Roberto Cingolani. Il futuro è hardware

roberto cingolani

Plastica organica, energia sostenibile, computer a DNA e un robot in ogni casa

«La tecnologia non è Facebook o Twitter»

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Non ricordo il vincitore del Super Bowl di quest’anno, ma ricordo benissimo Steve Gleason nello spot di Microsoft andato in onda durante la finale.

 

In quei sessanta secondi, che forse restano la cosa più emozionante e sorprendente della partita, si vede l’ex calciatore professionista – dal 2011 malato di SLA – comunicare grazie alla tecnologia. Ma c’è un’altra cosa che merita attenzione e che in Italia è passata completamente inosservata. Mentre scorrono i secondi più costosi della storia della pubblicità, (gli inserzionisti arrivano a pagare anche 3,8 milioni di dollari per 30 secondi), l’unica comparsa dell’eccellenza tecnologica italiana è iCub, la creatura di Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (IIT – www.iit.it).

Basterebbe questo per ricordarci che la ricerca italiana può competere ai massimi livelli e che la cosiddetta “fuga dei cervelli”, espressione orribile, degna di un film di fantascienza anni 50, in realtà è un falso problema, perché la natura di un ricercatore è di per sé «nomade». Roberto Cingolani nasce a Milano nel 1961, frequenta il liceo scientifico Enrico Fermi di Bari e si laurea in Fisica all’Università di Bari. A diciannove anni, vince per due anni di fila il concorso europeo per Giovani ricercatori della Philips. Ma è solo l’inizio di una brillante carriera. Per Cingolani, la ricerca ha bisogno di creatività e di obiettivi a lungo termine, di investimenti costanti e di persone capaci di valutare il merito e il rischio. Il piano industriale dell’IIT per il prossimo triennio punterà sull’energia, i nuovi materiali ecosostenibili, la robotica e le neuroscienze a fronte di un investimento di circa 390 milioni di euro.

Nell’Istituto, che può contare anche su una dote statale che sfiora i 100 milioni di euro all’anno, lavorano 1.300 persone distribuite in nove poli di ricerca su tutto il territorio nazionale: il 44% sono stranieri e un altro 17% sono italiani rientrati dall’estero. L’età media è di 34 anni e le donne rappresentano il 41% del totale. Visitare l’IIT è come entrare in aeroporto. La gestione è simile a quella di una squadra di calcio: si cercano sul mercato le risorse migliori che servono per raggiungere un determinato obiettivo. La sfida per lo scienziato è guardare ai prossimi vent’anni. Nei paesi del G10, la vita media si allunga di tre mesi ogni anno, mentre in altri luoghi del mondo l’aspettativa di vita è ferma a 50 anni. La popolazione mondiale arriverà a nove miliardi. Un quarto degli abitanti avrà accesso all’80% delle risorse del Pianeta. Un sistema così squilibrato non potrà durare ancora a lungo. E non è una questione etica, ma fisica. Ogni sistema per quanto disordinato tende all’equilibrio. Il compito della tecnologia è di applicare i risultati della ricerca scientifica per ridurre gli squilibri insostenibili tra gli esseri umani. Energia e acqua sono le priorità. Per affrontare le sfide del futuro dobbiamo imparare a copiare la natura. Ma come? Come faremo a crescere del 2%, dimezzando i consumi e le emissioni?

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«Un computer da tavolo compie 10 milioni di operazioni al secondo, le stesse di una mosca – spiega Cingolani durante la sua lezione al Festival della Scienza di Bergamo – mentre il cervello umano un miliardo di miliardi, come i data center di Google, che però consumano l’energia di una città intera per funzionare. A un uomo invece basta una barretta di cioccolato». Dobbiamo imparare dalla natura a produrre l’energia che ci serve, studiando la fusione nucleare delle stelle, il metabolismo degli zuccheri, la fotosintesi delle piante, il DNA per rimpiazzare i tradizionali computer a base di silicio. Dalle foglie possiamo catturare l’energia dei raggi solari come fanno ad Arnesano, alle porte di Lecce, nel polo di nanotecnologie biomolecolari dell’Istituto (che Cingolani ha contribuito a fondare) in collaborazione con il CNR e l’Università del Salento. E dal prezzemolo, dalle patate, dagli spinaci, dal riso e dal cacao possiamo ottenere tutta la plastica che ci serve. Molto prima però – assicura lo scienziato – avremo in casa un robot domestico capace di imparare, connesso a una rete wireless 6G, con un’intelligenza unica su cloud, un business model da city car e al costo di una utilitaria. In tutto questo, la tecnologia non può essere lo strumento separato dal fine – mette in guardia Cingolani – deve avere un ruolo sociale. «La tecnologia è empowering, serve a ridurre le differenze che creano squilibrio, per creare un futuro per chi vuole restare e una nave per chi vuole andare via». Per capire che cosa è la tecnologia non dobbiamo vedere oltre i pezzi di latta e le righe di software. «Innovazione a lungo termine significa progettare nuovo hardware e non semplici software della conoscenza. L’hardware è la vera base su cui costruire il progresso dell’umanità e creare empowering. La tecnologia non è Facebook o Twitter. La tecnologia è soprattutto hardware».

