Innovare per crescere. Ma ne siamo ancora capaci?

Il sistema della ricerca, sviluppo e innovazione in Italia necessita di una profonda revisione e di maggiori risorse. Le prospettive di una crescita duratura dipendono dalle politiche che verranno realizzate nell’immediato futuro

La costruzione di prospettive di crescita delle economie non può prescindere dalla capacità di innovare in tutti i settori produttivi, inclusi, ovviamente, quelli legati alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Pensando al sistema Italia, la domanda che bisogna quindi porsi è: «Siamo e saremo capaci di innovare servizi, prodotti e processi e porre delle solide basi a un processo di crescita»? I numeri direbbero proprio di no. Secondo i dati Eurostat (aggiornati al 2013), la spesa in ricerca e sviluppo in Italia si attesta intorno all’1,3% del PIL contro una media europea superiore al 2,2% e un obiettivo comunitario per il 2020 pari al 3%. I settori italiani delle imprese e la PA si posizionano, al pari di Grecia e Spagna, nella quarta delle sei fasce di intensità di spesa in ricerca e sviluppo, mentre l’università si trova in seconda fascia (Svezia e Finlandia sono in prima fascia per l’investimento sia delle imprese sia delle università).

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Ancora più impietosi i dati italiani se si guardano i dati sulla spese pro capite in R&S: 338,5 euro contro i 539,2 della media europea (e gli oltre 1.000 di Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia). In Italia, abbiamo circa 106mila ricercatori in termini di Full Time Equivalent contro i 338mila della Germania e i 250mila circa di Francia e Regno Unito.

La ricerca italiana più produttiva?

Si potrebbe dire che la nostra ricerca sia più produttiva e quindi che i nostri ricercatori siano più efficaci in termini di risultati. In parte ciò potrebbe esser vero se ci volessimo affidare come sempre al mito della creatività italiana, ma anche qui i dati disegnano uno scenario diverso per cui, ad esempio, le richieste di brevetto all’European Patent Office, provenienti dall’Italia per soluzioni high-tech sono state 2.073 nel 2012 a fronte delle 16.999 della Germania, le 23.709 della Svezia, le 14.505 della Francia e le 19.298 del Belgio.

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E così l’Italia sembra anche poco attrattiva per i venture capitalist che finanziano imprese ad alta intensità tecnologica; anche in questa speciale classifica ci troviamo così al diciannovesimo posto dietro, oltre ai soliti noti, a Irlanda e Bulgaria. Il dibattito è aperto in Italia e in Europa. A chi spetta il ruolo di risk taker di prima istanza? Chi deve farsi carico del maggiore investimento, soprattutto nella ricerca di base e applicata? Lo Stato o il settore privato?

Lo Stato innovatore

Appare per certi versi convincente la tesi proposta dalla professoressa Mariana Mazzucato (“Lo Stato innovatore”, Laterza, 2014) la quale ritiene che lo Stato sia l’unico soggetto che può farsi carico di investimenti ad alto rischio e ci ricorda che le tecnologie (Internet, GPS, smartphone, etc.) su cui si basa la nostra vita di tutti i giorni, derivano da progetti “visionari” finanziati dai governi, in particolare quello statunitense, e intorno ai quali si sono poi sviluppati i distretti quali la Silicon Valley con le aziende private che hanno potuto generare profitti pur non facendosi carico del rischio della ricerca. Tale lettura è sicuramente condivisibile se si hanno come modelli di innovazione quello statunitense appunto e, per restare in Europa, quello tedesco. Qualche dubbio sorge invece quando questo pensiero deve essere declinato sul caso italiano. In Italia, lo Stato – pur mantenendo un primato di spesa nella ricerca e sviluppo rispetto al privato – oltre ad aver speso relativamente poco, lo ha fatto anche male, creando un sistema poco difendibile dalla scure della spending review. Pensiamo, ad esempio, all’università la cui attività di ricerca ha vissuto per anni di fondi distribuiti “a pioggia” senza creare un meccanismo di assegnazione basato su merito e competizione.

Come spendere meglio

Il risultato è un circolo vizioso per cui adesso, in un tempo in cui i budget universitari sono ai minimi storici, ci si deve rivolgere ai fondi comunitari con scarsi risultati dato che manca la capacità progettuale per competere e vincere. Non dimentichiamo poi il meccanismo perverso dei concorsi universitari in essere fino al 2012, che ha finito per creare un sistema con tanti generali e colonnelli (ordinari e associati) ma senza coltivare una base motivata e competitiva di ricercatori. E in questo, i tagli di spesa stanno determinando, se possibile, un sistema ancora più caotico e inefficiente con la possibilità di effettuare nuove assunzioni solo nella misura massima del 40% del minor costo derivante dai pensionamenti. Se questo meccanismo continuerà, nel 2018 i professori ordinari saranno solo 9.443 a fronte dei 18.929 del 2008, e gli associati saranno 13.278 a fronte dei 18.225 del 2008 senza al contempo aver creato la necessaria base di ricercatori.

Trasferimento della conoscenza

Altra debolezza è legata ai meccanismi di trasferimento della conoscenza dall’università e dagli enti di ricerca all’industria. Banalmente, in Italia sono molto poche le aziende disposte ad assumere un dottore di ricerca riconoscendone il grado di preparazione, per cui queste figure sono destinate a rimanere con poche prospettive nelle università o a fuggire all’estero dopo che lo Stato ha finanziato per anni la loro formazione. Allo stesso modo, è esiguo il numero di aziende che instaurano rapporti duraturi con le università e gli enti di ricerca, commissionando progetti anche di medio e lungo termine. Occorre quindi arrivare in tempi rapidi a un ripensamento complessivo del sistema ricerca che punti all’innalzamento della spesa complessiva, magari attingendo ai risparmi derivanti della spending review in altri settori meno strategici. I meccanismi di assegnazione delle risorse vanno profondamente rivisti senza ipocrisie ideologiche (come, per esempio, sull’utilità dei concorsi universitari), aggiungendo alla valutazione ex-ante una seria valutazione in-itinere ed ex-post che non consista solo in una mera produzione di carta a fini burocratici. Ad oggi, la politica non sembra ancora in grado di fornire una visione di lungo periodo sul modello di innovazione da seguire in Italia, ma si sa che la prospettiva della politica è sempre assai più limitata. In molti – però – si attendono una risposta, perché anche qui il tempo sta per finire.

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Francesco Bellini presidente del Comitato Tecnico ICT di ANDAF e senior partner Eurokleis