E-democracy e open data. Quale ruolo per l’ICT?

Rispetto a solo un anno fa, si parla un po’ meno di democrazia diretta e molto di più di come la tecnologia possa contribuire a rendere più efficienti e partecipativi i processi decisionali della politica. Gli individui e le aziende interagiscono tra loro in modo radicalmente diverso: la politica non può rimanere tagliata fuori

Una società ormai permeata dagli strumenti telematici di discussione e collaborazione si sente sempre meno rappresentata, a livello istituzionale, da meccanismi amministrativi le cui modalità si sono cristallizzate prima dell’invenzione del telefono. Gli apparati burocratici fanno fatica a stare al passo con l’evoluzione dei sistemi di comunicazione. A questa crisi di rappresentatività si unisce un senso di delusione sempre più diffuso per il mancato allargamento della partecipazione ai momenti decisionali, favoriti dall’abbondanza di informazioni e dagli strumenti analitici di big data. Proprio nella fase in cui i social media abbattono le tradizionali modalità unidirezionali dell’informazione radiotelevisiva e i sondaggi online azzerano i tempi necessari per misurare il consenso di tantissime persone su tematiche di importanza collettiva, dobbiamo ancora rassegnarci a sistemi elettorali e parlamenti che non hanno subito sostanziali mutamenti rispetto a epoche in cui anche il suffragio universale era un sogno.

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Le conseguenze burocratiche, amministrative e politiche delle piattaforme software di discussione, collaborazione e votazione possono avere un impatto straordinario sulla democrazia, anche in chiave di flessibilità regolamentare di scenari sempre più mutevoli e di allargamento della base partecipativa ai processi di problem solving sociale e di decision making. Ma il percorso verso la e-democracy è anche costellato da notevoli problemi: la sicurezza che i dati non possano essere manipolati, la difficoltà di estrarre dai dati una “intelligenza collettiva” che ricalchi fedelmente l’opinione delle persone e non crei distorsioni rispetto a minoranze che possono essere in possesso di soluzioni più efficaci, la sostituzione dei meccanismi di delega che oggi utilizziamo per affrontare i problemi più tecnici attraverso persone che dispongano di conoscenze e competenze particolarmente specifiche.

La prima fase delle piattaforme per la e-democracy è stata caratterizzata da iniziative “dal basso”, spesso gestite a livello di partito o affidate alla sperimentazione accademica. Forse, restituendo in parte la parola ai provider tecnologici è possibile innescare un circolo virtuoso di iniziative e risultati concreti (come del resto viene fatto in diversi progetti “smart city”). Risultati che sono potenzialmente in grado di essere recepiti dagli strati decisionali delle istituzioni e tradursi in percorsi di reale cambiamento.
Per questo abbiamo deciso di raccogliere i pareri di alcune aziende di tecnologia, tutte molto forti nel mercato della pubblica amministrazione. A queste opinioni che arrivano dal versante dell’offerta, si è unita anche quella di AICA, la più autorevole associazione italiana di professionisti dell’informatica. L’obiettivo non è sicuramente quello di fare il punto sulla e-democracy intesa, in chiave molto politico-elettorale, come “democrazia diretta”. Questa accezione del vasto comparto di quella che gli esperti definiscono informatica civica, ha goduto di un intenso momento di popolarità e discussione in questi anni, a livello europeo, partendo dalla lusinghiera affermazione in Svezia e Germania del “Partito Pirata” e fino alla sorprendente resa elettorale dell’italiano “Movimento 5 Stelle”. L’azione del Partito Pirata è istituzionalmente basata su una piattaforma informatica, un vero e proprio software di bacheca elettronica. In Italia la direzione strategica del Movimento 5 Stelle non ha mai nascosto gli obiettivi di sviluppare, proprio partendo dal software open source sviluppato per i vari Partiti Pirata nazionali, un vero e proprio Parlamento Elettronico.

