Capitale di rischio, i nuovi protagonisti

Private equity, venture capital e angeli amatoriali. Un’analisi del mondo del capitale di rischio: punti di forza e debolezza dei venture capital e nuove sfide con gli angeli dilettanti

Si è da poco conclusa la Private Equity Conference di Berlino. E l’umore generale non è stato dei migliori. Bisogna dirlo. È emersa per lo più una mancanza di creatività che ha messo in luce le insufficienti capacità dei fondi di private equity di proporsi come alternativa vincente. I profitti stanno scendendo, le tasse anche e il paesaggio diventa sempre più competitivo.

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Nel 2005, l’industria del private equity vantava all’incirca 1,2 trilioni di dollari in fondi di gestione nelle mani di circa 3.335 società. A partire dall’anno scorso, la cifra è salita a 3,8 trilioni di dollari nelle mani di 5.868 società di cui 2.252 sono in modalità di raccolta fondi, stando ai dati di David Rubenstein, cofondatore di Carlyle. Pertanto, non bisogna meravigliarsi se oggi la raccolta di fondi in media prende quasi il doppio del tempo impiegato in passato. Oltre ai numeri, ciò che colpisce è la nuova realtà dei fondi di private equity. Ma dove è andato a finire quel carpe diem che sembrava essere il motto del capitale di rischio?

In realtà sembra che il settore si stia ripiegando su se stesso, un po’ per l’incapacità di rischiare in investimenti all’avanguardia che invece potrebbero essere profittevoli, un po’ per una sorta di generale rassegnazione dovuta al fatto di non aver saputo cavalcare l’onda hi-tech.

«Abbiamo perso la barca sugli investimenti hi-tech» – dice David Rubenstein, il cofondatore di una delle maggiori imprese statunitensi di private equity. E dichiara ancora: «Tutto il potere si sta muovendo ora intorno alla Silicon Valley».

Il ritorno in scena dei VC

Ci sono diverse ragioni per cui il settore del private equity potrebbe avere ragione nel guardare con invidia le società di venture capital, tralasciando il fatto che non siano comparabili le quantità di capitale investito dagli uni e dagli altri. Alcuni anni fa, Blackstone ha scelto appositamente tutti i suoi dirigenti in Cina. A quale scopo? Il messaggio era chiaro e semplice: non importava quale fosse l’attività delle persone assunte, ciò che contava era l’impatto che la presenza della Cina avrebbe creato nel loro business. Oggi, lo stesso discorso vale per la tecnologia. Vi è un valore intrinseco che risiede nell’investimento nella tecnologia di per sé, a prescindere dalle quantità di denaro che possono essere impiegate. Imprese importanti tra cui Blackstone, Carlyle e KKR hanno esaminato la possibilità di acquisire società di venture capital, sulla base anche delle conoscenze degli esperti in materia. Sia Blackstone sia KKR hanno progressivamente abbandonato il proposito, ritenendo che vi fossero troppi ostacoli e che i propri investitori non avrebbero accolto di buon grado una simile iniziativa. Per quale motivo una simile diffidenza nei confronti dei VC? Le ragioni sono varie. Innanzitutto, Blackstone ha constatato i poco brillanti rendimenti dei venture capital nell’ultimo periodo. Inoltre, il passaggio di acquisizione e il conseguente cambiamento delle disposizioni per il controllo renderebbe difficile inglobare le società di venture capital. Infine, le dimensioni relativamente ridotte dei fondi di venture capital che si andrebbero ad acquisire determinerebbero come risultato una differenza solo marginale per le ambizioni di Blackstone e società simili, il cui obiettivo è di raccogliere almeno 500 miliardi di dollari in fondi di loro gestione nell’arco di un breve lasso di tempo.

Quale soluzione?

