Come ogni anno in questo periodo, i CIO si confrontano con le analisi e le previsioni pubblicate in studi e ricerche sulle priorità, trend ed evoluzione del ruolo. Dal confronto dei dati e dal dibattito degli analisti emerge un quadro in cui il focus è concentrato sulla digitalizzazione delle strategie enterprise e il digital business. Tra ruoli “dirompenti” e “abilitatori” dinamicamente ricoperti fra board e lines of business, i CIO si scoprono startupper di tecnologie esponenziali (almeno nella velocità di evoluzione dal mercato). I CIO convergono verso un ruolo di maggiore coraggio e responsabilità. Diventano i digital champions che riunificano le strategie risolutive davanti al business grazie a quello che è il proprio punto di forza: la visione globale dei processi sul campo
Man mano che strategie business e IT convergono, i CIO si trovano al centro di un cambio di paradigma per cui non possono più avere successo semplicemente facendo sì che le operazioni IT aziendali funzionino bene. Piuttosto, essi devono cercare al più presto di adattare il proprio ruolo per soddisfare al meglio le “short and long-term strategic corporate goals”. Non si tratta di mera pressione a fornire business value – che già in molti casi è elevato – bensì i CIO sono chiamati a consegnare top line revenue. Essere agile, responsive ed efficaci nel decision-making, nello sviluppo e roll-out, con lo sguardo a non-traditional services per nuove opportunità di revenue e crescita è oggi cruciale. La possibilità di intraprendere un ruolo di leadership matura ancora più in fretta, soprattutto quando i corporate risk manager esprimono – a volte in modo non corretto per taluni contesti – che deployment di big data e analytics siano troppo costosi e dannosi per l’azienda. I CIO “forward-looking” devono prediligere piattaforme IT che siano flessibili, scalabili e in grado di abilitare soluzioni business snelle. Il loro cammino deve far tesoro dell’esistente e nello stesso tempo andare a caccia di nuove sorgenti di “actionable intelligence” insite nei big data. La predictive analysis può così rivelare tale intelligence – anche qui, rispettivamente – nei data stream esistenti come in quelli nuovi. Il decision making empirico e data-driven che ne consegue risulta perciò basilare per marketing, vendite, supply-chain management, risk management, finance fra le altre competenze corporate.
Alla luce di tutto questo, le priorities riconosciute dai CIO risultano nell’ordine le seguenti:
1. Acquisire una maggiore visibilità e intelligenza delle strategie e priorità del business.
2. Identificare su quali progetti e iniziative focalizzarsi.
3. Stabilire una più chiara relazione fra strategia business e strategia IT.
4. Fornire un linguaggio comune ai leader di business e IT per comunicare.
5. Creare un metodo per riconoscere opportunità di innovazione IT in grado di permettere alle aziende di non perdere le sfide che la digitalizzazione pone a livello globale.
6. Abilitare l’enterprise a sviluppare una migliore business architecture practice.
7. Affrontare la complessità IT (social, mobile, analytics, cloud e Internet of Things), riconoscendo le attività di testing e quality assurance come una funzione chiave per il business.
8. Fronteggiare le priorità competitive mediante la competenza aggiornata e approfondita nelle nuove forme contrattuali strategiche dal mercato dell’insourcing e outsourcing.
9. Aumentare la conoscenza del proprio target di mercato e riconoscere pattern ricorrenti nei consumatori da trasformare in opportunità di business.
10. Ampliare il panorama IT, dando spazio a nuove applicazioni e soluzioni
per la modernizzazione e per il mantenimento dei sistemi e delle applicazioni legacy.
