Massimo Messina, head of global ICT di UniCredit; Marco Berini, head of group operations & artificial intelligence di UniCredit; Giancarlo Baglioni, CIO di AON; Pier Paolo Crovetti, CIO di Brembo; Piero Maria Brambilla, direttore sistemi informativi e logistica di AREU (Azienda Regionale Emergenza Urgenza) di Regione Lombardia; Francesco Cavarero, CIO di Miroglio Group; e Sara Trabucchi, head of enterprise solutions di Vodafone. Con loro, hanno ulteriormente qualificato la discussione: Michele Moretti, CEO di Fincons Group; Gastone Nencini, country manager di Trend Micro; e Vincenzo Spagnoletti, director of data center/secure Power&IT partners sales di Schneider-Electric.
La tavola rotonda ha potuto avvalersi anche di Giancarlo Vercellino, research & consulting manager di IDC Italia, a cui è stata tra l’altro demandata la consueta introduzione “di contesto”.«La trasformazione non ha a che fare strettamente con l’IT e con i suoi dipartimenti aziendali» – ha esordito provocatoriamente Vercellino – «perché le problematiche risolte oggi dalle tecnologie hanno piuttosto a che fare con un nuovo tipo di cliente, il consumatore digitale come prodotto della socializzazione attraverso il web». Questa fase di profonda discontinuità nascerebbe dunque, secondo l’analisi di Vercellino, da strumenti di disintermediazione che consentono al consumatore digitale di arbitrare sui prezzi e la qualità dei prodotti. «La bilancia del potere tra utente finale e business si è ampiamente spostata verso il consumatore che oggi ha la possibilità di valutare severamente l’offering dei player anche a livello internazionale».
Cambiamento a velocità variabile
Vercellino prosegue interrogandosi su quanta trasformazione venga assorbita, in termini di investimenti tecnologici, dai diversi settori industriali, basando le proprie valutazioni sulle ricerche che IDC ha condotto tra i responsabili IT delle aziende europee. Insieme ai casi virtuosi del finance e del retail, l’analista evidenzia per esempio la riduzione di investimenti rilevata negli anni successivi alla crisi finanziaria nel mondo manifatturiero, che mostra segni di ripresa della spesa IT solo a partire dal 2014. Criticità sono osservate anche nel comparto della pubblica amministrazione: «Il confronto sull’Europa occidentale – indica Vercellino – mostra che la PA italiana non è attenta alla competitività, le amministrazioni non riescono a concepirsi come aziende che spesso devono competere a livello nazionale e internazionale. In molti contesti pubblici, la volontà di inseguire qualità dei servizi e nuovi prodotti è spesso solo uno slogan».
L’intervento di Vercellino aiuta i responsabili tecnologici seduti alla tavola rotonda a inquadrare la successiva discussione sulla percezione della digital transformation da parte delle aziende e soprattutto delle loro organizzazioni. Forse, il messaggio più forte lanciato da IDC è che la trasformazione diventa essenziale per tutta l’organizzazione quando i responsabili delle linee di business capiscono la necessità di migliorare prodotti, servizi e processi, diventando così i veri sponsor dell’innovazione.
I tanti volti dell’innovazione
La discussione parte da Massimo Messina, che esordisce ricordando la grande attenzione che UniCredit ha sempre dedicato, con connotati diversi nel corso del tempo, all’innovazione. Anche un CTO appassionato e competente come Messina ricorda come in queste discussioni si tenda spesso a focalizzarsi solo sulle tecnologie, «trascurando l’innovazione che può essere organizzativa, di prodotto, di approccio culturale. Abbiamo visto che la trasformazione necessaria per essere competitivi in un mondo che cambia molto rapidamente passa per molti fattori. La tecnologia è solo uno di questi e non è detto che sia il più determinante». Quelli che Messina chiama scherzosamente i “provocatori” dell’high-tech hanno però scombinato molte carte, inducendo anche un gruppo bancario così importante a definire una sorta di duplice modalità di approccio all’informatica di gruppo, una distinzione che si riflette anche sulle attività di ricerca e sviluppo. Da una parte abbiamo una modalità per così dire “tradizionale”, più legata ai prodotti e alla visuale che il business deve avere sui mercati. L’altra, spiega Messina, si focalizza sull’innovazione autenticamente “disruptive”. L’arrivo di quelli che Messina chiama innovatori, anzi “provocatori”, scatena secondo Messina un costante, positivo confronto con una “vecchia guardia” caratterizzata da una vena di prudenza che deriva proprio dalla responsabilità di gestire l’informatica del Gruppo, «dando un orientamento strategico a impianti che sono molto articolati e spesso – osserva Messina – fin troppo interconnessi tra loro». Trasformare una buona idea in qualcosa che abbia un impatto sensibile sulla “bottom line” di una azienda merita sempre grande attenzione, anche se quando si parla di digital transformation le difficoltà cominciano fin dal momento in cui si tratta di definire un concetto, il “digitale”, che ciascuno può interpretare a suo modo. «In realtà – ammette Messina – questa non è un’agenda che dettiamo noi, ma si sta costruendo con input che arrivano dall’esterno. E il fatto di dipendere da questi input, provenienti da settori che travalicano i confini dell’industria in cui si opera, è un fenomeno nuovo, con un impatto rilevante».
