Tecnologie e reti hanno messo a disposizione del lavoratore una pletora di strumenti che aiutano a comunicare e agire in squadra. Anche senza condividere lo stesso spazio, o trovandosi in piena mobilità. Dove ci sta portando tutto questo e chi governa il cambiamento?
Un efficace lavoro di squadra è sempre un ingrediente fondamentale per condurre in porto qualsiasi progetto. La tavola rotonda che Data Manager ha organizzato, insieme a Unicredit Business Integrated Solutions sul lavoro e la collaborazione “smart” punta a esplorare il contributo che le tecnologie – oggi – possono dare in un contesto lavorativo che proprio in virtù della disponibilità di determinati strumenti tecnologici è già profondamente trasformato, anche nei suoi aspetti più fisici. La mobilità ha reso labili i tradizionali confini che delimitavano gli spazi di lavoro. La pervasività delle reti e il cloud hanno creato intorno a ciascuno di noi una nuvola personale fatta di opportunità di contatto con gli altri e di produttività un tempo legata solo a specifici spazi attrezzati e a precise fasce temporali. Il lavoro, come l’informatica, è diventato always on.
La convergenza multimediale ha agito anche su un’altra importante barriera fisica, la distanza geografica che spesso separa le persone che stanno collaborando a un comune obiettivo, riducendo in modo sensibile la necessità di spostarsi da un luogo all’altro per potersi trovare gli uni di fronte agli altri. Tutte le nuove opportunità di virtualizzazione del lavoro di gruppo hanno avuto un impatto notevole sul modo di concepire e governare questo lavoro, sull’organizzazione degli spazi e dei tempi, persino sulle gerarchie aziendali. E anche se continuano a esserci resistenze di tipo procedurale e culturale, difficoltà tecniche e carenze infrastrutturali, possiamo affermare che il lavoro in squadra sta diventando sempre più smart.
Smart working, la rivoluzione che cambia le aziende
Nella discussione, i partecipanti hanno affrontato le diverse questioni che riguardano l’ICT applicata al lavoro: le piattaforme di collaboration e la loro evoluzione verso vere e proprie forme di schedulazione e project management, le tecnologie di unified communication, le applicazioni presenti sulle nuove generazioni di dispositivi mobili smart. Ma anche aspetti di governance, come il primato delle varie funzioni aziendali nell’implementare e guidare i fenomeni. La discussione ha potuto avvalersi non solo del tradizionale inquadramento sul mercato della collaboration fornito da IDC Italia, ma anche del contributo di Clusit, l’associazione che da anni, attraverso seminari, eventi e conferenze, promuove una maggior consapevolezza sui rischi afferenti l’uso delle tecnologie ICT.
Empowerment e fiducia
«Tutto sta diventando software defined, incluso il modo di comunicare e collaborare non solo in azienda» – esordisce Daniela Rao, telecom and networking research and consulting director di IDC. «Dopo precursori come Google e Amazon e l’arrivo di soggetti come Uber, la condivisione di veicoli di Car2Go, il modello AirBnB, ma persino, come vedremo, le banche – il business software defined non genera solo maggior produttività e capacità di controllo, ma ci consente di fare un passo avanti in termini di creatività e competitività». Al centro di questa trasformazione c’è quello che Daniela Rao chiama la “Internet of me”, un ecosistema basato sul ruolo che lo smartphone sempre connesso sta assumendo per milioni di lavoratori e consumatori (persino il marketing, diventato “di prossimità”).
«Naturalmente, la grande stratificazione di applicazioni e servizi utilizzati oggi dai lavoratori comporta nuovi tipi di minacce, ma le modalità di questo lavoro si trasformano radicalmente». L’analista Idc individua un presupposto fondamentale alla base di questa trasformazione. «Lo smart working deve ricevere tutta l’attenzione del top management di una organizzazione, sono i vertici dell’impresa che devono prendersi in carico il cambiamento». La grande flessibilità e il ruolo che gli individui finiscono per assumere nell’organizzazione producono anche entropia e complessità, aumentando la necessità di controllo centralizzato. «CIO e TLC manager diventano così veri centri di competenza, determinano i processi, affrontano difficoltà come la corretta scelta delle piattaforme».