La stanza del CIO diventa un hub
Si sente molto parlare di “sforzi comuni” e di esigenza di parlare alle LOB per cui la priorità vera pare quella di guadagnare insight all’interno dei (talvolta strabordanti) data stores e i CIO enfatizzano l’importanza di fare tesoro degli asset esistenti applicando l’analytics. I CIO si trovano allo stesso tempo chiamati – dai senior business executives – a scandagliare l’Internet of Things con le sue indicibili moli di dati trasferiti M2M fra nodi situati in tutto il Pianeta. I sensori embedded sono un esempio perfetto: le aziende (fonte Gartner) stanno al momento analizzando lo 0,5% dei loro unstructured data (per esempio dati non adatti ai tradizionali database) ed è questa una media minuscola rispetto ai dati già oggi prodotti dall’IoT. Ecco che al fine di erogare value-added IT services che abilitino l’intero business a crescere e trasformarsi, i CIO hanno bisogno di integrare il proprio business e IT strategic planning. Internamente, allora l’IT deve essere partner delle linee di business interne all’organizzazione (ove applicabile: DevOps incluso). L’IT deve anche diventare un alleato di fiducia e un advisor con responsabilità sempre più sovrapposte a quelle delle funzioni business vere e proprie.
A questo proposito, l’ufficio del CIO deve comprendere sempre meglio e di più il proprio ruolo strategico per l’azienda. Non è un mero rimescolatore e analizzatore di big data. Piuttosto deve assumere responsabilità e nuova centralità nel risolvere problemi di business. Un modo per visualizzarlo meglio: pensiamo all’IT come a un hub centrale che collabora con diverse fonti restituendo a ciascuna una sorta di Knowledge as a Service interno. Così il CIO può in questo modo assurgere – come serve – a vero “collante” e agente di trasformazione capace di allineare e istituzionalizzare insieme technology e business processes per iniziare a trainare al meglio la crescita dell’organizzazione: proprio in un momento come quello presente quando – grazie a una adoption cloud in ascesa (e anche a un circolo virtuoso di big data trends for business intelligence e una analisi “finally ripe for the cloud”) – le esigenze di compromesso fra IT cost cutting e creazione di valore e business agility sembrano non essere più nemmeno contrastanti.
Le priorità dei CIO secondo Ade McCormack
Al fine di approfondire come i “CI2O” (dove I2 fattorizza qui idealmente il prodotto fra la “I” di “Information” e la “I” di “Innovation”), i CDO e CMO mettano in gioco le priorities dal loro punto di vista specifico, abbiamo “ingaggiato” una discussione con Ade McCormack (@AdeMcCormack), opinion columnist del Financial Times, blogger di CIO.UK, esperto di digital leadership e soprattutto autore di “The IT Value Stack: A Boardroom Guide to IT Leadership” vero e proprio “cult” per la comprensione di questo scenario. E a lui abbiamo chiesto come i chief information officer stiano affrontando il processo di digital transformation e come stia cambiando l’agenda delle loro priorità.
Data Manager: Quali priorità per un CIO sono maggiormente cruciali nel 2015 per la miglior integrazione o “entwinement” – come la definisce nei suoi libri – della tecnologia nel business?
Ade McCormack: Per la maggioranza dei CIO, l’esigenza di erogare servizi IT affidabili continuerà a essere The Priority. Ogni tentativo di evolvere da questo, spesso viene respinto. I CIO che hanno esteso il loro personal branding oltre l’IT management sono incoraggiati a concentrarsi sulla fornitura di business services.
Se la domanda fosse invece: i CIO – come priorità numero uno per il 2015 – stanno cercando un ruolo nuovo e vincente?
La maggior parte dei CIO si sta chiedendo quale sia la loro proposta di valore nell’attuale passaggio da una industrial a una digital economy. La loro priorità è pertanto quella di stabilire quale sia tale proposta e di eseguire un rebrand e una taratura della propria delivery in accordo.
In quale misura si trova d’accordo con la seguente prospettiva: una nuova struttura organizzativa nelle organizzazioni più avanzate cerca di realizzare il cambiamento?
Talune organizzazioni si stanno felicemente concentrando sulla operational efficiency piuttosto che sullo “tsunami digitale” che in molti casi renderà il loro modello di business obsoleto. Il 2015 vedrà numerosi esempi di disrupted industries che a loro volta vedranno il risveglio di taluni player di tipo più tradizionale.
Ma i CMO hanno davvero un ruolo chiave nell’affiancare i CEO alla guida della strategia?
Questo è probabile. Sebbene allinearsi con il cliente in opposizione a quanto si ha da vendere sarebbe ancora più appropriato.