UniCredit, la banca che innova la banca
Dal pachiderma allo sciame
Per spiegare meglio l’effetto che la trasformazione sta avendo sul modo stesso di definire un “settore di industria”, Messina ripercorre brevemente un passato in cui un grande istituto bancario come UniCredit traeva dalle dimensioni la sua forza. «Questa percezione viene messa in dubbio da nuovi operatori verticali che entrano a costi molto bassi in settori ad alta profittabilità e scalano in termini di ecosistema. Oggi, i grandi gruppi devono saper rispondere a questi “sciami”, nella definizione di Zygmunt Bauman. «Un contesto ricco di opportunità, ma che implica grande preparazione e grande consapevolezza dei propri mezzi». Non è un caso se nella “skill economy” si sta creando una differenziazione così forte in termini di professionalità da portare in azienda.
Marco Berini è la figura preposta in UniCredit a una parte importante del governo della trasformazione. Il suo è un ruolo in costante divenire, in uno scenario che punta a una convergenza verso un unico team pensato per aggregare tutte le attività a carattere più innovativo. Attività, precisa Berini, che in molti casi esistevano già anche se dipendenti da altri “pezzi” della complessa organizzazione UniCredit. Il team dovrebbe appunto operare in parallelo con l’R&D strategicamente orientato al business, affrontando tematiche che vanno dagli aspetti più culturali dell’innovazione a quelli più affini ai prodotti e servizi da proporre alla clientela della banca. «Tipicamente, parliamo di temi come la robotica, l’intelligenza artificiale, il machine learning che nel nostro settore stanno diventando importanti e dove stiamo conducendo i primi esperimenti» – spiega Berini.
Anche per il nuovo manager dell’innovazione, il concetto di trasformazione digitale rischia a volte di essere troppo generico. I problemi invece sono molto concreti e uno di questi riguarda le abitudini, gli stili di vita dei consumatori – la comodità dell’e-commerce, la possibilità di confrontare e scegliere prodotti senza faticare nei negozi – che Internet ha realmente trasformato. «Sono cose – avverte Berini – che determinano nuovi standard di riferimento e con cui dobbiamo fare i conti» in un’eterna lotta tra un vecchio che continua ad avere i suoi tempi – obiettivi da perseguire, regole da rispettare, investimenti da reperire – e un nuovo che viaggia a velocità nettamente superiore.
UniCredit, integrare le competenze massimizzare il valore
Governo partecipativo
L’information technology, interviene nuovamente Messina, è un mondo che si sta dividendo in due. «Da un lato un’informatica di tipo tradizionale, che continua sul suo percorso di automazione e va avanti da anni, dall’altro l’IT della trasformazione, che esce dalla tradizione ed entra nel marketing, nelle figure del data scientist, dei capi dell’innovazione. A governarle personaggi che magari parlano la stessa lingua, ma con ruoli e, in alcuni casi, culture IT molto diversi». E il suo collega Berini conferma: «UniCredit ha voluto dare una forte impronta di competenza tecnologica al business, tanto che a livello di holding molte responsabilità sono attribuite al chief operating officer. Qui il CIO risponde al COO. Ed è la macchina operativa a guidare la trasformazione e l’innovazione dell’IT».
