Matteo Lancini – Viverevirtuale

Matteo Lancini

Scuola, gioco e immaginazione nell’era delle relazioni senza corpo

Il gioco è ancora libera invenzione (play) e può renderci felici (playful), oppure le regole del gioco (game) ci costringono a giocare per forza? C’è differenza tra il giovane eroe proustiano completamente immerso nell’universo letterario della Recherche e il suo equivalente contemporaneo che interagisce nella dimensione virtuale – da un capo all’altro del Pianeta – con altri coetanei e grazie a una connessione wireless? Forse non c’è alcuna differenza tra il perdersi nelle pagine di un romanzo e i livelli di un videogioco elettronico. Tra righe di inchiostro e stringhe di software l’orizzonte artificiale resta lo stesso? Oppure, anche l’immaginazione diventa una sorta di equipaggiamento accessibile a pagamento? Nel mondo dell’industria dell’intrattenimento elettronico, ogni click può essere tradotto in informazioni sull’utente ed essere memorizzato in una banca dati. Gli esperti ci spiegano che lo spazio libero da regole e programmi è lo spazio del gioco, dell’immaginazione. Ma che cosa succede se, come ci hanno insegnato i nativi digitali, la realtà è un impasto di reale e virtuale, di incontro di anime senza corpi?

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La tecnologia crea isolamento nelle nuove generazioni o questo isolamento è connaturato ai nuovi modelli famigliari prima ancora che tecnologici? E che cosa significa “viverevirtuale”? Abbiamo girato la domanda a Matteo Lancini, in occasione dell’undicesima edizione del Festival della Mente di Sarzana alla quale ha partecipato anche Massimo Guarini, creatore di Murasaki Baby, titolo in esclusiva per PS Vita e voce tutta italiana della game industry. Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, presidente della Fondazione Minotauro, insegna presso il dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Murasaki Baby racconta l’avventura di una bimba e del suo palloncino viola a forma di cuore in un mondo pieno di insidie alla ricerca della sua mamma: un gioco diverso dal solito, dove è importante ragionare e usare il cervello. E come la protagonista, siamo tutti alla ricerca di nuove possibilità di realizzazionedi sé, che forse non troveremo mai, se non nelle braccia della nostra “mommy”.

Data Manager: Quali sono gli effetti cognitivi e psicologici che la rivoluzione digitale sta producendo?

Matteo Lancini: Al di là delle definizioni, c’è una differenza tra il modo di approcciare la tecnologia da parte di nativi e immigrati digitali. L’accesso al digitale da parte dei cinquantenni per motivi professionali è diverso da quello di chi nasce in un ecosistema domestico, dove il collegamento a Internet è già presente. In Italia, i nativi digitali veri e propri stanno facendo il loro ingresso nella scuola secondaria di secondo grado, con un impatto sui processi cognitivi, affettivi e relazionali non da poco. Le rivoluzioni tecnologiche e scientifiche si inseriscono sempre in un contesto sociale. Addormentarsi cullati dalla fiaba raccontata dal nonno è diverso dall’addormentarsi con il videogioco in mano. Ma è ancora presto per capire gli effetti di questo impatto.

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Il rischio è di dividersi inutilmente in tecnofan e tecnopessimisti.

Che cosa significa “vivere virtuale”?

Noi psicologi di orientamento psicanalitico eravamo abituati a considerare l’esistenza di due mondi: il virtuale e il reale. Le nuove generazioni ci hanno spiegato che si “vive virtuale”, nel senso che le due dimensioni sono mischiate e si influenzano. La realtà senza corpo, quella mediata dai dispositivi elettronici, si interseca con la realtà del corpo, delle relazioni dirette e questo sconfinamento rappresenta la nuova normalità.

Le relazioni senza corpo sono relazioni senza anima?

Internet ha reso possibile il vivere a distanza, ma mai da soli. Il cambiamento delle strutture famigliari e l’ingresso della donna nel mondo del lavoro hanno portato a costruire delle relazioni affettive fin dalla primissima infanzia molto nuove rispetto al passato, quando c’era una famiglia tradizionale in cui la figura della mamma presidiava tutto il processo di crescita. I bambini vivono un contesto di separazioni affettive molto precoci già nella famiglia, pensiamo al boom degli asili nido o di altre agenzie parascolastiche e parafamigliari. Il fatto che il corpo del bambino si separi molto precocemente dalle figure parentali è una novità che ha preceduto l’avvento di Internet. Lo stare sempre in relazione ma a distanza è un nuovo modo di condivisione degli affetti all’interno di uno stesso gruppo. Tutte le ricerche ci dicono che il “collegamento virtuale” si sperimenta di fatto prima in famiglia, poi sui social network. La socializzazione in rete, la piazza virtuale ha sostituito i cortili, dove una volta le generazioni crescevano lontano dal controllo ed era consentito a quei corpi anche di farsi male.