In che rapporto stanno i COO nella realizzazione della strategia aziendale ad esempio in rapporto a CFO e altri operational stakeholder?
Il CFO di solito è un peer del COO, a meno che il COO sia il CEO ad interim. Ma sì, il COO deve girare la manovella. Ancora c’è un problema: capire se il modello di manovella da girare è adatto allo scopo.
Per i CIO alla ricerca di un nuovo ruolo vincente quanto è utile pensare alla competizione con i CMO?
I CIO non saranno mai in competizione con i CMO dal momento che i CMO non aspirano al “grubby job” dell’IT management. Dato però che l’IT spending viene considerato business spending, i CIO si troveranno a dover corteggiare l’appoggio dei diversi responsabili di dipartimento per far sì che spendano parte dei loro budget insieme alla funzione IT (“as opposed to a 99 cent app provider”). Il CDO è un segnaposto temporaneo che marca il problema, ma non fornisce la soluzione, a mio modo di vedere.
I CIO hanno fallito nel definire chiaramente i propri ruoli negli anni precedenti e – come a ogni inizio anno – si propongono di cercarne la definizione anche nel 2015. Un value add molto limitato che un CIO può apportare ad aziende medie e piccole?
I CIO sono troppo presi sulla “ruota del criceto” per riuscire a meditare più di tanto su questo. E a molti CIO la ruota del criceto piace: per essi è davvero un grande shock quando gliela si sottrae!
Anche per le grosse organizzazioni, la modalità di lavoro dei CIO è tradizionalmente quella di analizzare i dati per poi “inoltrarne” l’elaborazione ad altri CxO per la loro ulteriore azione. Per questo normalmente per il CIO non si ha board level representation migliore e diversa da quella di un “infrastructure boss” o di un “nice to have cost center”…
Non ne sono sicurissimo. Un punto chiave però è che raramente nel board c’è qualcuno che capisca di digitale e dello straordinario potenziale di trasformazione per il business da parte delle nuove tecnologie. La chiave è quella di trasformare i dati in insight! L’insight è veramente quello che amo vedere nella “I” di “CIO”. Ma ancora oggi la maggior parte dei CIO agisce come se la “I” sia quella di “IT”.
Il “nuovo mondo” dei CIO
Da questo scambio con Ade McCormack riceviamo un’importante conferma di come molti CIO ancora oggi debbano affrontare il problema di adattarsi alle trasformazioni disruptive. Mentre il vecchio mondo del “command and control” sta rapidamente scomparendo, il CIO si sente bloccato in un ruolo quasi “fuori controllo”: più “portinaio” che facilitatore di innovazione e crescita.
Il “nuovo mondo” che è già realtà, è quello in cui influence, collaboration e partnership caratterizzano il successo del ruolo di CIO: coloro che sanno abbracciare queste nuove trasformazioni e nello stesso tempo rimanere ancora ottimi “steward delle responsabilità tecnologiche” cardini dell’IT, quali architecture e security si evolveranno al meglio. Tutti gli altri – in mancanza di immaginazione, capacità e voglia di crescere e sapienza per raggiungere un nuovo equilibrio – faticheranno a guadagnare il nuovo “karma”.
Ma cerchiamo di capire meglio motivi e dinamiche di questo fenomeno.
Business Digital Transformation
Reason Why
Quali sono le svolte strategiche e decisionali alla base della trasformazione del modello di business aziendale? Quali sono gli effetti della Terza Piattaforma?
«Da oltre un quinquennio – ci spiega Giancarlo Vercellino, research & consulting manager di IDC Italia – il tema della digital transformation si è progressivamente diffuso oltre l’audience IT degli addetti ai lavori quando interi comparti dell’economia (dall’editoria quotidiana all’entertainment televisivo al retail banking e oltre) sono andati incontro a vere e proprie rivoluzioni del modello di business, molte delle quali ancora inconcluse, a causa, o per merito, del web e della tecnologia digitale». Se fino a qualche anno fa un’audience legata alla LoB riteneva questo tipo di evoluzioni un processo inevitabile soltanto per alcuni settori molto specifici dell’economia, quelli ad alta intensità di informazione, «l’ampiezza delle trasformazioni degli ultimi anni – continua Vercellino – ha reso sempre più evidente la necessità di confrontarsi con un processo più generale. Infatti, la trasformazione digitale ha un impatto sia sulle aziende che fanno produzione, attraverso la dematerializzazione e decommoditizzazione dei beni, sia sulle imprese che fanno servizi, attraverso la standardizzazione e industrializzazione dei processi».