La presenza alla tavola di Piero Maria Brambilla di AREU ha permesso di affrontare subito le criticità esposte da Giancarlo Vercellino di IDC nella sua introduzione. Al responsabile dei sistemi informativi di un’azienda attiva in ambito sanitario, è stato chiesto se è vero che la pubblica amministrazione italiana fatica ancora nel confronto identitario con l’impresa privata. La realtà guidata sul piano tecnico da Brambilla ha implementato a livello lombardo il sistema di “numero unico” (118) per le diverse tipologie di chiamate di emergenza, con il compito di ricevere e smistare verso le diverse “forze” preposte all’intervento, le richieste di dispaccio di ambulanze, pattuglie di pubblica sicurezza e squadre di Vigili del Fuoco. Questa implementazione si è basata sulla concentrazione in tre sole centrali (contro dodici) che in modo coordinato gestiscono le chiamate per tutta la regione, azzerando le mille diversità nelle precedenti modalità di approccio. Oggi, AREU è una azienda unificata da 230 milioni di fatturato con 45 dipendenti. «Siamo stati innovativi noi o è stata la tecnologia, la digital transformation a renderci innovativi?» – si chiede Brambilla. In realtà, sono vere entrambe le cose. «Quando è partito il progetto, abbiamo guardato alla nostra storia, a quella degli altri, e siamo passati all’analisi di tutto ciò che c’era da automatizzare, integrare, ottimizzare, per poter innovare. Abbiamo detto no al precedente modello a favore di un forte consolidamento della infrastruttura che ha portato a un cambio radicale della organizzazione. Creare l’equivalente di un cloud privato per un’azienda pubblica è stato sfidante».
Una app per gestire le emergenze
La nuova organizzazione, che secondo Brambilla ha avuto grande sinergia con il top management, ha già dato il via a progetti collaterali come WhereAreU, una app che consente a chi richiede gli interventi di chiamare ed essere localizzato geograficamente da smartphone. In definitiva un successo che ha fatto diventare AREU – chiamata a partecipare al progetto per l’implementazione di un analogo numero unico nel distretto telefonico di Roma – un esempio per altre amministrazioni locali.
Se la trasformazione è possibile nella PA, che dire della presunta lentezza nei tempi di reazione di una grossa realtà manifatturiera? Il gruppo di componenti critici per automobili Brembo si sente davvero più conservatore? «Magari!» – scherza il suo CIO, Pier Paolo Crovetti, lanciando piuttosto una contro-sfida. Se il manifatturiero sembra investire meno in IT è anche «perché la domanda non è più adeguata alle reali necessità del settore, non è più quella commodity di cui ormai il mercato è saturo. Dal mio punto di vista, c’è un problema di coerenza tra domanda e offerta che Brembo non trova facilmente sul mercato attuale». Crovetti confessa di trovarsi un po’ a disagio con temi come i nuovi canali digitali e le spinte provenienti dai consumatori. Parlare di digital transformation in fabbrica è più complesso: si deve considerare per esempio il tempo necessario per far assorbire l’innovazione sul “ground floor”, tra le persone che popolano il sistema di produzione. «Per Brembo, innovazione significa resilienza, qualità dei prodotti e servizi, costi sostenibili per la tecnologia. Ma anche definire, modificare, far evolvere processi che siano flessibili, pervasivi».
Piloti e co-piloti
L’informatico non si è levato di torno, sottolinea Crovetti. «Però non siamo più quell’imbuto con cui il Business doveva sempre fare i conti. Siamo finalmente su una macchina da rally, con l’informatico che fa il navigatore e il collega di Business che fa il pilota». Il seguito dell’intervento di Crovetti è una vivace disanima sul ruolo delle tecnologie informatiche in un contesto B2B di produzione globale di prodotti fisici sofisticati. Dove la tecnologia è linfa vitale per l’operatività e la qualità, ma lascia spazio anche ad applicazioni “disruptive”. «Sempre sotto la mia responsabilità, stiamo creando un gruppo IT Advanced, applicato al mondo della fabbrica. Parlo di intelligenza artificiale, di big data, di robotica e altre tecnologie». Temi che riguardano ormai tutti i comparti e anche in Brembo richiedono, per restare fedeli alla metafora dell’auto da rally, una forte coesione tra IT e controparte business, «che deve crescere e specializzarsi con te» – avverte Crovetti.
