Il lavoro che cambia e la scuola che non tiene il passo. La tecnologia cambierà la scuola, non la politica
Abbiamo cambiato la catena di montaggio nelle fabbriche, ora stiamo cambiando l’organizzazione del lavoro nelle imprese. La tecnologia sta incidendo sul lavoro più di quanto la politica non sia stata capace di fare.
La strategia di molte aziende è da rivedere. Lo scambio di informazioni in tempo reale attraverso i dispositivi elettronici abbatte i confini fisici. In questo modo, si concepiscono nuovi luoghi e nuovi modelli per ottimizzare i costi, ridurre i consumi e per favorire una maggiore e diversa produttività. Il cosiddetto approccio “phygital” coinvolge le banche come UniCredit, dove il lavoro agile passa anche attraverso la riorganizzazione degli spazi, come è emerso dalla tavola rotonda dedicata allo smart working e alla collaboration. Ma se possiamo parlare di industria 4.0, se le banche e le imprese possono sperimentare nuove forme di organizzazione, allora perché non possiamo chiedere anche alla scuola di essere più “intelligente” e non solo “buona”?
Siamo tutti d’accordo. La rete è la sfida del futuro. Lo ha dichiarato il presidente dell’Antitrust alla presentazione della relazione annuale al Parlamento. Eppure, la mappa della banda larga e ultralarga in Italia resta un cantiere aperto. E questo è il primo collo di bottiglia. Il piano Scuola Digitale ha lasciato gli investimenti solo sulla carta. La connessione a Internet è ancora un privilegio. Le famigerate lavagne interattive multimediali sono ridotte a uno schermo a colori. Il registro elettronico è una rivoluzione mancata come quella degli ebook. L’edilizia scolastica resta un rebus. L’obsolescenza delle competenze, un tema dimenticato. E l’ultima riforma della scuola, nonostante i buoni propositi, si riduce a un piano di assunzioni, con tutto il corollario della retorica del merito. La scuola digitale prometteva la fine delle classi pollaio, una vera alternanza scuola-lavoro e un sistema di valutazione più trasparente.
Oggi, la scuola mantiene la funzione di “parcheggio” sociale, e quindi la rivoluzione del sistema dell’insegnamento, con classi virtuali, tutor personalizzati, percorsi formativi ad hoc, resta al palo. Se gli istituti scolastici di ogni ordine e grado fossero sostituiti da grandi hub polifunzionali della conoscenza, quanti soldi in più avremmo da mettere nelle tasche degli insegnanti che fanno bene il loro lavoro? In un secolo o poco più, siamo passati dai maestri pagati con moneta aurea ai docenti pagati con buoni pasto. Per Angela, due lauree, una vita da insegnante di sostegno in provincia di Taranto, precaria da sempre, fra le aule scolastiche e le redazioni dei giornali, la “Buona Scuola” è una riforma vecchia, spacciata per nuova. Inaccettabili, la chiamata diretta, il rinnovo dopo tre anni, il dirigente che scrive il piano dell’offerta formativa e il sistema ancora discrezionale di valutazione. Ma Angela ha una speranza: non di un posto a tempo indeterminato, ma di continuare il percorso che ha iniziato con un bambino speciale, come ce ne sono molti nella scuola.
E nel frattempo, dall’ultimo rapporto Ocse arriva la bocciatura dell’Italia proprio sulla spesa per l’istruzione. Da sempre, la scuola italiana ha dovuto fare i conti con i fondi con il contagocce e infrastrutture inadeguate. Né più né meno che altri settori della PA, come emerge anche dal 46esimo Rapporto di Assinform sull’ICT in Italia. Eppure, la scuola è la prima istituzione capace di favorire la mobilità sociale. In un paese vecchio e immobile come l’Italia, forse questo dovrebbe fare riflettere quando si parla di investimenti per la crescita. Alla scuola affidiamo il cervello delle generazioni di oggi perché diventino il Paese di domani. E la misura dell’intelligenza è la capacità di cambiare. Meglio una scuola intelligente, che una scuola soltanto “buona”.