Outsourcing contro insourcing. L’ora del “ritorno a casa”?

Qualcuno parla di ennesima moda effimera, per altri è una tendenza sempre più concreta. Si moltiplicano gli esempi di ritorno “in house” di funzioni IT in precedenza affidate in outsourcing. Per decidere – però – è necessario valutare attentamente le funzioni coinvolte

di Luca de Piano

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Outsourcing contro insourcing L’ora del “ritorno a casa”?A cavallo dell’estate 2012, la notizia ha suscitato molto clamore nell’ambiente IT mondiale. La decisione di General Motors – che nonostante la crisi dell’auto è pur sempre una delle maggiori imprese manifatturiere del mondo – di riportare in azienda buona parte delle funzioni IT in precedenza affidate in outsourcing ha fatto sorgere più di una perplessità. Non fosse altro perché proprio la stessa GM è stata sempre vista come la società che qualche decennio fa ha di fatto iniziato la tendenza al ricorso verso l’esternalizzazione delle funzioni IT e che – secondo numerose stime – era arrivata a dare in outsourcing circa il 90% delle proprie esigenze informatiche. Al di là delle ragioni sottostanti alla decisione di GM – però – è un fatto che la tendenza è stata segnata. Del resto, come in tutti i settori, anche l’ICT vive di mode più o meno effimere, che talvolta tendono a ripresentarsi. Lungi dall’essere stato un fenomeno passeggero, l’outsourcing di numerose funzioni IT rimane un’opzione scelta dalla maggioranza delle aziende, anche se negli ultimi tempi si nota un ritorno “in casa” di numerosi processi che erano stati affidati all’esterno. E non si tratta solo di casi clamorosi come quello del colosso dell’auto “Made in Usa”: per questo, anche nel nostro Paese si comincia a parlare di “insourcing”.

 

SCENARIO DI MERCATO

Se osserviamo il mercato globale (con economie in crescita) e il mercato locale italiano (in contrazione per le pressioni economiche e la trasformazione dei mercati), i dati IDC confermano un trend positivo per l’IT outsourcing dal punto di vista delle prospettive di adozione da parte delle aziende. Il discorso “insourcing” riporta l’attenzione all’interno delle aziende, ma una misurazione del fenomeno e una sua corretta quantificazione risultano molto difficili con i metodi delle ricerche standard.

Possiamo affermare che l’insourcing è una tendenza in atto a livello enterprise in settori molto verticali, ma è ancora marginale rispetto all’outsourcing. La percentuale di aziende che dichiara un percorso inverso all’outsourcing – infatti – è molto bassa. Non intendiamo – però – affermare che questo trend sia assoluto e che riguarda tutte le aziende.

I dati di mercato non comprendono l’intero spettro dei servizi di outsourcing. Non sono, infatti, comprese alcune categorie di IT outs (per esempio, application management, web hosting…) e tutto il mercato cosiddetto BPO (processing service, business process outsourcing).

Nel 2010, il mercato dei servizi in outsourcing a livello world wide valeva 114,7 miliardi di dollari ed è cresciuto in media del 2,9% ogni anno. Nel 2015, secondo le previsioni di IDC, raggiungerà quota 132,4 miliardi. Nel 2012, il valore del mercato italiano dei servizi (IS Outs) è di circa due miliardi e 103 milioni di euro con una diminuzione di -1,1% nel 2013.

Nel mercato rete e servizi desktop outsourcing (NDOS), il confronto tra lo scenario globale e quello nazionale ripete lo stesso schema. Nel 2010, il valore mondiale del mercato NDOS era di 43,4 miliardi, con un velocità di crescita del 5,0% annuo che raggiungerà i 55,4 miliardi nel 2015. Nel 2012, lo stesso mercato in Italia vale circa 756 milioni di euro con un picco negativo previsto per il 2013 di -1,8%.

Altro dato interessante è la percentuale di organizzazioni europee che gestiscono i loro data center internamente. Nel 2011, questo dato è sceso drasticamente dal 60% al 46% (dati IDC).

Questa variazione però non può essere letta in modo univoco a vantaggio dell’insourcing. Secondo IDC, il 21% delle organizzazioni, infatti, dichiara che prenderà in considerazione l’outsourcing data center nei prossimi 12 mesi. Questo dato suggerisce che – nonostante l’andamento oscillante – esiste un notevole impulso alla base di questo mercato. E questo impulso sembra destinato a continuare a crescere.