Su questo punto interviene il responsabile di Fincons Group, Michele Moretti. La sua azienda di system integration opera con diversificate competenze in settori distanti come quello broadcast, il trasporto ferroviario e anche una inedita presenza europea nell’area linguistica tedesca. «Sembra prendere quindi forza il chief innovation officer come figura a lato dell’IT, in alcuni casi addirittura in contrapposizione». Rivolgendosi a Crovetti, Moretti chiede se nel comparto manifatturiero gli stimoli alla maturazione arrivino soprattutto dalla parte delle tecnologie. «No, le spinte sono soprattutto dalla parte dei responsabili operativi, dalla parte di gestione delle fabbriche e dalla parte del chief technology officer tradizionale» – è la risposta del CIO di Brembo. Con queste figure si ragiona sui tempi di adozione delle tecnologie, e si progettano strade alternative, frequentemente attraverso la realizzazione di proof of concept, con il crescente impiego di modellistica e simulazione. «La meccanica delle pinze dei freni è un sistema veramente complesso – spiega Crovetti – dove la difficoltà per gli esperti di modellazione consiste nel simulare una pinza senza costruirla, in modo da poter elaborare una quotazione di prezzo e riuscire a vincere una commessa».
Fincons, innovare per (r)esistere
Innovazione e motivazione. Il top management che decide
Secondo Moretti, il quadro che emerge dall’intervento del responsabile tecnologico del gruppo Brembo potrebbe differire da ciò che Fincons Group sperimenta nei rapporti con i suoi clienti. Alcuni elementi su cui Moretti si sofferma includono per esempio il ruolo del top management. «Spero innanzitutto che non sia vero in generale che i CEO delle aziende siano all’ultimo gradino della classifica dei fattori trainanti dell’innovazione. Personalmente, nella mia organizzazione spingo moltissimo verso la trasformazione». Un altro tema è quello della trasversalità, delle problematiche, delle applicazioni, delle relazioni. Moretti assegna alle competenze di digital transformation acquisite dalla sua organizzazione il merito del buon lavoro svolto per Sky Italia, con lo sviluppo della piattaforma cross-device SkyGo. Le tecnologie, secondo Moretti, aprono davvero le porte a una diversa percezione delle opportunità che possono nascere dal dialogo tra settori diversi. Moretti racconta di aver visto discutere i responsabili di un grande operatore ferroviario e di un grande gruppo editoriale a proposito di contenuti da veicolare attraverso i display informativi delle stazioni. «Oggi, si parlano tra loro aziende tra le più diverse. È una necessità che nasce dalla trasformazione, che rappresenta una parte significativa delle strategie che le aziende devono mettere in atto se vogliono sopravvivere».
L’informatica per l’anima
Una conferma delle parole di Moretti viene da Francesco Cavarero, CIO di una grande azienda, Miroglio, che nasconde due anime: quella dell’impresa manifatturiera tessile e quella della confezione e vendita di capi di abbigliamento. «La prima anima non sarebbe sopravvissuta senza le tecnologie. L’altra è cambiata a sua volta nel corso del tempo e oggi è diventata una realtà soprattutto distributiva. L’innovazione c’è stata in entrambi gli ambiti» – racconta Cavarero. «Ma il segno è opposto. Ed è diverso anche il modo in cui viene pilotata». In fabbrica, Miroglio è passata nel giro di pochi anni da modalità di stampaggio convenzionale dei tessuti all’uso di avanzate tecnologie ink-jet, e alla completa digitalizzazione dei processi di design. «In questo passaggio – spiega Cavarero – il ruolo dell’IT aziendale è stato inizialmente minimo. L’input è arrivato dalle operation. Anzi, lo stesso CEO ha il merito di aver intuito il bivio che avevamo di fronte». L’altra faccia del cambiamento, Miroglio la sta vivendo con il suo business fatto di relazioni con i terzisti che confezionano i capi, distribuzione sui punti vendita, marketing nei confronti dei clienti finali. Sono due facce che l’IT aziendale serve in due modi diversi, da una parte come una “macchina meccanica” in versione digitale, che dev’essere affidabile, stabile. Dall’altra, come strumento che non è più il responsabile IT a dover consigliare. «L’informatica – e qui concordo con l’immagine della macchina con i due piloti suggerita da Crovetto di Brembo – continua ad avere uno specifico fatto di assemblaggio, di capacità di lettura della tecnologia al di là della superficie. Ma in settori come il nostro, dove l’IT non è il prodotto, non si fa innovazione se non c’è la controparte. Quello che il mio CEO chiede, a parte mettere a disposizione il software necessario, è soprattutto di affiancarlo in un cambiamento che è soprattutto culturale, perché è inutile innovare un processo senza “trasformare” anche la testa di chi vi è preposto».
