I giochi sono fatti, anche se ci sono alcuni passaggi da completare per dare il peso vero alle cariche e garantire gli equilibri in una Commissione a 28 membri, da Malta alla Germania
La questione è cosa delicata. Fatto è che le competenze per l’Agenda Digitale – che nell’ultimo quinquennio erano attribuite all’olandese Neelie Kroes, quando era commissario alla Concorrenza e prima ancora alla lussemburghese Viviane Reding – ora sono ampiamente distribuite. Il perché lo ha spiegato il presidente eletto Jean-Claude Juncker nella lettera di missione ai diversi commissari. Un vicepresidente, l’estone Andrus Ansip, sarà il “team leader” per il digital single market, mentre il tedesco Günther Oettinger (già all’Energia) sarà il commissario all’Economia e alla Società digitale, ma nella partita entrano le competenze di un’altra mezza dozzina di Commissari, dal Lavoro all’Agricoltura. Un “raddoppio” o un “annacquamento”. Forse è una visione diversa. La convinzione di Juncker è che l’economia digitale permeerà le altre attività, ribadendo che “l’utente resta al centro”, e auspicando un quadro regolatorio più europeo e meno nazionale, per attrarre investimenti, contribuendo a creare nel quinquennio ulteriori 250 miliardi di ricavi e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Come? Facendo leva sulle opportunità offerte dalla banda larga, dai nuovi media, dalla creazione di contenuti. Chi fornirà le tecnologie di base? Su questo non ci sono indicazioni. E l’industria delle telecomunicazioni o quella del software? Speriamo che se la cavino.
Una delle critiche rivolte alla commissaria uscente è stata l’aver privilegiato gli interessi dei consumatori, provocando riduzioni tariffarie eccessive, a discapito dei ricavi degli operatori e degli investimenti. In definitiva, il quesito è se l’ICT, nell’Europa dei prossimi anni dovrà essere considerata come un settore da sostenere, anche per le sue ricadute tecnologiche e occupazionali, o solo una leva per migliorare la competitività di altri settori, sperando che sorgano una Google o una Facebook europee.
La differenza non è da poco. I carrier europei sono stati stretti tra vincoli normativi e pressioni su prezzi e margini per fornire gratis servizi agli OTT, per lo più americani, che festeggiavano i loro record a Wall Street, il tutto su apparecchiature (indipendentemente dal marchio) rigorosamente made in Asia. Anche l’ultima chance, quella del cloud, sembra vedere un consolidamento planetario che non favorisce l’Europa, dove nemmeno si fermano le tasse. Nel frattempo in Italia, il settore conferma i segni meno: del resto, dove applicare l’investimento tecnologico se i grandi gruppi si ridimensionano o spostano i loro centri d’interesse all’estero? Da anni, la pubblica amministrazione riduce la spesa tecnologica, ma le previsioni di ammodernamento digitale che accompagnano la riforma governativa – seguite dalle dichiarazioni del ministro Madia secondo cui «non ci saranno esuberi» perché «l’impostazione non è di spending review, non siamo partiti dai risparmi» – suscitano perplessità sulla sostenibilità di una manovra che non vuol mai tagliare la spesa interna. Intanto, le ultime rilevazioni Eurostat dicono che tra i 28 paesi UE, l’Italia veleggia agli ultimissimi posti quanto a velocità delle reti ed è in fondo alla classifica per diffusione delle NGN, quelle da almeno 30 Mbit/s (anche perché non abbiamo mai avuto una rete tv via cavo).
L’Europa non può considerare l’ICT come una risorsa solo per gli altri. I temi del “mercato unico” non bastano. Occorre una politica di sostegno che nei fatti riconosca da una parte il carattere “cross industry” dell’ICT e dall’altra preveda un’attenzione pari ad altri settori infrastrutturali, come energia, ferrovie, per non parlare di aerospazio o addirittura agricoltura. L’economia digitale, abbiamo detto spesso, darà da mangiare alle generazioni future. Ma con questo si pensava a una filiera di produzione e non solo a creare dei ristoranti.