Non c’è più nulla da ridere

A parlare non sono più gli esperti – più o meno noiosi – che insistono nel sottolineare rischi e pericoli: è venuto il turno della cronaca e dell’impietosa descrizione della fragilità della situazione

La vicenda della Sony e quella del film “The Interview” fanno drammaticamente rima con “ve l’avevo detto”.

Chi si occupa di queste cose non solo per sentito dire, non si è stupito affatto della reazione “indispettita” del dittatore nordcoreano e dell’operato delle sue truppe digitali. A voler esser sinceri, è andata ancora bene.

Nel 1997, con Roberto Di Nunzio, mi capitò di pubblicare “Cyberwar, la guerra dell’informazione” per i tipi di Buffetti. In quel volume (cui fece seguito “Le nuove guerre”, uscito con BUR Rizzoli nel 2001) si tratteggiavano scenari analoghi a quelli che stiamo vivendo. E nessuno ha mai preso sul serio quel che c’era scritto. Nemmeno chi aveva redatto la prefazione.

L’estensore delle due paginette di apertura non credeva nelle tecnologie e ancor meno nella rivoluzione che queste avrebbero potuto determinare. Ma era mio amico e – quindi – per non deludermi aveva accettato di scarabocchiare poche righe che dovevano fare pendant laico alla diametralmente contrapposta introduzione di un “Grande Sacerdote”, il generale Alberto Ficuciello, che all’epoca comandava la Scuola di Guerra.

Lo scettico di allora ha poi scelto di imbracciare Internet come se fosse un fucile e di considerare la Rete il riferimento universale del confronto sociale e politico: Beppe Grillo non immaginava davvero che sarebbe poi stato il primo a predicare la forza della natura telematica…

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A mutuare il Premier, le cui citazioni illustri non vanno mai oltre i ritornelli da jukebox, e a parafrasare Riccardo Cocciante, “era già tutto previsto”.

La vulnerabilità dei sistemi informatici è evidente. Chi non aveva voluto riconoscere la gravità della situazione, in questi giorni ha modo per riflettere, prendendo spunto dalla disavventura della Sony e dalle riverberazioni che l’episodio non ha lesinato di dissipare a giro d’orizzonte.

L’ironia della pellicola cinematografica sgradita a Kim Jong-un è soltanto un pretesto, come tanti altri se ne possono trovare quotidianamente. La reazione (o anche l’azione di iniziativa) sul piano cibernetico è destinata a diventare una condotta di prassi, alla quale presto faranno l’abitudine anche i più increduli.

Colpire il sistema nervoso di un paese non è operazione impegnativa: gli hacker – al pari degli agopuntori – sanno dove andare a piazzare i loro acuminati codici maligni ed è davvero difficile prevederne le mosse.

Il reale impedimento a contrastare simili minacce non sta solo nelle questioni di ordine tecnico o organizzativo, ma risiede nella imperturbabilità di chi ha la cloche di comando e nelle granitiche mentalità dei suoi diretti collaboratori. Le redini di governo sono nelle mani di chi considera un tweet la dimostrazione inconfutabile di modernità e di dominio delle tecnologie. E qui il numero di followers ben si accoppia con quei milioni di baionette di cui ci si faceva vanto prima del secondo conflitto mondiale. Ma il mondo è un altro.

La minaccia di ritorsioni digitali e di altri blitz terroristici più o meno hi-tech incombe e nessuno se ne preoccupa. Anzi. È l’opportunità per i destinatari di mostrare i muscoli e fare la faccia feroce, quasi non ci fosse da temere qualche matto alla tastiera o le sue promesse di combinare qualcosa di eclatante.

Ogni scusa è buona. Ogni giorno si potrà svegliare qualcuno che dichiara guerra alla superpotenza di turno. Ogni volta crescerà la paura. E solo la fortuna di non essere nel mirino di qualche cyber-folle farà la differenza. La guerra globale è già cominciata, così come è iniziato lo sciacallaggio dei dati: alle forze militari e a quelle assimilabili si aggiungono le torme di mercenari pronti a combattere per i privati che vogliono sbaragliare la concorrenza rubandone i segreti o paralizzandone le attività.

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Forse è il caso di provare a pensarci. Ah, quasi dimenticavo: «Buon Anno»!