Blackstone sta usando il proprio bilancio per effettuare investimenti in interessanti start-up che possono contribuire alla sua attività, sia nel processo di analisi delle informazioni in tempo reale per gli investitori sia nella capacità di aumentare la sicurezza dei propri sistemi. Utilizzando il proprio bilancio, ha una maggiore flessibilità. E non è un caso unico. Dalla fine del 2013, nel frattempo, KKR ha investito centinaia di milioni di dollari fuori del proprio bilancio in aziende tecnologiche promettenti per comprendere meglio l’impatto della tecnologia sulle sue aziende tradizionali in portafoglio. KKR calcola che le società nelle quali investe spendono circa dieci miliardi di dollari ogni anno in IT. Essa ha anche formato una partnership con un fondo di venture capital, TenEleven Ventures, specializzato nella sicurezza IT, per comprendere come valutare potenziali investimenti. E la scelta di KKR si è proiettata verso aziende che si trovano lontano. I recenti investimenti comprendono una quota di minoranza in Ping Identity, con sede a Denver, il cui obiettivo è di fornire la sicurezza delle identità online; in FanDuel, una piattaforma online di sport di fantasia; in Arago, AG, specialista tedesco in automazione IT; e infine in ClickTale, un gruppo israeliano che consiglia i siti web su come migliorare le esperienze dei loro visitatori online. Quindi, i fondi di private equity tendono, anziché acquisire società di venture capital, a diventare loro stessi angel investors, finanziando le idee migliori.

Apertura agli angeli amatoriali?

Steve Case, CEO di Revolution LLC, sembra essere abbastanza favorevole a riguardo. In un’intervista a CNBC ha dichiarato che le startup sono investimenti rischiosi e che la maggior parte degli angel investors dilettanti non riuscirà a tenere il passo dei venture capital. Del resto, non è un’impresa da poco sostituirsi a un VC. «Quindi, se qualcuno sta cercando di mettere da parte un po’ di soldi per pagare le bollette, mandare i figli al college o risparmiare per la propria pensione, utilizzare tali fondi per attività di angel investing sarebbe un rischio semplicemente troppo grande». Nonostante queste prime obiezioni, Steve Case si proclama a favore degli angel investors amatoriali per tre motivi. In primo luogo, si tratterebbe di vincere un pregiudizio. «Respingo l’idea che la capacità di fare buoni investimenti dipende solo dalle dimensioni del proprio conto in banca. Ho visto un sacco di persone ricche prendere decisioni di investimento sbagliate, e un sacco di gente della classe media fare scelte più intelligenti». Soprattutto, se si investe in un settore o su persone che si conoscono. «Certamente – come dichiara Steve Case – occorre predisporre adeguati strumenti di tutela a tal fine. E adottare chiare e precise norme per il crowdfunding e soprattutto porre dei limiti all’attività di crowdfunding da parte dei privati. La seconda ragione per cui Steve Case si proclama a favore degli angeli dilettanti risiede nel valore intrinseco di un simile fenomeno. Infatti, si tratterebbe di un’attività civica, che aiuterebbe le comunità a crescere, a creare posti di lavoro e a promuovere opportunità. Anche quando questi “investimenti” non “ripagano” la persona che li ha realizzati, rendono la comunità un posto migliore e creano in ogni caso dei vincitori. Da ultimo, Steve Case ritiene che ci siano troppi VC «tecno-centrici».

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La peculiarità delle attività di investimento degli angeli dilettanti risiede nel fatto che la maggior parte di esse si concentra sui settori non-tech, aiutando per esempio un imprenditore a raccogliere fondi per un prodotto di consumo, per un servizio o anche per un concetto di prodotto o un’idea. Niente più VC istituzionali quindi?

È ancora presto per dirlo. Per il momento, l’idea di angel investors per passione o per spirito etico sembra ancora essere un progetto lontano dalla realtà, o quantomeno un processo destinato a sopportare una lunga gavetta prima di conquistare spazi sempre più ampi. Certamente, i venture capital dovranno fare i conti con nuovi rivali ed essere in grado di ottenere grandi exit per poter competere con la concorrenza.