Anche l’hacker si trasforma
Se la cultura del consumatore come dell’utente interno delle tecnologie è un possibile fattore di rallentamento, altrettanto si può dire dei vincoli che l’innovatore deve rispettare per garantire un orizzonte di sostenibilità, praticabilità e compliance normativa alla trasformazione. Gastone Nencini, country manager di Trend Micro uno dei leader della cloud security, è chiamato a rispondere sulla possibilità di conciliare l’esigenza di protezione di infrastrutture e dati e “libertà di innovare”. «La discussione finora è stata estremamente interessante per me – risponde Nencini – perché ha toccato tutti i temi affrontati da Trend Micro. Noi stessi dobbiamo operare continuamente sul fronte della digital transformation perché il mondo del cybercrime è il primo a trasformarsi, a cercare nuove “opportunità” di mercato». Temi come i nuovi servizi bancari in mobilità, la tutela dell’informazione industriale, la privacy in sanità, sono aree di naturale presidio per i vendor di sicurezza. Con Brembo si è parlato di sistemi automotive, con Miroglio di integrazione di tecnologie nelle fabbriche. Nuove fonti di rischio si identificano là dove oggetti e protocolli che un tempo erano analogici si trasformano in un sistema digitale dove ogni forma di manipolazione – Nencini cita gli esempi della connected car e delle vulnerabilità dei sistemi di controllo numerico industriale – è possibile se non si introducono nuovi, opportuni strati di autenticazione e protezione. «Quasi trenta anni fa, Trend Micro è nata con la missione di creare un mondo in cui si potessero scambiare informazioni digitali in modo sicuro ed è quello che cerchiamo di offrire anche oggi».
Trend Micro, innovazione sì, ma più attenzione alla sicurezza
Nel suo intervento, Nencini sottolinea la necessità di rimpiazzare il tradizionale concetto di sicurezza come barriera invalicabile con un approccio basato sulla valutazione e la gestione dei rischi e proprio questo è l’ambito presidiato da AON, una società di consulenza specializzata nel risk management d’impresa e nel brokeraggio delle soluzioni assicurative ottimali. In questo senso, dichiara il suo CIO in Italia, Giancarlo Baglioni, AON agisce più come consulente e non essendo legato a uno specifico prodotto fisico o virtuale, il primo obiettivo è la rapidità di adattamento alle variabili condizioni di un mercato «che va dal consumer market fino al B2B e da qui al B2B2C» – spiega Baglioni. Torna, nel discorso del CIO di AON, l’efficace metafora della macchina da rally, che Baglioni completa con un’ulteriore metafora. «A volte, è il co-pilota tecnologico a prendere in mano il volante. Succede quando è lui ad avere un’intuizione sull’uso di una tecnologia e può suggerirlo, in assenza di una domanda sufficientemente matura». In questi casi, senza una precisa funzione organizzativa, l’IT prende in mano un volante che fa parte del suo bagaglio tradizionale.
Quattro mani sul volante
Contemporaneamente, prosegue Baglioni, la funzione tecnologica deve rimanere snella e aperta ed è tenuta a fidarsi della parte operativa, del business della sua organizzazione, anche se questa prende una strada che l’IT non aveva suggerito. «A volte la digital transformation scaturisce dalla leadership, dalla esperienza personale di visione del mercato che può essere in chiunque. Chiunque in quel momento può diventare pilota». Nel suo ruolo di navigatore incaricato a prevenire le brutte sorprese, il responsabile IT può paradossalmente avere una visione troppo limitata di una trasformazione che non è solo tecnologica e quindi agire da freno. «A bordo si valuta strada facendo. Non si hanno a disposizione tutti gli elementi ma si parte lo stesso per riuscire a cogliere le opportunità di crescita con nuove soluzioni e idee che poi devono essere ovviamente ingegnerizzate». Ma su queste opportunità – è il messaggio di Baglioni – l’azienda può avere una visuale diversa, più aperta rispetto alla mentalità ingegneristica di un responsabile operativo o tecnologico.