UniCredit Business Integrated Solutions, Anna Maria Ricco: «La fiducia alla base dello smart working»
La prima a entrare nel concreto delle esperienze è Anna Maria Ricco, head of real estate Italy, per UniCredit Business Integrated Solutions, la “macchina operativa” per tutte le tematiche afferenti ai servizi di natura tecnica-gestionale. «Il tema smart working nella sede di Lampugnano, a Milano, viene affrontato da anni nel quadro di un approccio “phygital”, fisico e digitale integrato, allo spazio del lavoro» – afferma Anna Maria Ricco, soffermandosi poi sui notevoli cambiamenti e risparmi che l’evoluzione dell’ormai tradizionale concetto di open space ha portato in termini di riduzione fisica degli spazi occupati, di arredi importanti come armadietti e scaffali. «Certo, insieme ai benefici ci sono state difficoltà, il rumore ambientale, meno privacy, soprattutto attività più complesse da gestire. Da qui, la necessità di spingere sulle tecnologie più avanzate, fino ad arrivare per esempio a un’app specializzata con cui oggi i dipendenti possono prenotare i loro spazi di riunione completamente in remoto». Culturalmente, c’è stata una trasformazione importante, ma anche un corrispondente empowerment, un’autonomia molto maggiore. Diversi i fattori che secondo Anna Maria Ricco hanno contribuito all’adozione di procedure che un tempo sarebbero state impensabili per una organizzazione così estesa. «Fiducia è sicuramente una parola chiave, ma anche il commitment di tutte le leve manageriali e di una progettualità che ha avuto tre teste focalizzate sui progetti: le risorse umane, il real estate e tutto l’IT con la security, coadiuvate da una apposita struttura di change management». Altri due piani della torre UniCredit di piazza Gae Aulenti a Milano stanno per essere coinvolti in questa strategia di open space di nuova generazione.
«D’accordo con i sindacati, verrà introdotta la possibilità di lavorare un giorno a settimana fuori sede. Il tema – conclude la Ricco – è anche quello della sostenibilità di una riduzione del pendolarismo, la qualità di vita. Un valore sempre più apprezzato, particolarmente appealing per i giovani talenti. In prospettiva, il tema dello smart working dovrà confluire con quelli degli smart building, fino a integrarsi con il più ampio scenario della smart city, per esempio con la creazione di hub, utilizzabili dai colleghi ma resi aperti ai clienti, al business locale, ben attrezzati con tanta tecnologia e, da parte nostra, dal coraggio di sperimentare e valutare per promuovere ciò che funziona o tornare sui propri passi».
Gestione del cambiamento
Sul ruolo di guida della tecnologia in materia di cambiamento delle modalità lavorative interviene, in videoconferenza da Roma, Giampiero Astuti, Group CIO di Astaldi. «In Astaldi, siamo forse più tradizionalisti rispetto agli scenari appena presentati. Ma come gruppo con 350 sedi in trenta nazioni, abbiamo familiarità con le piattaforme di Unified Communication & Collaboration (UCC). Tutto ciò che aiuta a gestire e condividere i contenuti è necessario a far sì che gruppi di lavoro distribuiti su aree che comprendono da tre a dieci fusi orari possano cooperare. Le modalità, rispetto anche solo a cinque anni fa, sono completamente diverse. E in questo senso un tema molto critico, quello del change management, è particolarmente sentito, specie considerando il fatto di avere a che fare con persone che manovrano materiali e mezzi pesanti e medie di età elevate. La tecnologia si introduce agevolmente, ma le “teste” non possono cambiare con la stessa rapidità».
Persone, tecnologie e metodologie di una nuova forma di collaborazione sul lavoro sono dunque i tre aspetti da tenere d’occhio per un gruppo ingegneristico come Astaldi, che – secondo Astuti – può trovare un alleato proprio nella consumerizzazione. «Dipendenti che nell’ambiente di lavoro possono dimostrarsi piuttosto riottosi nei confronti della collaboration, sono maestri nell’uso di Facebook e LinkedIn. I modelli lavorativi stanno comunque evolvendo e le persone finiscono per apprezzare molto la flessibilità che queste tecnologie riescono a introdurre. Nelle sedi Astaldi è ormai affermato l’uso della videoconferenza, nonché strumenti di taglio più BYOD come Skype, accanto alle piattaforme professionali come Microsoft OCS o, per la condivisione di documenti, Sharepoint. «Un treno di trasformazione che va sempre più veloce» – conclude Astuti.