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OPEN GOVERNMENT

A distanza di qualche anno l’eccitazione che si era formata intorno al tema della democrazia diretta ha ceduto il passo a riflessioni più pragmatiche, a obiettivi che appaiono, anche sul piano tecnologico, più a portata di mano. Da un lato molte pubbliche amministrazioni anche in Italia hanno dato corso a iniziative open data, in cui le informazioni un tempo rinchiuse nell’impenetrabile e burocratico forziere di uffici “pubblici” solo di nome, vengono rese trasparenti e accessibili, per stimolare lo sviluppo di analisi e veri e propri servizi ai cittadini e ai turisti. Dall’altro diversi organi istituzionali hanno cominciato a sperimentare attivamente in direzione di un possibile allargamento dei processi di consultazione e decisione.
Gli analisti di IDC chiamano questo fenomeno “open government” e recentemente hanno dedicato a questo argomento uno specifico report. «L’open government non è un concetto del tutto nuovo» si legge nell’introduzione, «ma rappresenta il passo successivo di un lungo percorso di riorientamento, o forse a un ritorno degli amministratori a un maggior impegno nei confronti dei cittadini e alla trasparenza sulle proprie azioni. In passato, ogni nuova ondata di innovazione e avvicinamento a forme di governo più efficaci, è stata caratterizzata da un insieme di fattori e conseguenze che hanno portato a un crescente grado di apertura». In particolare, IDC si sofferma nella sua analisi sui cambiamenti culturali che hanno alternativamente favorito questa o quella visione del ruolo che la pubblica amministrazione deve avere e i mutamenti tecnologici, con il repentino affermarsi di nuove modalità di interazione, dialogo, impegno e comunicazione. «Nel momento in cui, i cittadini in quanto consumatori e le organizzazioni aziendali adottano queste tecnologie emergenti, diventa immediato chiedersi perché l’amministrazione non dovrebbe fare lo stesso».

NUOVI CONFINI

Sulla esatta definizione di open government permane uno stato di incertezza alimentato dal costante dibattito tre le diverse idee propugnate dai visionari della tecnologia e della politica, contrapposte all’atteggiamento comprensibilmente conservativo della burocrazia. «Cittadini, gruppi di interesse costituiti tra l’elettorato e singoli amministratori pubblici cercano di immaginare i nuovi confini e si sforzano di implementarli, per generare un beneficio per i cittadini come per i processi della politica e dell’amministrazione. I manager pubblici che adottano tale approccio considerano spesso l’open government come una nuova ideologia resa possibile dalla tecnologia attraverso una linea continua alla quale ispirare le azioni e le interazioni, con i cittadini-elettori. La convinzione è che il modo in cui le singole persone oggi interagiscono tra loro sta cambiando radicalmente e devono rappresentare un punto di incontro verso cui l’amministrazione pubblica dovrà convergere».

E-DEMOCRACY

Bruno Carbone, security & privacy expert di R1, risponde alla nostra prima domanda relativa al ruolo e alle aree di intervento che i fornitori ICT possono espletare nel favorire l’apertura verso la e-democracy intesa anche come allargamento partecipativo ai processi decisionali orientati alle politiche pubbliche, tracciando un quadro molto realistico. «L’adozione da parte dei governi della e-democracy potrebbe incidere su più fronti nelle abitudini dei cittadini, ad esempio sui sistemi di votazione o nelle comunicazioni con la PA».
«Se portare la politica sul web rendendola accessibile a tutti, sembra comportare il rischio di privilegiare l’ambito pubblico a discapito delle aziende private – osserva ancora Carbone – la e-democracy può al contrario aprire nuovi scenari e rendere il contributo privatistico importante per il miglioramento della qualità dei servizi erogati. Per gestire un nuovo modo di fare politica e quindi per amministrare e governare sistemi di comunicazione diversi, andranno predisposte tutte le misure necessarie a garantire il rispetto della privacy dei singoli cittadini e dei parametri di sicurezza delle informazioni, intesa come riservatezza e integrità dei dati. L’obiettivo sarà di evitare la manipolazione, da parte della rete, dei messaggi diretti ai cittadini, per trasmettere a questi informazioni corrette e non alterate».
Non solo. «Gli operatori dell’ICT – afferma Carbone – avranno importanti opportunità nella gestione del web con attività di programmazione dei siti e con la gestione delle comunicazioni, saranno chiamati a garantire a tutti i cittadini l’accesso ai servizi della PA, a rafforzare il loro coinvolgimento alla vita delle istituzioni e a far fronte a nuove esigenze come la comunicazione tra cittadini e pubblica amministrazione, i sondaggi, le newsletter verso i cittadini e la comunicazione diretta con gli uffici di relazione con il pubblico in ambito civico e sanitario».

