Diversity + Inclusion = Success

Diversity Management
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Differenze di potenziale. L’energia delle persone fa crescere la tua azienda

L’energia che serve alle aziende non è fatta solo di elettricità e gas, ma di innovazione, passione, talento, competenze. Senza cultura della diversity e della identità non c’è differenza di potenziale e la corrente dell’innovazione e delle idee si interrompe.

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L’energia permea ogni momento della nostra esistenza. Il Paese ha bisogno dell’innovazione delle persone per crescere e trasformarsi. Il capitale umano costituisce un patrimonio fondamentale. Il rapporto tra vita lavorativa, dimensione personale e tecnologia sta subendo grandi cambiamenti.

Tra i fattori di cambiamento del bilanciamento tra vita e lavoro ci sono la dimensione social, la diffusione dello smart working, l’incremento degli independent professionals. Negli anni Ottanta si lavorava “better”, negli anni Novanta “cheaper”, negli anni Duemila si lavora “elsewhere”. Dopo i computer, le reti e Internet, il panorama del lavoro ha subito importanti mutazioni. Le imprese, i mercati, le banche sono fatte di persone. È il momento di mettere al centro valori forti per gestire le risorse umane. Il coinvolgimento dei dipendenti è la priorità numero uno per liberare il talento delle persone.

Il potere delle persone

Mentre cresce l’enfasi sul valore dell’eccellenza (qualche volta, a dire il vero, abusando di questo concetto, fino a svuotarlo di contenuto), ci stiamo accorgendo che puntare sulla qualità di prodotti, servizi e soprattutto sulla crescita delle persone che stanno dietro quei prodotti e quei servizi è la più rivoluzionaria delle strategie. Per cominciare, sempre più aziende hanno compreso che le donne sono un motore importante per lo sviluppo e la competitività, anche se in Italia c’è voluta una legge. La parola “diversità” è diventata frequente nel lessico manageriale. Ma quando si parla di diversity management in Italia, quasi sempre lo si fa in riferimento al gender gap tra uomini e donne. La gestione della diversità porta con sé – invece – un ventaglio di valori molto più ampio che coinvolge direttamente la responsabilità sociale d’impresa (CSR) e i cambiamenti sociali. Essere a capo di un’organizzazione significa portare le persone al successo, a prescindere dal genere, dall’orientamento sessuale e dalla religione. Le persone che si fanno crescere in azienda sono l’eredità più importante di un manager. L’energia della diversità crea commitment, lealtà, costruisce la reputazione per una buona cittadinanza aziendale e permette di competere più efficacemente sul mercato. Molto semplicemente, la diversità migliora anche il business. Il tema dell’identità coinvolge quello della crescita delle persone e del contributo che i talenti possono dare all’organizzazione.

Capgemini per capire chi sono i “migliori davvero” ha lanciato una campagna per incontrare oltre duecento giovani nelle principali università Italiane. Per molte organizzazioni le nuove generazioni sono la linfa vitale. Capire come coltivare questi talenti, e come farli crescere, è la sfida più importante che molte imprese si trovano ad affrontare. Questa sfida supera i confini della responsabilità sociale d’impresa e riguarda da vicino la gestione della motivazione di una popolazione aziendale portatrice di una pluralità di interessi e di valori.

La capacità di generare business per i clienti è sempre più legata alla capacità delle aziende di porsi in ascolto dei propri dipendenti. L’inserimento dei giovani in azienda – forse – dovrebbe seguire lo stesso percorso delle quote rosa, con l’inserimento delle quote “gen Y”. Ma i giovani anche se hanno paura del futuro, non perdono la speranza. Credono nell’impegno anche in un mondo che non dà loro nessun motivo per farlo.