Il lavoro agile
Con l’intervento di Sergio Ciccarelli, IS HR business solution manager di Nestlé Italiana, la tavola rotonda affronta un’altra visione di cambiamento, questa volta inserita nella complicata struttura di una multinazionale del food che vanta molti marchi corrispondenti ad aziende originariamente autonome. Anche nel caso di Nestlé, la funzione più impegnata nel proporre e guidare un modo di collaborare più smart è l’ufficio risorse umane che, come afferma il suo responsabile infrastrutturale, ha un ruolo fondamentale non solo nella conduzione degli aspetti amministrativi, ma per tutto quanto afferisce la gestione del capitale umano. «Attualmente, uno dei grandi progetti su cui siamo impegnati come gruppo è la Alliance for YOUth, per inserire oltre mille giovani talenti in un network di dodici, presto tredici aziende, che fanno parte integrante della nostra supply chain».
Recentemente, Nestlé in Italia ha inaugurato una nuova sede, forse meno avveniristica della UniCredit Tower, ha riconosciuto Ciccarelli, ma pur sempre improntata a criteri architetturali e ambientali moderni, inseriti a buon diritto nel novero dei fattori che incidono sul modo di lavorare. «Il concetto di smart working può significare molte cose» – avverte Ciccarelli. «Nestlè è partita in questa direzione optando per orari più flessibili, per un diverso work-life balance, in linea del resto con il settore in cui operiamo. Siamo sempre più una wellness piuttosto che una food company». Tutto questo si riflette in uno stile lavorativo più agile, che supporta il dipendente nelle sue scelte di tempi e spazi sicuramente attraverso le tecnologie abilitanti dell’instant messaging, della chat, della condivisione, ma anche, sottolinea Ciccarelli, con gli stimoli e le motivazioni che arrivano dai responsabili HR.
La scelta di un’unica sede che ha preso il posto di un campus con diverse torri e una importante sede distaccata – quella di Nespresso negli uffici in pieno centro a Milano – ha comportato anche diverse scelte organizzative e ha influito sul modo di utilizzare gli spazi condivisi. A differenza di UniCredit, tuttavia, Nestlè ha deciso di applicare il concetto di open space senza rinunciare alla postazione fissa, che può essere modulata, per dimensioni e arredamento, in base alle mansioni svolte. «Ci sono molti fenomeni nuovi rispetto al passato, dobbiamo imparare a gestirli ma voglio ribadire che il ruolo dell’ufficio risorse umane è importantissimo. Un esempio? Uno degli obblighi per il dipendente nella nuova sede è la composizione anticipata del piano ferie. Quest’anno per la prima volta la funzione HR ha diramato una serie di suggerimenti, invitando tutti a responsabilizzarsi e a partecipare in prima persona alla definizione del piano. Un effetto evidente dell’orario flessibile è l’abbattimento dei vincoli di orario che in passato generavano molte richieste di permessi temporanei, per le visite mediche, gli impegni. Oggi, questo non ha più senso, al punto da rendere invidiosi i nostri colleghi della produzione. Non escludo che in tempi brevi, nei limiti del possibile e in accordo con i sindacati, si arrivi anche nelle fabbriche a una maggiore flessibilità nella turnazione».
