Interrogarsi sulla ricchezza vuol dire indagare i meccanismi che portano all’arricchimento e valutare la loro compatibilità con il buon funzionamento delle istituzioni e dei mercati. Vuole anche dire esaminare le conseguenze economiche e sociali della ricchezza, come fanno Maurizio Franzini, Elena Granaglia e Michele Raitano nel libro “Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo” (Il Mulino, Saggi, 2014). Oggi, la concentrazione del reddito è in mano all’1% della popolazione con una quota in costante aumento.
Secondo i dati del World Wealth Report 2015 stilati da Capgemini e da RBC Wealth Management, “i paperoni” del mondo sono cresciuti sia di numero che di patrimonio, toccando rispettivamente 14,6 milioni di persone e 56.400 miliardi di dollari, che nel 2017 diventeranno 70.500 miliardi. Il dato riflette un incremento del 7% circa, quasi metà rispetto alla percentuale di crescita dell’anno precedente. Anche l’Italia ha seguito il trend globale di crescita, segnando un +7,7%, raggiungendo i 218.900 HNWI (high net worth individual) nel 2014, rispetto ai 203.200 del 2013. Il vecchio continente può contare su una ricchezza finanziaria di quasi 13mila miliardi di dollari e una popolazione di milionari che raggiunge i quattro milioni di individui.
Qui il tasso di crescita sia della ricchezza finanziaria sia dei milionari è il più basso che nel resto del mondo, rispettivamente del 4,7% e del 4%. L’aumento della ricchezza è un segnale positivo perché si traduce in investimenti e in maggiore capacità di spesa. Ma la concentrazione del reddito a livello globale rischia di diventare un grave problema per la tenuta delle società e del sistema democratico. Le cause del divario di reddito secondo Franzini, docente di Politica economica all’Università La Sapienza di Roma, sono da ricercare nella degenerazione dei mercati verso un sistema di fatto sempre meno concorrenziale: «Si è creato un sistema distorto che si deve correggere. Il meccanismo è simile alla competizione sportiva e non al modello della competizione del mercato. Nella gara sportiva il primo prende tutto e agli altri non resta più niente o quasi. Questo porta, per esempio, al fatto che anche una minima differenza di talento fra i manager sia causa di un’enorme differenza di compenso». Fra le cause di questa degenerazione – secondo Franzini – ci sarebbe anche la tecnologia che permette a un artista di muoversi sui mercati globali o a un manager di controllare dal suo ufficio con un pulsante decine di aziende senza particolare sforzo.