Le infrastrutture scoprono l’agilità
Ancora una volta, insomma, la flessibilità dev’essere anche culturale e organizzativa. Ma c’è un presupposto infrastrutturale di questa agilità e Vincenzo Spagnoletti, uno dei responsabili della sede italiana di Schneider-Electric lo specialista globale dell’energia e della progettazione di data center, esprime la sua visione sull’argomento sottolineando come, rispetto a un passato in cui termini come scalabilità e modularità erano praticamente sconosciuti a chi progettava le grandi “fabbriche di bit”, oggi la convergenza e il “software defined” permettono di concepire infrastrutture integrate dove ogni singola componente dialoga con le altre, dall’impianto elettrico fino a una piena integrazione del livello fisico con i livelli logici sovrastanti. «Siamo per esempio in grado di spostare macchine virtuali da un rack all’altro nel caso in cui la sicurezza fisica dovesse venir meno da un punto di vista della potenza elettrica o di condizionamento per singolo server o singolo rack» – spiega Spagnoletti, parlando di concetti di flessibilità che il cliente ha ormai assimilato.
Schneider-Electric, aggiunge Spagnoletti, è una realtà complessa che ha dovuto metabolizzare tutte le istanze di trasformazioni che la tavola rotonda ha affrontato. «Io rappresento la divisione IT, ma la mia azienda affronta la problematica della distribuzione end to end dell’energia in tutti i settori. Negli ultimi dieci anni, abbiamo acquisito oltre duecento aziende con una unica missione: essere specialisti globali dell’energia». Il gruppo ha unificato su un’infrastruttura condivisa tutte le funzioni IT aziendali. All’esterno questa expertise si traduce nella capacità di offrire al cliente applicazioni che permettono una elevata virtualizzazione delle fasi di dimensionamento, implementazione e gestione dei data center. «Oggi, è possibile toccare con mano la affidabilità di una infrastruttura fisica, validare un progetto completamente simulato prima di metterlo in produzione. Posso rilevare potenziali fallimenti prima che si verifichino danni permanenti, abilitando concretamente la trasformazione».
Schneider-Electric, le parole chiave del Business
Il data center è il tuo computer
A proposito di data center, Massimo Messina interviene a questo punto con un excursus di grande interesse. «Il problema che va affrontato – afferma il responsabile Group ICT di UniCredit – è di una geometria completamente diversa della gestione delle infrastrutture tecnologiche». Secondo Messina, sotto la spinta della virtualizzazione e di ambiziosi progetti open source come i cosiddetti “software container”, si è passati da modelli “shared everything”, con grandi cluster intorno ai quali allocare i servizi, ad architetture “shared nothing”, dove la scalabilità avviene in modo completamente orizzontale e con la semplice aggiunta di hardware a basso costo. Ci spostiamo in altre parole verso le architetture di rete dei grandissimi player del web. «Il nuovo mantra è il data center as a computer». Si tende cioè a non considerare più il data center nelle sue singole componenti da integrare, ma a considerarlo come un insieme di unità elementari, ciascuna delle quali rappresenta una unità di elaborazione perfettamente autonoma.
La scoperta della sinergia
A Sara Trabucchi, responsabile in Vodafone Italia delle soluzioni che l’operatore propone all’utenza business, spetta una valutazione conclusiva sulle tante tematiche emerse. «Credo molto nell’innovazione tecnologica come fattore abilitante della trasformazione e quindi del vantaggio competitivo per imprese che non possono permettersi di fermare il passo della trasformazione. Inutile girarci intorno: l’innovazione tecnologica permette di essere più efficienti nell’operatività, migliora i rapporti con i clienti, apre nuovi ambiti di mercato». Certe differenze, osserva la responsabile Vodafone per le Enterprise Solutions, sono evidenti quando si mettono a confronto i nuovi player che proprio grazie alla tecnologia sono riusciti a oscurare, in molti settori, anche i brand più consolidati.
La tecnologia amata da Sara Trabucchi, non è però quella “fine a se stessa”. «Penso piuttosto alla tecnologia applicata alla customer experience, all’utilizzo che se ne può fare, attraverso una innovazione guidata in azienda dalle stesse linee di business». Ancora una volta, l’esempio più efficace – conclude Sara Trabucchi – è l’esperienza che Vodafone ha maturato affrontando il cambiamento “dall’interno”, in particolare con un progetto di introduzione dei criteri di smart working che ha trasformato in modo radicale l’operatività quotidiana, le modalità e gli spazi del lavoro. «Tutto questo, in base a una esigenza che veniva dalle persone: quella di essere più efficaci nel gestire il proprio tempo e liberi dai tradizionali vincoli dell’ufficio, ma anche quella di incrementare l’operatività e il valore generato per l’azienda. C’è stata per la prima volta una completa unione tra queste esigenze con le tecnologie che sono state sviluppate, questa sinergia che ha portato alla messa in atto di una trasformazione visibile».