Co-engineering in fabbrica
Il riferimento alla fabbrica induce la tavola rotonda a un’immediata riflessione sulle differenze che riguardano la riorganizzazione del lavoro fuori dall’ufficio. In questo senso, è di estremo interesse l’esperienza vissuta da Comau, braccio di automazione industriale e robotica del gruppo Fiat, che opera con una logica di stabilimenti fortemente distribuiti e con una doppia anima – da un lato l’ingegnerizzazione e i servizi, dall’altro la produzione – che rappresenta una grossa sfida sul piano della gestione delle modalità di lavoro e dell’uniformità dei diritti. «Sono due le spinte che inducono al cambiamento nel nostro settore – rileva il CIO di Comau, Flavio Bernocchi. «Una riguarda i tempi di sviluppo di un’auto, dimezzati rispetto a dieci o quindici anni fa. Fatto che rappresenta una spinta fortissima verso la collaborazione, perché non si può più avere una suddivisione del lavoro di stampo tayloristico. L’altro aspetto riguarda l’informazione, il dato, gli usi che ne facciamo e il modo di condividerlo». Condizioni che secondo il responsabile delle infrastrutture informative in Comau hanno portato in questo settore a forme avanzate di «co-engineering», un approccio partecipativo al design dell’auto che richiede complesse piattaforme di condivisione dei dati e progetti. Non è semplice gestire l’elevata dinamicità dei dati e delle loro molteplici fonti, riconosce Bernocchi, «ma l’informazione aggiunta, porta anche un valore aggiunto alle aziende che utilizzeranno queste informazioni. Queste piattaforme devono per esempio incorporare funzioni di collaborazione che facilitano lo scambio con chi ha contribuito al progetto».
Comau, Flavio Bernocchi: La sfida della fabbrica “smart”
Bernocchi a questo proposito rileva come esistano forme di collaboration che non hanno bisogno di sponsorship particolari all’interno dell’organizzazione, proprio perché basate su strumenti e comportamenti ormai acquisiti. «Altri progetti, per esempio l’uso di wiki aziendali, necessitano di stimoli specifici perché incidono molto sui comportamenti individuali. Come ambiente di lavoro, la nostra rimane un’azienda di manufacturing: l’open space riguarda solo gli uffici, da dove la carta tende a sparire a vantaggio di sistemi di distribuzione dell’informazione web». C’è però a questo proposito un tema di accesso a volumi di dati che in una società di ingegneria possono essere imponenti e richiedere molto coordinamento. «Tutte le aziende del settore – conclude Bernocchi – stanno vivendo problematiche simili. E’ impossibile lavorare come prima: c’è l’esigenza di comunicare e condividere, stiamo andando oltre la ripartizione tra azienda e supply chain».
Ridisegnare lo spazio del lavoro
Proprio al tema della disponibilità del dato aggancia il suo intervento Benjamin Jolivet, country manager di Citrix Systems in Italia. «In questa discussione, ho osservato diverse dinamiche interessanti per un’azienda come la nostra che cerca proprio di ridisegnare lo spazio del lavoro, sempre più definito da strumenti software. Il software guida, ma ci sono pilastri a cui abbiamo accennato e Citrix si confronta proprio con strategie che hanno una componente di ridefinizione dello spazio, alla quale si aggiunge però una forte componente culturale, di HR e di aspetti puramente tecnologici. Citrix è partita 25 anni fa proprio per dare accesso alle applicazioni. Oggi, diciamo che dobbiamo dare tutto quello che l’utente ha bisogno, su qualsiasi piattaforma o su qualsiasi dispositivo. Noi “esponiamo” le applicazioni, i dati, ma soprattutto un ambiente in cui l’utente si ritroverà senza essere costretto a passare da una esperienza all’altra. Perché una strategia abbia successo occorre partire dal basso, capire gli utilizzatori, quello che fanno, per comprendere se tutto funziona secondo una logica di flusso e in piena sicurezza».
Citrix Systems, Benjamin Jolivet: Il lavoro agile è “human defined”
Una visione, quella del responsabile di Citrix in Italia, che riecheggia nell’esperienza raccontata da Alberto Monterosso, marketing manager della divisione Voice Services di Colt, una “telco” focalizzata sull’utenza aziendale che proprio in virtù della sua organizzazione snella e distribuita nel mondo è stata la prima a dotarsi di servizi di UC&C basati sulla sua infrastruttura di rete, costruita intorno a 22 data center locali. «Il nostro modello organizzativo è fondamentale per centrare obiettivi di efficienza anche con una struttura leggera, dove tutte le funzioni sono concentrate in team geograficamente distribuiti. Per Colt, conta poco come è fatto l’ufficio, perché i nostri operatori si portano tutto dietro attraverso un desktop virtuale e l’interazione a distanza è facilitata dall’elevata qualità della nostra piattaforma di comunicazione integrata». Oggi, ha concluso Monterosso, questo stesso modello e la piattaforma tecnologica che lo sostiene, possono essere trasferiti al cliente grazie – ed è questo un altro ingrediente fondamentale in qualsiasi progetto di smart collaboration – alla forte motivazione che il top management dell’operatore ha saputo impartire fin dall’inizio.