Non solo. «Il tema della dematerializzazione dei prodotti di consumo – dice Vercellino – emerge chiaramente nelle parole di Bill Joy, Marc Andressen, John Thackara, Peter Diamandis, Steven Kotler, soltanto per citare i nomi di alcuni osservatori di estrazione molto diversa, dall’imprenditoria tecnologica al design thinking al management accademico, evidenziando una tendenza strutturale di lungo termine, un “macrotrend”, che attraversa trasversalmente i comparti industriali più disparati».
Secondo IDC, quando si sostiene che il software stia divorando il mondo, rimuovendo progressivamente la necessità degli oggetti fisici, non si sta raccontando l’ultimo plot di fantascienza di Sci-Fi. Infatti, basta soffermarsi un istante e considerare il proprio smartphone per rendersi conto che in moltissime occasioni ha completamente rimpiazzato l’orologio da polso e la sveglia domestica, la calcolatrice, la rubrica cartacea e il calendario, il lettore MP3 e la radio e la macchina fotografica, senza dimenticare il navigatore satellitare e le game console portatili. Anzi, «un giorno non lontano – continua Vercellino – potrebbe sostituire il portafoglio e i documenti personali, le chiavi di casa e le carte fedeltà, il denaro e le carte di credito».
La dematerializzazione dei prodotti di consumo e la diffusione sempre più capillare del software nella vita di ogni giorno non rappresenta una minaccia, bensì una opportunità per le imprese che fanno produzione di commodity, che sono portate a innovare e differenziarsi attraverso i servizi digitali. «Perfino un’azienda all’apparenza lontana dal digitale come le Moleskine – racconta Vercellino – ha ritenuto indispensabile fare capolino negli application stores con una propria applicazione ufficiale. Quella al digitale non è certo una transizione semplice e indolore: richiede una competenza trasversale, multiforme, quasi misterica, competenza di cui si parla dovunque, competenza che si cerca in ogni dove, senza che davvero si sappia che cosa si sta cercando: la capacità di fare innovazione».
Anche l’industria diventa digital
La trasformazione digitale, focalizzando tanta attenzione sull’innovazione, molto spesso mette in ombra un altro fenomeno altrettanto fondamentale, e forse ancora di più. Secondo IDC, il tema dell’industrializzazione dei servizi ad alto contenuto di conoscenza, di quel multiforme Terziario Avanzato che si estende dal design e dall’engineering ai servizi di marketing fino all’ambito legale, sebbene teorizzato da decenni in ambito accademico, soltanto in questi ultimi anni, una volta maturate le infrastrutture e le tecnologie abilitanti della Terza Piattaforma, sta assumendo una più concreta manifestazione.
«La moltiplicazione dei frameworks regolamentari e delle certificazioni di processo, l’intensificazione della pressione del regolatore pubblico attraverso specifiche norme di conformità, non soltanto nel settore finanziario, ma nelle utilities e nell’entertainment – spiega Giancarlo Vercellino – si accompagnano a una rapida affermazione di nuovi modelli IT basati su architetture flessibili e scalabili come il cloud, nell’ambito di un più ampio processo di standardizzazione che interessa in primo luogo lo stesso modello organizzativo dei vendor e del settore ICT nel suo complesso, ancor prima che il mercato nella sua ampiezza».
Per IDC, la standardizzazione delle tecnologie abilitanti che garantiscono l’interoperabilità tra piattaforme diverse non rappresenta soltanto l’occasione per raggiungere nuovi livelli di efficienza in un comparto ad alta intensità di lavoro qualificato, il cui costo è per definizione incomprimibile, «ma – fa notare Vercellino – consente di fare innovazione nel modello di organizzazione delle imprese di servizio, che possono diversificare l’attività e acquisire più rapidamente la massa critica di asset necessari per scalare verso modelli di holding industriale che molto spesso si estendono ben oltre il tradizionale settore IT. Per esempio, è possibile ricordare le esperienze che stanno maturando nella contaminazione tra editoria ed eCommerce con il Gruppo Banzai, per citare soltanto un caso consolidato da anni».