Italia Cross cultural

In un momento di grande cambiamento, l’Italia “multiculturale” spaventa e la paura divide. Siamo tutti “stranieri” o “diversi” agli occhi degli altri, quando in ballo ci sono posto di lavoro e garanzie. Le imprese globali, soprattutto quelle più innovative, dimostrano – in alcuni casi – di essere un passo avanti rispetto alla società e alla politica e si interrogano su come trarre vantaggio dalla crescente diversità della forza lavoro e del mercato. La dimensione cross-culturale delle aziende multinazionali rappresenta un grande laboratorio, dove sperimentare gli effetti positivi dell’incrocio di culture diverse, perché per avere successo a livello internazionale, non è più sufficiente adattarsi a un’altra cultura ma bisogna essere disposti a imparare dalle altre culture e acquisire nuovi modi di operare. A cominciare dalla conoscenza profonda di se stessi nel rapporto con gli altri. Halajie Barjie, classe 1982, papà del Gambia e mamma italiana, lavora nelle pubbliche relazioni di MSLGROUP e ha sperimentato sulla sua pelle – è proprio il caso di dire – un percorso positivo di integrazione che fa della differenza un elemento di ricchezza e di scambio continuo. Ma questo in molti casi dipende anche dal codice genetico dell’azienda. E le imprese – anche se multinazionali – non sono tutte uguali. Di certo, la “differenza” è nel DNA di MSLGROUP che fa parte del Gruppo Publicis, il cui pay off è proprio vive la difference e dice molto sull’apertura e su come viene valorizzata la diversità, in tutte le sue forme. A livello di Gruppo, sono due le iniziative di coinvolgimento e partecipazione degne di nota. La prima è l’iniziativa di collaborazione globale e competition interna Together works better.

La seconda si chiama Grow! e si tratta di un programma di sei mesi che rappresenta una bella opportunità di crescita, di acquisizione di una maggiore consapevolezza del proprio percorso di carriera, di potenziamento dei propri learnings e di condivisione con i colleghi di tutto il mondo.

Gestire la diversità

Nel mondo anglosassone, il diversity management è una pietra angolare della strategia delle HR di tutte le più grandi aziende. Questo innanzitutto perché in molti paesi, le norme antidiscriminazione sono severissime e bisogna quindi proteggere le organizzazioni dai possibili rischi legali, formando management e dipendenti sul rispetto e l’inclusione in azienda. Ma anche perché oggettivamente si è capito che un’azienda che sviluppa una cultura che accetta e promuove la diversità delle esperienze e dei punti di vista è potenzialmente molto più innovativa e di successo di un’azienda in cui tutti sono (o pretendono di essere) uguali e allineati. Poi è anche una questione di politiche aziendali: se in azienda i benefits riservati ai coniugi sono allargati anche ai conviventi dello stesso sesso o del sesso opposto, il messaggio che si invia alla generalità dei dipendenti è molto potente e va ben al di là della questione relativa al mero benefit.

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Tra il dire e il fare

La diversità va oltre le pratiche di assunzione e di protezione per tutti i dipendenti. Eppure, esiste un gap molto ampio tra quello che le aziende dichiarano in giro per convegni e quello che fanno in pratica. La gestione delle differenze oscilla tra “moda” e “variante aggiornata” delle pari opportunità. Poche aziende provano a confrontarsi veramente con la diversità a 360 gradi.

E questa indagine lo dimostra. Questo lavoro di ricerca ci ha insegnato che accettare la diversità e confrontarsi con essa è un percorso faticoso che mette allo scoperto le vulnerabilità delle persone e delle aziende e ci ha messo davanti al fatto che eguaglianza e diversità sono due facce della stessa medaglia. Abbiamo imparato che la resistenza al cambiamento prima di essere una questione di organizzazione aziendale, resta una questione culturale, al di là delle dimensioni e del settore produttivo. Senza questo salto culturale, gli esempi positivi e le buone pratiche che abbiamo trovato non riusciranno a esprimere tutto il potenziale in termini di efficacia e di successo.