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Data Manager: Agenda Digitale a singhiozzo, connettività, ricerca e innovazione. Il futuro dell’Italia e la crescita lenta. Perché non riusciamo a creare un sistema in grado di mettere insieme i punti forti per trasformare le potenzialità in opportunità?

Roberto Cingolani: La più grossa lacuna nel nostro sistema è la mancanza di capacità di pianificare e di fare scelte basate su una visione e su una strategia. Questo significherebbe fare delle scelte di merito e prendersi delle responsabilità. In Italia, oggi prevale un modello più formale finalizzato alla ricerca di consenso, senza valutazioni di merito. Inoltre, il sistema bancario e più in generale l’attitudine al rischio sono poco sviluppati.

Quali dovrebbero essere le tecnologie abilitanti per un nuovo piano industriale per lo sviluppo?

Il nostro Paese, se vuole rimanere nel novero dei paesi più sviluppati, deve puntare su settori ad alto valore aggiunto, con produzioni di alta qualità. In particolare, credo che l’Italia, per le sue competenze più distintive, dovrebbe puntare allo sviluppo di una manifattura high tech, alla robotica, all’automazione, ai nuovi composti e alle nanotecnologie. E poi integrare queste tecnologie più capital intensive con i servizi dedicati: infrastrutture di rete (anch’esse richiedono ingenti investimenti), cloud, ICT. Altri settori in cui l’Italia deve puntare per una propria leadership sono l’agroalimentare high tech, le tecnologie per i beni culturali, trasporti avanzati, medicina e diagnostica avanzata, tutti settori in cui l’Italia è conosciuta nel mondo.

Quali sono le aree più calde della ricerca che guideranno le prossime rivoluzioni tecnologiche?

La robotica, l’intelligenza artificiale e la salute, soprattutto con l’integrazione con le nanomedicine, sono le aree che stanno trainando maggiormente l’innovazione nelle tecnologie. A queste va aggiunta l’ulteriore sviluppo dell’information and communication technology, che rappresenta l’infrastruttura chiave da cui tutta la nuova generazione di tecnologie non può prescindere.

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Dal personal computer ai personal robot. Quale sarà l’impatto che Big Data e IoT avranno sulla diffusione della robotica di servizio?

L’impatto sarà enorme, basti pensare a che cosa significherà gestire la comunicazione di questa nuova generazione di strumenti al servizio dell’uomo. Il primo passo sarà predisporre un cloud in cui strutturare l’intelligenza artificiale collettiva dei robot. Impossibile senza un protocollo di comunicazione molto veloce e potente. L’impatto sarà veramente enorme.

Viva la velocità per i treni, gli aerei, la banda larga. All’opposto, c’è la pigrizia di chi vuol fare poco o nulla. Siamo un popolo di pigri?

Non direi che siamo pigri. Forse, dovremmo essere un po’ più calvinisti. In Italia, coesistono tante identità, siamo una nazione molto giovane in cui convivono molte anime diverse. Ci manca ancora l’orgoglio come popolo unito, ci manca la formazione culturale innovativa perché siamo troppo attaccati ai fasti del passato e non ci accorgiamo della decadenza che discende dal non sapersi aggiornare e rinnovare. Tuttavia, abbiamo delle personalità straordinarie, degli individui che fanno storia, gli Enzo Ferrari che tengono alto il nome dell’Italia, con le loro incredibili idee e capacità. Ma poi non sappiamo fare sistema, cioè portare avanti il disegno iniziale e ingrandirlo. Sappiamo tirarci fuori dalle emergenze ma non siamo bravi a costruire giorno dopo giorno. Nel contesto globale in cui viviamo, non possiamo più permettercelo. Dobbiamo cambiare organizzazione e guardare al futuro attraverso una programmazione di lungo periodo.

La lezione più importante che ha imparato?

La vita, fra le tante cose, mi ha trasmesso due insegnamenti. Non esiste scorciatoia alla fatica. E poi che è facile essere buono con chi è bravo, ma la cosa più importante è essere giusti con chi non lo merita.

Chi è stato il suo maestro e a chi sente di dovere qualcosa?

Sono una persona fortunata, ho imparato da chiunque ho incontrato. Tutti hanno qualcosa da insegnare. Anche i cattivi maestri ti insegnano la strada da evitare. Per il resto, devo molto alla mia famiglia, soprattutto a mio padre che venendo a mancare a 50 anni, dopo 14 anni di malattia, mi ha insegnato che nella vita si deve comunque dare il massimo sino all’ultimo giorno.