Nello scenario che si è descritto, idealmente proposto in un orizzonte decennale dal 2020 al 2030, non basta che una tecnologia abilitante come il cloud mantenga appieno le promesse di scalabilità, flessibilità e controllo dei costi, ma è necessario che l’intero sistema dei vendor vada incontro a una riorganizzazione coerente rispetto a un nuovo modello di valore, che non è più quello di chi produce e rivende software, ma è più simile a quello delle utility tradizionali dell’energia. Secondo IDC, il paradigma emergente di cui al momento è possibile soltanto intravedere i prodromi è quello di grandi “multiutility” di servizi ad alto contenuto di informazione e intelligence, ai quali affidare la gestione delle informazioni degli altri comparti dell’economia reale. «Soltanto queste trasformazioni a monte – avverte Vercellino – consentiranno la propagazione di trasformazioni altrettanto radicali a valle, evidenziando in misura sempre maggiore l’importanza degli asset intangibili nell’economia reale. Se davvero si confida nel fatto che il valore di qualsiasi impresa dipenderà sempre di più da asset come la proprietà intellettuale, nel senso più ampio possibile, comprendendo qualsiasi prodotto della creatività imprenditoriale, brevettabile o meno – o dipenderà dalle relazioni consolidate, andando oltre il focus prevalente sulla fidelizzazione della clientela per considerare l’intero sistema delle relazioni con qualsiasi stakeholder, adeguatamente “reificate” attraverso le piattaforme di social network – ecco che diventerà ancora più evidente il ruolo svolto da queste ipotetiche “multiutility” nel garantire al comparto produttivo competenze e tecnologie per salvaguardare l’integrità e promuovere lo sviluppo del capitale intellettuale delle imprese».
La roadmap delle imprese italiane
Quali sono le priorità dell’innovazione digitale per le imprese del 2015? Dalla Digital Innovation Academy della School of Management del Politecnico di Milano arrivail seguente messaggio a chiare lettere: «L’innovazione digitale nelle imprese italiane parte dalla trasformazione organizzativa».
Dal report “Priorità dell’innovazione digitale per le imprese nel 2015” pubblicato a febbraio, emerge la crescita di consapevolezza da parte dei decisori aziendali sul tema dell’innovazione digitale come strumento di competitività. Oggi, non c’è impresa che non debba affrontare le sfide della “digital disruption”, la digitalizzazione dirompente, che come un’arma a doppio taglio mette a rischio ogni business, anche il più consolidato, trasformando ogni azienda, senza categorizzazione di mercato o segmento, in un potenziale competitor. Anche nelle imprese italiane, le direzioni IT sono chiamate a supportare la trasformazione culturale e organizzativa che dai data center si è estesa fino all’organizzazione del lavoro e alla customer experience. Ma per le nostre imprese e le nostre direzioni IT, l’obiettivo è reso ancora più sfidante da un contesto di costante razionalizzazione e contenimento dei costi, nonché da un quadro economico e istituzionale di continuo ritardo rispetto alla trasformazione digitale, a cui la tanto attesa Agenda Digitale ancora non sembra dare risposte.
La ricerca che ha coinvolto duecento CIO di grandi imprese italiane, mostra come l’inversione di tendenza sperata non ci sia stata. Nel 2014, il rapporto tra il budget ICT e il fatturato delle imprese medio-grandi e grandi è sceso al 2,1%, rispetto al 2,5% registrato nel 2013. I CIO italiani prevedono anche per il 2015 un ulteriore calo del -1,47%, nei propri budget, in netto contrasto con le stime di crescita internazionali del mercato ICT.