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Pro e contro

È necessario verificare sul campo se si tratta di un fenomeno passeggero o di una tendenza duratura: lo abbiamo fatto interpellando alcuni protagonisti dell’outsourcing, cioè fornitori di servizi esterni alle aziende, per analizzare le possibilità di crescita dell’opzione “ritorno in casa” e per capire quali possono essere i principali pro e contro. Quelli dell’outsourcing sono noti. Tra i vantaggi ci sono per esempio «le economie di scala nell’approvvigionamento di tecnologia, la dismissione degli spazi di gestione, la centralizzazione delle competenze e l’aggiornamento tecnologico accelerato e costante» – come sintetizza Massimiliano Vannucchi, responsabile infrastructure services di Xenesys (www.xenesys.it). Ma i contro sono altrettanto noti: «Minore flessibilità di gestione, il fatto che le scelte tecnologiche siano in capo ad altri, e soprattutto che i dati e le competenze restino all’esterno dell’azienda, con conseguente minore controllo diretto da parte dell’azienda. L’insourcing – prosegue Vannucchi – permette all’azienda la completa padronanza delle scelte tecnologiche, un livello superiore di flessibilità e una maggiore attenzione tendenziale ai costi. I potenziali lati negativi dell’insourcing sono, invece, la perdita di competenza nel lungo periodo, se la formazione delle persone non è costante, un potere contrattuale minore nei confronti dei fornitori di tecnologia e un refresh tecnologico più oneroso».

 

Differenziare le scelte

L’importanza di una differenziazione delle opzioni di sourcing – esterno oppure interno, o anche misto – è stata sottolineata da tutte le aziende interpellate da Data Manager. Secondo Francesco Scribano, integrated technology services sales leader di IBM Italia (www.ibm.com/it), «le aziende hanno sempre più coscienza dell’importanza di strategie basate su modelli di sourcing differenziati in funzione delle specifiche esigenze di business. Inoltre, molte organizzazioni hanno maturato la capacità di governare i processi IT e questo permette di adottare modelli misti di soluzioni in house e outsourcing, ottenendo il massimo in termini di qualità del servizio erogato, time to market e costi». Per questo, vi sono tipi di lavoro che possono passare da una modalità in outsourcing a una di insourcing e viceversa.

Sempre secondo Francesco Scribano di IBM, bisogna – però – guardare attentamente al tipo di funzione, in quanto «le tecnologie integrate nei processi di business sono sempre più importanti per le aziende che devono aumentare i propri livelli di resilienza, ossia la capacità di adattarsi in modo repentino ai cambiamenti che il mercato impone. Questo si riflette sulle caratteristiche che un’organizzazione IT deve avere per rispondere alla capacità di integrare e variare il supporto della tecnologia al business. Alcune iniziative importanti che coinvolgono le tecnologie possono essere richieste in tempi brevissimi e possono essere sponsorizzate e gestite in autonomia da funzioni che fino a qualche tempo fa non disponevano di budget IT o disponevano di budget limitati». Per quanto riguarda la strategia da adottare in concreto, «IBM Global Technology Services offre una vasta gamma di servizi orientati a definire la migliore strategia di sourcing. Definita la strategia, le aziende hanno la possibilità di scegliere su quali aree intervenire nell’ambito dell’infrastruttura IT e se gestire tali aree per conto proprio o ricorrere ai managed services. Esempi innovativi di servizi gestiti sono le offerte cloud rese disponibili da IBM per servire specifici carichi di lavoro dell’IT, come Sap, enterprise content management, collaboration, system management, storage, backup and restore, e altro».

 

Esaminare le opzioni

Per Salvatore Stefanelli, direttore generale di Cedacri (www.cedacri.it), nel considerare i pro e i contro delle due opzioni, va tenuto presente che «l’outsourcing IT permette di ottimizzare i costi di gestione delle aziende fino al 30% e – quando l’outsourcer può garantire nel tempo un importante piano di investimenti – offre innovazione dei processi e dei servizi che i singoli clienti da soli non potrebbero permettersi. Dall’altro lato, l’insourcing nel breve periodo risponde alla necessità di riutilizzare il personale in eccesso, ma è realizzabile soprattutto per il business process outsourcing (BPO) e per i servizi IT accessori come call center, assistenza all’utente e manutenzione postazioni di lavoro. L’insourcing è meno indicato per i servizi IT, che richiedono sistemi complessi, elevate competenze tecniche e importanti progetti di migrazione».

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Vista la tendenza in atto, Cedacri – che occupa da tempo una posizione di primissimo piano in Italia nell’ambito dell’outsourcing IT per il mondo finance – mira a crescere e a conquistare nuovi clienti, più che a contrastare il fenomeno dell’insourcing. «Il piano degli investimenti avviato nel 2010 – spiega Stefanelli – ci permette di offrire ai clienti nuovi sistemi informativi che garantiscono un’ottima gestione della rete di vendita con una vera multicanalità integrata, maggiore efficienza nei processi operativi con l’eliminazione delle attività senza valore per i clienti finali, l’innovazione del catalogo prodotti con un miglioramento del cross selling, un ottimo sistema di controllo dei rischi con appositi sistemi di monitoraggio e alerting».

