Quand’ero piccolo la fiducia era sinonimo di una nota industria casearia, che al suo brand faceva seguire il fatidico “vuol dire…”, ipnotizzando la clientela calamitata da Carosello. Le istituzioni hanno fatto poco per guadagnarsi analoga equivalenza
Il titolo, pregno di riferimenti televisivi al limite del bianco e nero, è sintomo dell’età di chi scrive o forse è indizio della ferrea determinazione nel non voler ammettere che gli anni passano. Poco importa. Quel che interessa è prendere atto che il mito dell’efficienza e dell’efficacia degli sbirri d’oltreoceano si sta ossidando.
Non ci interessano acrobatici inseguimenti e adrenaliniche sparatorie: ai giorni nostri, le rapine si fanno “a mouse armato” e i criminali non hanno più alcun bisogno di esporsi a rischi per raggranellare un bel gruzzolo. L’arsenale è fatto di hardware e software, non di pistole e pallottole, ma nell’immaginario collettivo questa consapevolezza stenta ad attecchire.
Proprio la ridotta sensibilità a possibili insidie rende il web e la posta elettronica estremamente fertili per chi vuole delinquere. E chi pensa che comunque c’è sempre la polizia pronta a salvarti, è bene che sappia che nemmeno più l’FBI è in grado di rassicurare il cittadino.
L’organismo investigativo in vetta a qualsivoglia Top Ten del mondo delle indagini recentemente ha spalancato le braccia dinanzi a un fenomeno troppo difficile da contrastare.
I detective del Federal Bureau – sempre solerti nel fornire assistenza a chiunque sia bersaglio di attacchi cibernetici o vittima di frodi informatiche – stavolta si sono pubblicamente arresi. Hanno dichiarato in modo pressoché ufficiale di non poter far nulla per aiutare chi si sia visto crittografare i dati presenti sui propri dischi a causa dei micidiali Ransomware.
Gli esperti dell’FBI non fanno un mistero dell’impossibilità di restituire la leggibilità delle informazioni che Cryptolocker, Cryptowall, Reveton e altri analoghi programmi virali hanno reso impenetrabili.
A dispetto del cognome che farebbe sperare nella certezza di un salvataggio, Joseph Bonavolonta – numero due del Cyber e Counterintelligence Program negli uffici federali di Boston – avrebbe detto: «A essere onesti, molto spesso avvisiamo la gente che l’unica cosa da fare è pagare il riscatto». La frase è rimbombata il 21 ottobre nella sala conferenze del Back Bay Events Center della capitale del Massachusetts dove si è tenuto il Cyber Security Summit 2015 e non è sfuggita all’attento uditorio.
I banditi che cifrano i dati, infatti, chiedono a chi cade nella loro trappola di versare qualche centinaio di euro o di dollari per ottenere la chiave per ripristinare la normalità su dischi e pendrive. Secondo Bonavolonta, cedere all’estorsione è la via più breve per risolvere il problema.
Sono abituato a intervenire in congressi e seminari. Sono avvezzo – in quelle circostanze – a stupire il pubblico, a lasciare tutti impressionati, a rendere indimenticabile il mio intervento. Lo faccio da tanti anni, da quando nel 1988 – sfidando la burocrazia, sudandomi le autorizzazioni, giocandomi i giorni di ferie – ero giovane capitano, responsabile dell’Infocenter del Comando Generale della GdF. Ho sempre sbalordito tutti con racconti, filmati e immagini in bilico sui limiti della imprevedibile provocazione. Ho usato al meglio la teatralità che avevo nelle vene, ho giocato con le parole e con le pause, ma non mi sono mai sognato di dire a qualcuno di arrendersi al racket perché nessuno lo può aiutare.
I Ransomware sono senza dubbio “brutte bestie”, ma forse il rimedio va trovato in un momento antecedente la loro aggressione. Un po’ di sana informazione è il primo antidoto.
Se nelle aziende si parlasse di queste minacce, si approfondissero le questioni relative alla sicurezza, si facesse spazio a una maggiore sensibilità e attenzione, nessuno farebbe click su allegati a mail di dubbia provenienza e non pregiudicherebbe il patrimonio informativo.
Avete mai visto qualcuno che si mette a toccare un pacco sospetto lasciatogli dinanzi all’uscio?