Previsioni per il 2015
Il 2015 si presenta come un altro anno di fatica per i chief information officer, abituati ormai a fare di più con meno. Infatti, un CIO su tre ritiene che il budget ICT a propria disposizione sia adeguato rispetto alle richieste delle Linee di Business (LoB), dato in cui si annida forse anche un senso di rassegnazione.
Se la situazione è tale da portare con sé comprensibili atteggiamenti prudenziali e di rassegnazione, tuttavia la strada verso la trasformazione digitale comincia proprio dal ruolo di impulso che il CIO può avere nella propria impresa, e dalla trasformazione coraggiosa dei ruoli e delle competenze della direzione IT nel suo complesso con l’obiettivo ultimo di trasformare gli investimenti ICT in efficaci investimenti per il business. In termini di priorità organizzative per il 2015, il 49% degli intervistati si orienterà sulla ricerca di nuovi ruoli e meccanismi organizzativi per la gestione dell’innovazione, per migliorare i processi aziendali, le relazioni con i clienti e il modello di business. Il 34% rinforzerà il ruolo del demand management, per sviluppare ulteriormente l’integrazione con le LoB e la comprensione dei bisogni dei clienti interni; il 33% investirà sulle competenze per le soluzioni mobile – paradigma pervasivo e ormai imprescindibile – mentre il 32% farà ricorso all’outsourcing, a volte in modo tattico, a volte come leva per acquisire flessibilità, capacità e competenze, anche in virtù di contratti di delivery as a Service, che mostrano un trend in crescita.
In alcune imprese, il processo è già stato avviato con l’introduzione di ruoli per l’intercettazione di idee di innovazione all’interno e all’esterno dell’azienda, la sperimentazione e la supervisione di tutto il ciclo di vita dell’innovazione. In altre imprese, sono state definite unità organizzative che fungono da nodo di congiunzione tra le possibili fonti di spunti di innovazione (la direzione IT, LoB, università, startup, partner tecnologici, clienti e competitor), in un ecosistema sempre più complesso in cui è necessario dotarsi di una rete dinamica e selettiva di competenze e capacità a supporto del business e della sua evoluzione.
“Experience” sul campo
In Snam è stato ingegnerizzato un approccio di collaborazione innovativa, in questo modo direzione IT e business lavorano insieme da subito, fin dall’ideazione della soluzione, in una logica di demand engineering e di contaminazione digitale con strumenti di brainstorming e co-progettazione. In sintesi, la sempre maggiore contaminazione tra business e IT, nel rispetto dei ruoli reciproci, consente di ottenere risultati migliori in termini di efficacia ed efficienza nella realizzazione delle soluzioni, agevola il cambiamento, accelera l’alfabetizzazione comune.
Anche il Gruppo Amadori risulta particolarmente sensibile al tema digital. Recentemente è stata costituita una nuova unità organizzativa digital all’interno della direzione sistemi informativi e organizzazione, con il compito di supportare trasversalmente le funzioni di business nell’adozione delle tecnologie digitali e sociali. La nuova entità è un team composto da persone provenienti dai sistemi informativi e da funzioni di business. L’intento è quello di creare un vero e proprio centro di competenza, in cui concentrare tutte le competenze afferenti al digitale, e capace di operare in una logica trasversale rispetto a tutte le altre funzioni organizzative. Dal punto di vista organizzativo, le direzioni ICT devono mantenere le competenze e la visione sui principali trend di innovazione e trasferirle alle LoB, contaminandole in un’ibridizzazione virtuosa. Le direzioni IT, in primo luogo, devono saper cambiare in termini di reskilling e di processi, ma devono anche essere in grado di diffondere conoscenza nelle LoB delle proprie imprese, e saper coinvolgere correttamente i partner tecnologici, ma anche nuovi interlocutori, come startup ed enti di ricerca. La scarsa consapevolezza e visione possono essere l’ostacolo peggiore nel percorso di rilancio che le nostre imprese devono intraprendere. A conferma dei dati della Digital Innovation Academy, anche la domanda di formazione dei CIO nelle competenze per l’innovazione digitale non pare placarsi, come dimostra il continuo interesse per i specifici percorsi formativi messi in campo dal MIP Politecnico di Milano già dal 2008 e che in questi anni hanno formato oltre mille e 200 manager.