In Accenture, la funzione “Human Capital e Diversity” lavora in sinergia con tutte le altre LoB, ma è distinta dalle HR e sta nel board dell’azienda con pari dignità alle altre divisioni. Questo modello di organizzazione è un fattore determinante di successo perché recepisce le esigenze del business e le traduce in decisioni concrete. Sono poche le aziende che hanno un’organizzazione di questo tipo. Troppo spesso, questo tipo di funzioni sono calate all’interno delle HR e finiscono per essere travolte dalle operations. Naturalmente, quando in un paese esiste un quadro normativo chiaro, è più facile mettere in pratica programmi per facilitare l’inclusione a tutti i livelli. Alcune identità però rispetto ad altre finiscono per essere invisibili e sono più complesse da gestire, come nel caso della diversità GLBT (gay, lesbiche, bisessuali, transessuali e transgender). In Accenture, infatti, per favorire questo tipo di inclusione, hanno individuato un top leader interno all’azienda che fa da sponsor. Questa figura è scelta tra il top management e ha il compito di essere agente del cambiamento in prima linea.

Moda o retorica?

Da una recente indagine condotta da Sirmi e ADP su un campione significativo di aziende italiane (large business e PMI), è emerso che solo la metà dichiara di utilizzare sistemi di welfare alternativi. Alcuni dati sono sorprendenti, ma molto significativi. Nell’era dei social network, il 57,8% delle aziende dichiara che i propri dipendenti non hanno accesso al web e che quasi la metà non utilizza sistemi welfare & flexible benefit. Non solo. L’orario flessibile rappresenta la misura di smart working più diffusa, mentre il 71,6% (segmento PMI) dichiara addirittura di non adottarne alcuna. Solo le imprese più grandi, ma con una percentuale che non supera il 34%, stanno affrontando il cambio generazionale. Chi lo fa, dichiara di affrontarlo principalmente attraverso la formazione, l’inserimento di nuove tecnologie e il mentoring (da senior a junior).

Come se non bastasse, i dati raccolti dal Diversity Management Lab di SDA Bocconi mettono in luce che la maggioranza delle imprese italiane non si è ancora dotata di programmi specifici di gestione del bilanciamento vita privata-vita lavorativa, di gestione delle pari opportunità e di diversity management. In pratica, il tema delle differenze è ancora residuale, retorico o utilizzato come leva di employer branding o di reputazione. Le risposte sono vaghe e generiche e nella maggioranza dei casi tutto viene rimandato al sistema normativo vigente, al codice etico, ai principi aziendali. Molto significativa è la collocazione organizzativa del diversity manager (laddove esiste), che può variare dalla direzione HR – con o senza un ruolo dedicato – alle strutture di marketing e comunicazione. E basta questo per farci capire il livello di commitment e il tipo di strategia aziendale su questo tema. Dai dati emerge anche un altro fatto interessante: se a livello di probabilità di assunzione (a parità di competenze), la parità uomo donna sembra essere quasi raggiunta, l’inserimento lavorativo resta problematico per immigrati, GLBT, persone con disabilità fisica e mentale e anziane. Non solo. Le pari opportunità – però – restano ancora un traguardo da raggiungere e la famiglia “a carico” rappresenta ancora un freno alla carriera soprattutto per le donne.

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Per Daniela Canegallo, CEO di MSLGROUP dal 2005, come per molte donne in ruoli di responsabilità, la prima dote richiesta è la capacità organizzativa, unita a una grande concretezza per poter far fronte a giornate più che impegnative. Oltre a questo, lo sforzo continua a essere quello di conciliare sfera lavorativa e sfera privata per ritagliare spazi di qualità per la famiglia e figli. Il tema del work-life balance e della riconciliazione tra percorsi di carriera e scelte di vita rappresenta un nodo critico per l’affermazione delle identità sul lavoro.

