Inventori per natura

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Spesso quando ci interroghiamo sugli stimoli – e gli ostacoli – all’innovazione, ci dimentichiamo dell’evoluzione e del suo incessante percorso di cambiamento

Possiamo prendere esempio dalla natura e dai suoi meccanismi evolutivi per imparare a innovare? La cosiddetta biomimesi è l’argomento di un libro di Renato Bruni, chimico e docente ricercatore in Botanica farmaceutica e Biologia vegetale all’Università di Parma. Il suo Erba volant, imparare l’innovazione dalle piante (Codice Edizioni) è stato presentato a un affollato evento di BookCity Milano, insieme a un testo molto affine scritto dal giornalista scientifico Marco Ferrari e pubblicato dallo stesso editore: L’evoluzione è ovunque. Vedere il mondo con gli occhi di Darwin. Ma Erba volant è anche il titolo del bellissimo blog attraverso cui Bruni divulga da anni una quantità di notizie sui segreti molecolari delle piante e le loro infinite ricadute in campo farmaceutico, alimentare, ecologico. Ma lo stesso autore sottolinea come la biomimesi non sia propriamente una novità: «Il filo spinato è una invenzione, ottocentesca, che si ispira alla conformazione spinosa di una pianta americana, la Macluria pomifera, utilizzata per delimitare i pascoli dei ranch.

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A scuola di biomimetica

Una delle tesi del libro è che il lavoro di scienziati, ricercatori, inventori e persino di ingegneri e architetti può trovare diretta ispirazione nella realtà, biologica, che ci circonda. Nelle sue ricerche, Bruni ha individuato diversi ritrovati che sono già una realtà commerciale o fattiva. «Per esempio Lotusan, vernice dell’azienda americana StoCoat una volta applicata mima la superidrofobia dell’epidermide fogliare di piante come loto e cavolo, impedendo l’adesione dello sporco, agevolando la lavabilità. Oppure “Slips”, acronimo di Slippery Liquid-Infused Porous Surfaces, materiali antiaderenti ispirati alle piante carnivore del genere Nepenthes, dove si imita il sistema con cui la pianta intrappola le sue vittime per impedire la formazione di biofilm, coaguli, ristagni in devices biomedici, tessuti e in altre superfici che devono rimanere asciutte». Ma c’è anche il tessuto traspirante prodotto dalla Mmt Textiles, le cui fibre si “aprono” e “chiudono” in funzione dell’umidità secondo lo stesso meccanismo delle brattee delle pigne. «Tra i processi – prosegue Bruni – cito quello di simbiosi industriale adottato a Kalundborg, in Danimarca, dove operano aziende i cui rifiuti diventano materie prime per altre fabbriche, come nelle dinamiche di un ecosistema».

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Fatelo coi fiori

Nella sua presentazione, Bruni ha specificato che se una certa forma di “imitatio naturae” non è nuova, gli strumenti e le conoscenze di cui disponiamo oggi ci permettono di guardare molto a fondo nei processi naturali per trarre le nostre ispirazioni. «La biomimesi non è una novità come concept, ma la disponibilità di strumenti di IT è stato un catalizzatore fondamentale, esponendo esperti di settori diversi alle reciproche scoperte. Prima della diffusione estesa delle banche dati sulla ricerca scientifica, inventori, ingegneri e biologi raramente potevano contaminarsi a pieno e i mash-up interdisciplinari erano frutto del caso o del puro genio». I settori in cui il fermento è maggiore, secondo Bruni, sono quelli dei materiali e della fotosintesi artificiale. I primi prendono ispirazione soprattutto dall’organizzazione e dalla resilienza di architetture naturali (struttura delle ossa, dei fusti flessibili delle piante, delle parti di dimensioni nanoscopiche) per progettare nuovi materiali compositi. «Si sta facendo molto nello sviluppo di algoritmi a partire da organizzazioni e gerarchie naturali, per ottimizzare la quantità di materiale usato e performance, con abbattimento dei costi delle materie prime». Nel comparto delle rinnovabili, il governo americano ha investito nel Joint Center for Artificial Photosynthesis, espressamente dedicato all’imitazione della fotosintesi. «In realtà – precisa l’esperto in botanica – a essere studiate sono forme di fotocatalisi destinate a produrre combustibili come l’idrogeno a partire dalla luce, ma per abbattere i costi di alcune componenti si sta facendo ricorso anche a pigmenti naturali, per esempio nelle celle dye-sensitized solar cell (Dssc). Nell’ultimo decennio, il numero di brevetti in questo campo è cresciuto in modo considerevole». Ovviamente, tutto il settore farmaceutico rimane fortemente dipendente da un approccio biomimetico: «Le ultime analisi del mercato hanno confermato che tra tutti i nuovi farmaci immessi in commercio negli ultimi 25 anni, circa il 70% è direttamente o indirettamente ispirato alla chemio-diversità naturale» – sottolinea Bruni.

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Vernice verde

Nella loro conversazione a BookCity, entrambi gli autori hanno parlato anche dei limiti di questo approccio. Marco Ferrari ha ricordato, con Richard Dawkins, che i geni sono “egoisti”. Bruni ha aggiunto che l’evoluzione ha un occhio attento ma “miope”, focalizzato in modo poco altruistico sugli specifici organismi. Ci sono circostanze in cui la biomimesi non è opportuna? «Come ogni approccio all’innovazione anche quello biomimetico è neutro, a far la differenza è l’applicazione finale – risponde il ricercatore. Nella sua accezione originaria, la biomimetica dovrebbe puntare a prodotti con una progettazione che viene definita “cradle-to-cradle” (dalla culla alla culla) all’interno di economie a ciclo chiuso e in grado di ridurre l’impatto delle attività antropiche. Se c’è un principio evolutivo che andrebbe recepito è che in natura l’essenzialità, il bilancio perfetto tra costo di produzione e beneficio sono cardinali. Vedo invece molti gadget e molta voglia di usare l’ispirazione naturale per un semplice “greenwashing”, più come un’arma di marketing che di progettazione sostenibile».

Programmati per innovare

Nel caso in cui gli strumenti dell’evoluzioni vengano applicati direttamente sulla materia della vita (vedi il caso degli Ogm in agricoltura) la questione diventa più spinosa della Macluria pomifera. Ma è vero che erigere troppe barriere al riguardo può avere conseguenze negative sul piano della capacità di innovare? La biomimetica, ritiene Bruni, si avvale delle scoperte della bistrattata ricerca di base, che viene contaminata con istanze di tipo applicativo. «In molti casi, ingegneri, architetti e progettisti attingono a un bacino di informazioni già acquisite e un graduale calo del rifornimento di questo bacino rallenterebbe le attività future». La biomimetica in sé, conclude Bruni, non include l’ingegneria genetica: prende ispirazione e modifica gli adattamenti evolutivi, ma non interviene direttamente sulla vita degli organismi.

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«C’è una cosa – però – su cui la percezione che abbiamo degli Ogm si fonde con la dottrina della biomimetica: le soluzioni evolutive non sono mai definitive, ma soggette a costante revisione dalla selezione naturale». L’insegnamento da trarne è che le soluzioni finali non esistono e non si può pensare di smettere di innovare.