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TRASPARENZA E PRIVACY

Anche Daniele Melato, direttore area grandi clienti di Corvallis accoglie positivamente l’onda di ammodernamento che scuote la pubblica amministrazione anche se, osserva, «i tempi con cui questo raggiungerà il livello atteso saranno sempre troppo lenti dato il ritardo accumulato. Del resto, la stessa utenza finale non è sempre preparata al meglio ad accettare «quella che potrebbe essere una rivoluzione».
Neanche l’impresa, che pur reclama una PA al passo con i tempi, è pronta a sfruttare tutte le opportunità che l’innovazione può offrire. «Se così fosse – spiega Daniele Melato – avremmo aziende paperless, con processi decisionali collaborativi, attive sul mercato elettronico, che praticano il telelavoro. Questo è il ruolo delle aziende ICT, in cui Corvallis si riconosce: accompagnare il processo dei propri clienti, accompagnare il progresso, in modo che la tecnologia diventi usabile, affidabile, universale, sia sicura, e sia percepita come tale. Non ultima sia economicamente conveniente. La democrazia può avvantaggiarsi di tutto ciò solo se le tecnologie ICT saranno conosciute, e non temute dai più».
I problemi relativi alla sicurezza, all’identità delle persone, alla manipolazione dei dati e alla certificazione degli algoritmi, riducono la reale possibilità di adottare strumenti di e-democracy a livello governativo, conclude Melato. «Sono molti gli ambiti invece dove queste tecniche possono essere sperimentate, riavvicinando i cittadini a molti organi collegiali».

CULTURA E PARTECIPAZIONE

Il vuoto formativo e di conoscenza, in altre parole il basso livello di maturità che angustia anche i potenziali beneficiari delle tecnologie partecipative preoccupa anche Giulio Occhini, direttore di AICA. «La diffusione di strumenti di democrazia digitale e dell’impiego degli open data per consentire maggiore partecipazione, trasparenza nell’amministrazione e nuovi servizi è vincolata al fattore competenza dei cittadini, che devono infatti essere in grado di usare in modo efficace e consapevole gli strumenti, valutare le proposte disponibili in modo critico e interpretare il valore delle varie opportunità di interazione. Lo stesso vale per l’amministrazione pubblica, che può realmente migliorare e mettersi sulla strada della trasparenza e della collaborazione con il cittadino soltanto se chi vi opera è in grado di comprendere la portata di tali strumenti, così da stimolare, coinvolgere e attivare le energie di tutti».
Non solo. «I fornitori ICT sono interlocutori regolari e ascoltati della pubblica amministrazione – ribadisce Occhini – e sono sempre più coinvolti in scelte strategiche per un paese che sta forse cambiando passo sulla strada della digitalizzazione. «Possono quindi farsi “suggeritori” e “accompagnatori” della PA – ma anche dei cittadini – in questo percorso, valorizzando le proprie risorse e competenze e affiancandosi all’azione di tutti quei soggetti che lavorano per diffondere, a tutti i livelli, le competenze digitali».

