I makers costruttori della IoT. Compiono dieci anni la visione di Massimo Banzi e la sua scheda elettronica
C’è un visionario italiano che come molti nostri connazionali ormai entrati nel firmamento dell’imprenditoria high-tech continua a godere in patria di una visibilità piuttosto ridotta. A differenza di tante altre star che spesso e volentieri hanno in tasca una seconda cittadinanza, spesso americana, Massimo Banzi non è affatto un cervello in fuga: brianzolo d’origine, colui che viene considerato l’inventore di Arduino continua a essere molto presente nel suo territorio che da qualche anno comprende anche una scuola superiore svizzera, la Supsi, dove Banzi tiene un famoso master in Interaction Design. Per la precisione, le lezioni si tengono nel campus di Lugano-Trevano, dove sorge il dipartimento Ambiente, Costruzioni e Design di questo polo universitario ticinese e dove gli studenti parlano l’italiano, anche se in certi casi solo come lingua secondaria, considerando le loro variegate origini internazionali. Le stesse schede Arduino poi vengono assemblate in Piemonte nell’area tra Ivrea e Torino, città dove ha aperto la prima sede delle Officine Arduino.
Questa rubrica parla quasi invariabilmente di software, ma Arduino rappresenta una sorta di eccezione. L’invenzione di Banzi e di altri quattro colleghi (un italiano, uno spagnolo e due americani) non è fatta di bit, ma di atomi ed è a buon ragione al centro di un movimento di portata rivoluzionaria, quello dei makers, che zitti zitti ci stanno traghettando verso modalità di produzione a metà strada tra il mass market e il lavoro artigianale. Un artigianato 2.0 che grazie alla Internet delle cose potrebbe un giorno diventare non meno pervasivo ed economicamente “pesante” del modello fordista della catena di montaggio.
Piccoli makers crescono – Arduino è a tutti gli effetti un piccolo computer o – per meglio dire – un degno rappresentante di una categoria cadetta rispetto ai sistemi general purpose centrati su complessi microprocessori. Cadetta, ma non figlia di un dio minore, tutt’anzi. Al centro della prima versione di Arduino, lanciata nel 2005, c’era un microcontrollore, una cpu capace di eseguire un set di istruzioni più limitato, ma pur sempre in grado di funzionare con versioni snelle del sistema operativo Linux in una miriade di applicazioni di controllo strumentale e industriale. Oggi, racconta Banzi – mentre sta ultimando la fase di testing della terza generazione di Arduino che debutta alla Maker Faire di settembre a New York e sarà presente alla seconda edizione romana di questo salone dell’artigianato digitale, dal 3 al 5 ottobre – «lavoriamo molto sulla cosiddetta IoT, per permettere alla gente di farsi la propria Internet delle cose».
Nella ridda di stime quantitative, si pensa a un universo di 50 miliardi di oggetti connessi, di valori di mercato che sfiorano i duemila miliardi di dollari. «Al momento – sottolinea Banzi –
realizzare un progetto IoT è difficile se non hai un dottorato in elettronica. L’architettura hardware di Arduino, invece, è di una semplicità devastante. Ma la rivoluzione sta nella facilità d’uso del software, che ti permette di fare un progetto letteralmente in mezz’ora». Come se non bastasse, per la versatile “schedina” è stato scelto un modello di hardware open che in teoria consente a tutti di sviluppare dei cloni. In dieci anni, Banzi stima di aver commercializzato un milione e mezzo di schede. Più o meno la stessa cifra riguarda le vendite dei clonatori asiatici. «Oggi, però, anche un pezzo di mercato cinese vuole acquistare l’originale, non le imitazioni. Sono gli imprenditori che in questi anni sono cresciuti, hanno guadagnato e vogliono accedere ai prodotti che hanno dietro una storia e un brand».
Riportare l’economia in pista – Sebbene non risieda stabilmente all’estero, la frenetica agenda di viaggio di Banzi non facilita i contatti. Data Manager lo ha “intercettato” via Skype, al ritorno dalla sua partecipazione a un evento alla Casa Bianca, dove era stato personalmente invitato dallo staff di Barak Obama, insieme ai maggiori protagonisti e agli imprenditori della nuova industria dei makers. Che cosa ha detto in quella occasione il presidente americano? «È stato un discorso molto semplice – riferisce Banzi – che può essere applicato anche all’Italia. Obama ritiene che per riportare l’economia in pista, gli americani devono ricordarsi di essere sempre stati dei “maker” e quindi devono riprendere a fare cose, farle in modo diffuso, coinvolgendo tante persone, su scala locale. Ormai, non si può scommettere solo sulle grandi organizzazioni globali».
Se il progetto Arduino si trova al centro di un fenomeno che potrebbe incidere profondamente, e non solo sullo sviluppo dell’informatica, non bisogna dimenticare le sue origini autentiche, che sono essenzialmente divulgative e formative. La prima idea risale agli anni in cui Banzi, che da metà anni 90 lavorava per uno dei primi Internet Service Provider italiani, Italia Online, aveva assunto un ruolo di docente presso l’Interactive Design Institute di Ivrea, un’associazione indipendente non profit fondata all’inizio del nuovo millennio da Telecom Italia e Olivetti (e infine, nel 2005, confluita in Domus Academy). Arduino, che prese il nome da un bar di Ivrea in cui si riunivano docenti e studenti dell’Istituto, doveva essere un ponte, facilmente percorribile, tra il software e i prototipi dei prodotti escogitati dagli allievi della scuola. Ancora oggi, la scheda è un elemento chiave del master che Banzi insegna a Trevano.
Innovazione da sperimentare – «Ogni anno, riusciamo a sperimentare tante idee e molti studenti fanno cose decisamente belle». Il professor Banzi cita il caso di Matteo Loglio, che con il suo “Iuvo” ha realizzato una sorta di robot che facilita – automatizzandola e legandola persino ai gesti – la creazione del codice software di una applicazione interattiva. Nel 2013, Iuvo ha ottenuto il prestigioso premio internazionale Ixda promosso dalla Interaction Design Association. «Iuvo ha avuto successo anche su KickStarter e Matteo ora è a Londra, con una sua azienda (Solid Labs, ndr)». Gli esempi di prototipi e prodotti commerciali sorti nella comunità globale di Arduino (duecentomila persone solo tra gli iscritti ai forum di discussione sul sito Arduino.cc) e cloni vari, sono praticamente infiniti. E i meccanismi di microimprenditoria che sottendono a tutto questo sommovimento ci parlano di un’economia high-tech profondamente diversa da quella – fatta di milioni di pezzi in serie da sostituire subito con una nuova “infornata” – che i grandi computer maker americani prima e i colossi asiatici del mobile computing hanno costruito. Un’economia però possibile secondo Banzi e i filosofi del making. «Nel mondo di Arduino, vedo persone che gestiscono tutto online, fanno piccole produzioni locali, affiancati da fornitori locali e fanno vivere bene la loro famiglia e quelle dei collaboratori». Sono in molti ormai a scommettere sul futuro del nuovo mercato di massa costruito (e finanziato) in proprio mettendo insieme, come i mattoncini di un Lego con l’intelligenza dentro, una miriade di micromercati.