Ascoltare le differenze

Le organizzazioni sono naturalmente influenzate dal contesto sociale più ampio e dalle leggi. Spesso è la pressione sociale o l’emergenza di alcune problematiche a spingere il legislatore a produrre nuove norme, come analogamente le proposte legislative contribuiscono a maturare e sviluppare nuove culture. Mentre negli Stati Uniti, il tema delle differenze nasce dalla gestione delle minoranze etniche, in Italia si sviluppa prevalentemente sulla questione del genere. E infatti, in Italia, il tema della diversità è stato affrontato dal punto di vista normativo relativamente al gender gap uomo-donna del mercato del lavoro, proteggendo in una prima fase il lavoro delle donne come segmento debole. Comprendere le persone significa anche considerare i bisogni in senso più esteso, “ascoltare” ciò che hanno da dire, decodificare i diversi trade-off che si sviluppano tra il mondo del lavoro e quello della vita personale. Anche dal punto di vista del welfare.

Questo sbilanciamento è dovuto al fatto che il “soffitto di vetro o di piombo” è non solo visibile (rispetto ad altre differenze “invisibili”), ma statisticamente rilevante in quanto riguarda il 47% della forza lavoro che è rappresentata dalle donne.

La legge Golfo-Mosca ha il merito di aver introdotto le quote rosa e di aver sbloccato la serratura del “glass ceiling”, anche se non sono stati ancora rimossi tutti gli ostacoli che le donne incontrano per raggiungere posizioni di vertice nel mondo del lavoro. In Italia, migliorano alcuni indicatori. Le donne sono più rappresentate nei consigli di amministrazione. E hanno più potere politico, grazie al primo Governo paritario voluto da Matteo Renzi. Ma su lavoro, retribuzioni e istruzione primaria la situazione peggiora. Rappresenta un caso interessante, l’esperienza di Zucchetti, in cui quasi la metà dei dipendenti sono donne distribuite tra le varie funzioni e con parità di trattamento economico rispetto ai colleghi uomini.

Dopo la legge Fornero – però – sta assumendo sempre più rilevanza il tema della diversità rispetto all’età, perché le aziende dovranno gestire una popolazione di dipendenti che dovrà lavorare fino a 65 anni. Fenomeni di natura differenziata portano alla coabitazione lavorativa di segmenti di età molto più ampi che nel passato. La vita si allunga, portando con sé anche l’estensione della vita dedicata al lavoro. Lasciare la gestione delle differenze bloccata sulla dicotomia di genere può generare nuovi conflitti. E anzi, questa polarizzazione rischia di trasformare il processo di cambiamento in un terreno paludoso. Per questo è sempre più importante lavorare sulle identità a 360 gradi.

La strategia cambia verso

In astratto, tutte le organizzazioni aziendali sono concepite per un tipo di dipendente che è uomo, giovane, di razza bianca, eterosessuale, in buona salute e senza figli. Il fatto disrupting è che la società è cambiata. E le aziende che non comprendono questo cambiamento sono destinate a pagare un caro prezzo in termini di competitività. Il tema delle identità e delle differenze non deve restare all’interno delle direzioni HR o essere di spunto per qualche campagna ammiccante di comunicazione, ma deve entrare nelle sale dei Consigli di amministrazione e diventare un tema centrale di strategia aziendale. Essere in ascolto dei propri dipendenti è la prima buona pratica per costruire una cultura della diversity. E deve aver pensato qualcosa del genere il CEO di Lenovo, Yang Yuanqing (detto YY, per facilitare la pronuncia del suo nome da parte di tutti), quando per due anni consecutivi ha distribuito una buona parte del suo bonus proprio ai dipendenti con il salario più basso. E la diversity è forse anche il segreto del successo di Lenovo: con 100 top manager di 17 nazionalità diverse e un Executive Committee composto da 11 persone di sette nazionalità diverse (tra cui anche un italiano, il COO, Gianfranco Lanci). La diversity è anche oggetto dei corsi online della Lenovo University, che tutti i dipendenti sono tenuti a fare, più volte l’anno. E ci sono due donne ai vertici di Lenovo: Gina Qiao, senior VP delle risorse umane (e membro dell’Executive Committee) e Yolanda Conyers, VP di Lenovo per le risorse umane e chief diversity officer. Insieme hanno scritto il libro, The Lenovo Way, in cui raccontano come – anche grazie all’accento sulla diversity – Lenovo sia riuscita a guadagnare quote di mercato e a creare una cultura efficace e diversificata che trascende i confini dall’Oriente all’Occidente.

