Crescere, fuori dalla comfort zone

Un incontro di IDC dedicato alla problematica del legacy come freno all’innovazione spiega, attraverso il dialogo tra fornitori e un gruppo di aziende già digitali, che è possibile cogliere i vantaggi della “terza piattaforma” seguendo un percorso graduale e facendo leva sugli open standard

Una giornata dedicata alla trasformazione digitale delle aziende e in particolare al problema che molti CIO interpretano come un nodo gordiano, un vincolo se non insormontabile, difficile da sciogliere. Al Centro svizzero di Milano, IDC ha riunito fornitori tecnologici e aziende utenti per discutere di Legacy Transformation e innovazione. L’intervento introduttivo spetta a Sergio Patano, che cerca di analizzare lo status quo per individuare subito i tanti motivi per cui è urgente trasformare. «Legacy è dove siamo adesso – ha affermato l’esperto – l’orizzonte dell’azienda digitale è molto semplicemente là dove non possiamo non andare». Patano ha utilizzato due metafore apparentemente contraddittorie per definire l’infrastruttura IT e l’insieme delle applicazioni e dei servizi implementati come una stratificazione successiva di investimenti, codici, scelte tecnologiche. «Un groviglio che però è diventata anche la nostra comfort zone, un’informatica forse disordinata, ma sicura. Peccato che così com’è questa informatica è anche impermeabile all’innovazione, a una nuova cultura».

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Come uscire da questa comfort zone per inseguire il più stimolante orizzonte di una tecnologia, il cloud computing, dove il peso del ferro, del prezioso hardware in cui avevamo faticosamente investito, diventa tanto leggero? «Il punto di svolta è arrivato con la crisi, con la forte contrazione degli investimenti in infrastruttura. Quest’anno per la prima volta questa riduzione si è stabilizzata, ma è ancora troppo forte la proporzione tra ciò che spendiamo per mantenerci nella comfort zone o, viceversa, per innovare: l’80% della spesa va in legacy». L’analisi dello spending professionale degli ultimi anni dimostra, ribadisce Patano, che le aziende cercano di invertire i trend del passato privilegiando i progetti inseriti nel nuovo contesto della cosiddetta terza piattaforma e i suoi quattro pilastri tecnologici e applicativi: cloud computing, mobilità, social enterprise, big data. «Solo per supportare la mobilità dei dipendenti e della clientela – spiega per esempio Patano – si investe molto. Negli ultimi tre anni questo mercato è raddoppiato». Uscire dalla mentalità della legacy, dalla confortevole sicurezza del passato, oggi continua a essere un freno molto forte, un gradino che impedisce alle aziende «di mettere piede sulla terza piattaforma, di mettersi in condizione di sfruttare tecnologie come la stampa 3D, la robotica avanzata, le interfacce innovative».

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Anche qui Patano trova sostegno nei rilevamenti di IDC, che attraverso un suo sondaggio ha determinato come più di un terzo delle aziende italiane dichiara di basare sul cloud computing le proprie strategie di lancio di nuovi prodotti. IDC individua inoltre un importante fattore trasversale, un tessuto connettivo che pervade le tecnologie della terza piattaforma in tutti i suoi pilastri. «Il futuro è sicuramente open, in tutte le accezioni del concetto, open standard nei linguaggi, i protocolli, le interfacce, open data, fino a modelli come Openstack che impattano il mondo dello storage, del cloud e delle Internet delle cose». Una strategia di innovazione open ha moltissimi vantaggi, ha poi specificato Patano, in termini di miglior qualità, maggiore spinta all’innovazione sostenuta dalle community di sviluppo, riduzione o azzeramento dei costi delle licenze, libertà da fattori frenanti come il vendor lock-in, i rapporti di collaborazione “forzosa” con i fornitori.

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Come hanno dimostrato, nel corso della mattinata, i colloqui che il collega di Patano, Fabio Rizzotto, ha condotto con i rappresentanti di IBM, Microsoft, Oracle, Infor e Aruba, è proprio grazie all’apertura del modello ibrido di cloud computer che l’azienda può stabilire un percorso di uscita dal groviglio del legacy, magari partendo dall’identificazione delle applicazioni e degli interi processi che possono più rapidamente migrare verso strategie di sourcing tecnologico anche totalmente virtualizzate. Il vero requisito, ha però precisato Patano alla fine della sua introduzione, è concepire il percorso di migrazione verso le nuove modalità non come un semplice passaggio tecnologico, un “upgrade” come poteva avvenire in passato.

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«Innovare è inutile se adotto strumenti che mi consentono di lavorare in modo radicalmente diverso ma poi continuo a tenere in piedi i vecchi processi – ha avvertito il senior consulting manager di IDC». Quanto a come gestire la trasformazione, ha concluso Patano, sarebbe scorretto strutturare la migrazione verso la terza piattaforma come un cammino rigidamente pianificato, di lungo termine. «Pensatelo sempre a sua volta come un processo continuo, “on going”, fatto di frequenti valutazioni, aggiustamenti, come un ciclo che si ripete continuamente».

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