Colt, Alberto Monterosso: il lavoro agile libera talento e risorse
Software defined workspace
Il testimone torna a un rappresentante del mondo delle aziende utenti con Vimar, una realtà del made in Italy di estremo interesse proprio per la sua focalizzazione su un mercato, la componentistica e sensoristica per la building automation, che si intreccia in modo indissolubile con il “software defined workspace”. «Vimar – racconta il suo CIO, Francesco Pezzutto, è un’azienda che condivide e costruisce dal basso i suoi processi decisionali. La nostra esperienza smart working coincide con un progetto di information & communication mobility lanciato tre anni fa, con l’obiettivo di dotare la forza lavoro sul campo di dispositivi ultramobili e di una nuova piattaforma CRM completamente orientata alla mobilità, con l’IT, chiamato a supportare un modello di community del tutto diverso. La seconda fase è consistita nel dotare la stessa popolazione di uno strumento di comunicazione e lavoro condiviso ancora più esteso, a 360 gradi, e l’aspetto caratteristico è che questa nuova piattaforma è stata sperimentata in anteprima sul top management, con apposite sessioni di formazione con una modalità che è stata successivamente estesa a tutti, partendo dalla forza vendita e andando poi a coprire altre funzioni aziendali, che spesso ne facevano esplicita richiesta». Secondo Pezzutto, l’uso di questi strumenti, insieme alla loro informalità e trasversalità, ha inciso in modo molto positivo anche sulla mentalità manageriale di Vimar, abbattendo molte barriere gerarchiche e rendendo ancora più efficace il lavoro, anche attraverso nuovi meccanismi di delega. Recentemente, Vimar ha avviato la terza fase di un progetto che include anche una parte di valutazione. L’obiettivo, impegnativo anche sul fronte dei sistemi informativi, è costruire sul cloud quella che Pezzutto chiama «room collaborativa, completamente virtuale».
Vimar, Francesco Pezzutto: «La collaborazione diventa intelligente»
Da ACI Global, società di servizi di viabilità recentemente estesa a domini come il car sharing, arriva un contributo molto stimolante, dove anche il carro attrezzi diventa in un certo senso software defined. «Uno dei progetti innestati in una fase di radicale cambiamento della nostra infrastruttura IT verso i cloud services – racconta Gianluca Cavalletti, Group CIO dell’azienda – punta alla automatizzazione degli operatori che intervengono sulle chiamate di soccorso stradale. Non sono operatori interni, ma fanno parte di una rete di centri convenzionati. L’attuale workflow prevede che dopo la richiesta di soccorso e una serie di attività di back end, i nostri call center di Roma e Milano concordino l’uscita dei carri attrezzi con questi centri delegati. Tutto questo verrà automatizzato, cercando di raccogliere il maggior numero possibile dei dati sulle vetture da riparare direttamente a cominciare dal numero di targa. A bordo dei mezzi, verranno installati blackbox Gps che consentiranno di intercettare carri già in movimento, non fermi in officina, attraverso parametri come la minor distanza dal luogo dell’incidente, o la migliore capacità di intervento direttamente sul posto, in modo da effettuare le operazioni di “depannage” senza dover trainare il veicolo verso il garage».
ACI GLOBAL, Gianluca Cavalletti: «Coniugare efficacia ed efficienza»
Per ACI Global questo non sarà l’unico cambiamento. Anche il quartier generale dell’azienda sta promuovendo l’uso dell’open space e l’uso di strumenti di collaborazione basati su Google Apps, interazioni attraverso Hangout o con Site per la condivisione di semilavorati e draft progettuali. «Un cambio epocale – ammette Cavalletti – fortemente sostenuto dal CEO che ha rivisto l’organizzazione avvalendosi di collaboratori con provata esperienza di trasformazione digitale».