Diversi e uguali

Ispirata a Rosa Louise Parks, l’attivista afroamericana impegnata nella lotta per l’affermazione dei diritti civili, Parks si occupa della diversity dal punto di vista della difesa dei diritti e della dignità delle persone LGBT. Parks è un’associazione senza scopo di lucro che opera sotto il patrocinio del Ministro per le Pari Opportunità e i cui soci sono esclusivamente datori di lavoro.

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Fondata nel 2011 da Ivan Scalfarotto – che ha lavorato a lungo come direttore delle risorse umane e oggi è sottosegretario di Stato per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento – Parks si pone l’obiettivo di supportare le aziende e le istituzioni pubbliche a creare ambienti di lavoro inclusivi e rispettosi di tutti i dipendenti, e in particolare di quelli GLBT.

In quest’ottica, Parks ha proposto per la prima volta nel 2013 a un campione di aziende operanti in Italia uno strumento di misurazione del proprio successo nel raggiungimento dell’obiettivo strategico di inclusione delle persone GLBT. Il Parks Diversity Index è il primo strumento in Italia di benchmarking su politiche e pratiche aziendali attuate per i dipendenti GLBT. Attraverso un questionario, l’indice valuta e valorizza le attività aziendali mirate alla creazione di un ambiente lavorativo inclusivo e rispettoso: dal coinvolgimento del management ai benefit e permessi estesi ai partner dello stesso genere, dalla formazione dei dipendenti alla comunicazione interna ed esterna. I Parks Awards per il 2014 sono stati assegnati a State Street Global Services Italia, IKEA Italia Retail e IBM Italia.

Oltre le barriere

La sfida per i datori di lavoro va ben oltre un generico impegno a garantire pari opportunità: consiste nel creare un ambiente veramente rispettoso di tutte le differenze e capace di assicurare a tutti la possibilità di realizzare il proprio potenziale di crescita professionale. È proprio in questo modo che si costruisce una vera meritocrazia. Per Igor Suran, direttore esecutivo dell’associazione Parks, «il benessere di tutti i dipendenti è un fattore chiave per la produttività e competitività delle aziende» e questa visione è condivisa anche dalle 22 grandi aziende che hanno aderito a Parks e tra le quali troviamo Telecom, Microsoft, IBM, Consoft, YOOX, Barclays, Citi, Deutsche Bank, solo per citare alcuni nomi.

Se a livello globale molte ricerche dimostrano che le politiche di inclusione delle imprese generano un vantaggio quantitativo in termini di business, l’Italia rappresenta ancora il fanalino di coda nei diritti GLBT. Gli ambiti in cui le aziende continuano a rimanere maggiormente impegnate sono il genere, la maternità/paternità, la disabilità e il multiculturalismo. Eppure, l’Organizzazione Mondiale della Salute stima che le persone GLBT sono almeno il cinque per cento della popolazione mondiale e questo significa che più di un milione di lavoratori italiani è omosessuale, bisessuale o transessuale. Un milione di lavoratori di cui però non si conosce praticamente nulla. Senza una politica delle risorse umane in grado di alimentare una trasformazione delle imprese basata sulla cultura delle differenze, crescere in termini di business e di competitività sarà sempre più difficile. È possibile crescere se saremo capaci di guardiamo lontano, riconoscendoci uguali e diversi. La “crisi” implica una “separazione”, una “cernita” – in pratica – una “scelta”. E davanti alle scelte siamo sempre in crisi. Per cambiare bisogna imparare, fare e condividere i risultati con gli altri. Anche per creare buoni prodotti e servizi bisogna creare qualità nei rapporti umani. La dialettica uguaglianza/diversità ridisegna gli equilibri interni delle aziende e crea le condizioni per trasformare questo rapporto in una precisa strategia di impresa capace di investire sul futuro, puntando sul talento e sulla buona competitività.