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L’Empowerment tecnologico corrisponde a un aumento del potere dell’uomo sulle cose del mondo?

La sensazione di potere accedere a tutto il sapere del mondo in modo istantaneo e facile può dare una sensazione di potenza per cui è possibile credere di potere avere molto, impegnandosi molto poco.

Vedo bambini che si staccano dal seno materno, attratti dalle icone colorate dei tablet e vedo ottantenni che ritrovano una dimensione di socialità grazie a Internet e ai social network.

È sbagliato credere che le nuove generazioni siano meno affettive o più isolate. Hanno solo un’idea diversa di come si ama, di come si sta insieme e di come si vivono le amicizie.

Se la conoscenza ha una connotazione emotiva, la creatività può essere ridotta a un automatismo?

Credo che la creatività sia un processo al quale partecipano molte componenti ambientali e biologiche. Nell’area dei videogiochi, la creatività è una chiave di successo. La creatività è un fatto umano che ha a che fare con la gioia, ma anche con il dolore e la possibilità di affrontarlo. La creatività è uno spazio molto importante della vita e non può essere ridotto a un automatismo.

Tra righe di inchiostro e stringhe di software, l’orizzonte artificiale resta lo stesso?

L’immaginazione non può essere un equipaggiamento accessibile a pagamento. L’immaginario è un fatto della mente, la realtà è un fatto esterno, la realtà virtuale è una terza dimensione in cui possono coesistere elementi di entrambi i mondi, limiti compresi. L’immaginazione è positiva, ma se ti porta lontano può essere pericolosa. Allo stesso modo, la realtà virtuale può aiutare a superare situazioni di disagio. Giocare a essere un avatar potenziato dentro la realtà virtuale può essere un modo per fare esperienze positive, mantenendo il contatto anche con la realtà. Si può sognare tra le pagine di un libro come tra i livelli di un videogioco o le immagini di un film e il rischio di perdersi o di ritrovarsi rimane lo stesso. Non ci sono solo i videogiochi “sparatutto”, ci sono anche quelli più emozionali. Non credo che un videogioco possa allontanare dalla lettura ma credo che possano esserci collegamenti e scambi continui tra questi diversi immaginari.

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Le nuove generazioni sono in enorme difficoltà rispetto alla solitudine. Non sono abituati a stare veramente da soli perché l’idea di stare da soli fuori dal controllo è poco tollerata dagli adulti.

Il marketing attraverso i big data analytics promette di leggere e prevedere la realtà, realizzando tutti i nostri desideri. Che futuro ha una società che non ha più desideri?

Una società che non ha desideri, non ha neppure progetti e quindi è destinata all’implosione. Il marketing da sempre – oggi di più rispetto al passato, grazie agli analytics e alla quantità enorme di dati a disposizione – ha la possibilità di guardare ancora più in avanti. Il marketing non ha la capacità di creare desideri, semmai ha la capacità di portare alla luce quei desideri, cogliendo con molto anticipo i cambiamenti della società.

Il gioco è una modalità di apprendimento. Simulatori e realtà virtuale entrano in azienda e nella scuola come strumenti di formazione. Con quali effetti e chi saranno i maestri di domani?

Ci sono scuole in Italia che sono già 2.0. Dobbiamo pensare a costruire una scuola in grado di rispondere alle necessità e alle esigenze educative degli adolescenti odierni. Penso a una scuola più aperta, più partecipata e più smart grazie alla tecnologia, in grado di affiancare le modalità social a quelle tradizionali, sperimentando lo spazio e il tempo oltre i limiti del luogo fisico. La scuola non deve supplire la famiglia nell’educazione ma preparare al mondo del lavoro. Il tema centrale è come trasferire competenze utili, aprendo a collegamenti con il territorio e con le aziende, in modo che i ragazzi possano sentirsi protagonisti attivi del sapere e meno fruitori passivi. L’enciclopedia è diventata un’app e l’insegnamento non è più un atto di sottomissione. I maestri devono avere il ruolo di guida e non essere i guardiani del sapere.