Dall’IT all’operational technology
Prima della chiosa finale su collaboration e sicurezza affidata a CLUSIT, è il momento di un ultimo parere espresso da VEM sistemi, un system integrator di media grandezza geograficamente concentrato sull’area del Nordest, nato quasi trenta anni fa nel settore dei servizi per la realizzazione di data center e sistemi di cablatura ma oggi, spiega il suo AD, Stefano Bossi, impegnato a perseguire una visione molto più olistica, con uno spettro di soluzioni che va dalla unified communication al service e quality assurance. «La nostra esperienza è partita all’inizio del 2000 con myVem, un dispositivo che consentiva di ottimizzare i costi e l’efficienza delle connessioni Isdn primarie e di backup. La piattaforma integra e permette di gestire anche tecnologie di videoconferenza, telepresenza e collaborazione», con una estensione verso la sensoristica e la domotica che consente di controllare anche gli aspetti ambientali, l’illuminazione, il condizionamento termico, di una sala per meeting virtuali.
VEM sistemi, Stefano Bossi: Come trasformare l’ufficio in un “hub”
Stefano Bossi sottolinea come nonostante l’affermazione di molti standard consolidati, l’integrazione di apparati e applicazioni di vendor diversi è ancora molto complessa. Stretto collaboratore di provider come Cisco, Citrix, Microsoft, VEM sistemi ha adottato una politica di marketing ispirata alla diretta esperienza maturata al proprio interno. «Il “lead by example” ci è sembrato il modo più indicato per fare cultura nell’ambito della smart collaboration. Interveniamo con tutti i partner attraverso un approccio federativo sulle tecnologie. Questo concetto di federazione – afferma Bossi – ci induce ad agire come gateway tra mondi differenti». Le sfide nel futuro di VEM includono, secondo Bossi, uno shift di paradigma dall’information all’operational technology. «Per gli impiegati in ufficio si è fatto molto: ora si tratta di portare l’IT che conosciamo nel mondo produttivo, che è ancora molto legacy, popolato da protocolli che non dialogano con i protocolli IP».
Tecnologia abilitante o disabilitante?
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che Alessio Pennasilico, “security evangelist” dell’associazione CLUSIT , consorzio per la promozione tecnica e culturale della sicurezza informatica, focalizza l’intervento conclusivo, osservando come le numerose tecnologie abilitanti discusse dalla tavola rotonda «potrebbero facilmente diventare disabilitanti qualora non fossero implementate con le dovute accortezze». Non sono tanto le problematiche classiche riferite al malware come CryptoLocker a preoccupare l’esperto. «Il problema tecnologico c’è, ma ci sono anche gli strumenti per gestirlo. Sono più preoccupato davanti a strumenti che avete citato oggi. Pensiamo allo scambio di file, anche di piccole dimensioni, attraverso servizi che ancora funzionano come silos impenetrabili tra loro. Abbiamo la telepresence, ma poi è difficile trasferire un semplice documento tra i partecipanti». E se spostiamo il discorso sugli smartphone, prosegue Pennasilico, quanti meravigliosi servizi condivisi vengono improvvisamente meno per colpa di una batteria che si esaurisce all’improvviso? «Quello che mi spaventa parlando di work-life balance è anche l’impatto di queste tecnologie su un tempo che di colpo non è più mio».
I problemi di sicurezza e dialogo sono purtroppo destinati a complicarsi ulteriormente con l’avvento della Internet of Things. «Ci rendiamo conto che sempre più oggetti nasconderanno l’intelligenza di un pc senza esserlo? Che cosa succederà quando CryptoLocker ci chiederà un riscatto per farci vedere un film sulla smart tv»? Se oggi molti dispositivi industriali programmabili non possono dialogare sulle reti IP, questa impossibilità non durerà a lungo, ha ricordato Pennasilico, spalancando la porta a drammatici scenari di perdita di controllo di installazioni critiche, come le centrali energetiche, o magari di una connected car privata. «Questo è ciò verso cui stiamo andiamo incontro se non riusciamo a fare in modo che chi si occupa di impianti industriali o sensori parli con chi si è occupato di sicurezza ICT, guardando con gli occhi giusti quegli oggetti».