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DECISION MAKING

Aumentare il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni al fine di allargare il consenso e la legittimazione dell’azione pubblica, riducendo di conseguenza i conflitti, «è la strada che molte amministrazioni stanno percorrendo con l’introduzione di iniziative di e-democracy» – afferma Gianni Anguilletti, country manager di Red Hat, l’azienda che con il suo ambiente operativo open source e un ricco catalogo di tool per la gestione del cloud computing è molto presente in questo mercato. Il processo è parte integrante di un cambiamento ancora più ampio che è già in atto da diverso tempo nel mondo attraverso il concetto di smart city. «In questo scenario – prosegue il responsabile italiano di Red Hat – il ruolo dell’Europa, attraverso normative in grado di favorire l’adozione di queste soluzioni, l’evoluzione culturale e il compito delle pubbliche amministrazioni, sia locali sia centrali, sono fondamentali soprattutto in Italia, spesso restia ai cambiamenti».
I fornitori ICT ovviamente hanno un ruolo importante per fornire servizi, competenze, casi di successo e soluzioni che possano rispondere a queste necessità. «Per un’azienda come Red Hat, nata su un modello di sviluppo comunitario basato proprio su concetti quali la trasparenza e la meritocrazia, questo rappresenta un’ottima opportunità per portare la propria esperienza e le proprie soluzioni al servizio di questa rivoluzione democratica».

MANAGEMENT “PARTECIPATO”

Ad Anguilletti, Data Manager ha chiesto un parere sull’uso di analoghi strumenti collaborativi in ambito aziendale, in direzione di un management “partecipato”. È possibile un travaso di esperienze e strumenti software dall’azienda verso la società?
«Ci sono parecchie esperienze di questo tipo nelle aziende private, anche italiane, che abbiamo seguito e stiamo seguendo. Sicuramente, i risultati ottenuti possono rafforzare l’adozione di questi strumenti e processi a livello pubblico. Tuttavia, in questo momento gli aspetti fondamentali per il successo di questo tipo di iniziative sono la volontà di reale cambiamento nel modo di amministrare e fare politica e l’esperienza del fornitore di soluzioni».

STRATEGIE DI COLLABORAZIONE

Sulla diffusione degli strumenti di condivisione e collaborazione in ambito civico e aziendale si sofferma anche Stefano Viotti, managing director nell’area consulting di Accenture. Secondo Viotti le grandi organizzazioni tendono oggi a orientare le strategie di collaborazione aziendale verso un’interazione intelligente tra i soggetti che, a vario titolo, ruotano attorno alle dinamiche del proprio business. «Il valore veicolato dall’adozione di strumenti di collaborazione deriva dalla gestione multicanale e in tempo reale di flussi e gerarchie di comunicazione, moderazione e protezione dei contenuti scambiati, accesso federato a fonti aperte, informazione generata da set di dati».
Dall’esperienza di Accenture, emerge come un modello di governance partecipato sia percepito di estrema utilità poiché volto a favorire inclusione, senso d’appartenenza, spirito costruttivo, incubazione di nuove idee, oltre a rappresentare un punto d’osservazione legittimo di tendenze e correnti di pensiero, potenzialmente capace di influenzare percorsi decisionali. «Il travaso di esperienze e nuovi strumenti nasce da movimenti talvolta di nicchia (democrazia partecipata, comunità open source) e talvolta di massa (produzione paritaria, azioni collettive) già maturi sul tema, per poi alimentare aspettative in ambito aziendale e istituzionale. Il successo di un programma di collaboration risiede nell’abilità di regolare tecnicamente la fruizione dei servizi per aggregare l’interazione intorno a processi di business: amplificando l’inclusione del maggior numero di attori, lasciando ai partecipanti la discrezionalità sulle modalità di coinvolgimento, assicurando la segregazione dati, proteggendo l’autorevolezza di ruoli organizzativi e funzioni decisionali».