 

Settori verticali in primo piano

Secondo Massimiliano Vannucchi di Xenesys (società attiva nella consulenza, progettazione e vendita di soluzioni, servizi e infrastrutture IT), il ritorno all’insourcing si sta notando «in primo luogo, tra le aziende con sistemi applicativi fortemente verticalizzati, per esempio quelle della moda, del farmaceutico e del settore finanziario. Il ricorso all’outsourcing da parte di aziende appartenenti a questa tipologia era dettato dalla ricerca di economie di scala. Dopo alcuni anni – però – si sono rese conto che – a causa del fatto che i propri sistemi erano per la maggior parte sviluppati ad hoc e particolarmente complessi – non beneficiavano appieno dell’utilizzo di una infrastruttura condivisa. Affidando all’esterno la gestione IT, queste aziende hanno vissuto una riduzione marginale dei costi vivi e una valorizzazione dei benefici (compresi i risparmi occulti, come il recupero delle risorse interne o il supporto IT sempre aggiornato e qualificato) troppo debole per essere percepita dal management». Del resto, nel settore IT «è certamente presente – fa notare Vannucchi – un fenomeno di rivisitazione delle scelte passate, alla luce degli scarsi risultati raggiunti. Possiamo, infatti, affermare che la spinta esercitata dall’outsourcing dell’infrastruttura IT si sia ridotta in termini di portata e consistenza, forse anche perché disorientata dalla confusione terminologica e sostanziale del cloud, obbligando il team IT a una ragionevole valutazione dei rapporti tra costi e benefici». Guardando, invece, ai driver principali nella decisione di ricorrere all’insourcing, va citata in primo luogo l’esigenza di ottimizzare la spesa IT: «Nel contesto economico attuale – sottolinea Vannucchi – le aziende pongono al top dei propri obiettivi la razionalizzazione della spesa IT, prolungando il più possibile la vita utile dell’infrastruttura tecnologica, ancora prima di ricercare un adeguamento tecnologico costante. Questo driver risente molto del fatto che l’outsourcing non ha portato all’ottenimento del risparmio economico ipotizzato». Non bisogna – però – dimenticare anche la necessità di garantire flessibilità all’IT, che è un aspetto tuttora centrale. Per Vannucchi, «troppe aziende hanno costatato che l’outsourcing ha portato all’implementazione di tecnologie poco modulabili che può essere vincolante nelle scelte future».

 

Contatti “in casa”

Anche chi si occupa più specificamente di servizio clienti e di vendite gestite via contact center – come è il caso di Reitek (www.reitek.com) – ha notato che «se in passato queste aree hanno visto manovre di full-outsourcing, oggi, le aziende riportano al loro interno il know-how, le funzioni di analisi, gestione e controllo» – spiega Marco Cioria, responsabile marketing e comunicazione della società. Da questo, sono nate le “control room” e le “sales room’”, autentici ponti di comando che monitorano l’andamento dei canali di comunicazione e di vendita e che centralizzano tutte le decisioni più importanti. Il driver principale di questo fenomeno è la necessità di riavvicinamento al mercato. Per Cioria, «si torna all’insourcing per le attività più pregiate, come – per esempio – la business intelligence». Fino a pochi anni fa l’outsourcer si occupava di tutto: doveva portare i risultati e basta. In tempi più recenti – però – si cerca all’esterno essenzialmente la forza lavoro. «A parte le campagne di puro branding – dice Cioria – le aziende si stavano allontanando troppo dai clienti finali perdendo sensibilità, logica decisionale e contatto con il mercato nel suo complesso. Non è quindi un caso se i clienti – con cui realizziamo progetti di teleselling, online engagement e presa appuntamenti per agenti sul territorio – operano su mercati sempre più competitivi. Il fenomeno dell’insourcing si rafforzerà finché le aziende avranno l’esigenza di prendere decisioni basandosi su dati il più possibile immediati e accurati. Più saranno brave a elaborare informazioni in tempi brevi e meglio guideranno i loro canali di vendita e customer care».

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HR nella terra di mezzo

Le realtà più attive in settori specifici come quello dell’amministrazione del personale non rilevano – invece – la tendenza all’insourcing. Anzi, come spiega Silvia Bolzoni, amministratore unico di Zeta Service (www.zetaservice.com), «questo settore sperimenta spesso dinamiche proprie e talvolta può essere considerato come una realtà che si presenta in controtendenza. Infatti, noi non stiamo rilevando un particolare ricorso all’insourcing, mentre notiamo che le aziende stanno sempre più valutando – o hanno già scelto – di affidarci l’elaborazione dei cedolini dei loro dipendenti. Inoltre, è piuttosto raro che chi ha l’outsourcing per l’amministrazione del personale possa decidere in un secondo momento di riportare in casa le attività, in quanto si tratterebbe di una decisione controproducente in termini di costi e di energie organizzative». Queste considerazioni non tengono conto del fatto che «vi è sempre una piccola percentuale di aziende che decide per l’insourcing – precisa Silvia Bolzoni – ma questa percentuale, costante nel tempo, è da considerarsi fisiologica e non un particolare trend della situazione attuale». Non solo. «Per quanto riguarda aree più specifiche come il payroll e l’amministrazione del personale in senso stretto – sottolinea  Silvia Bolzoni – un tempo si guardava all’insourcing come a una garanzia per avere i dati sensibili dei propri dipendenti custoditi, sicuri e sempre a portata di mano. In qualità di outsourcer, Zeta Service garantisce una doppia sicurezza, grazie anche all’utilizzo della tecnologia Zucchetti: da una parte, la sicurezza fisica, che assicura una tutela assoluta dei dati presenti nella server farm. Dall’altra, assicuriamo all’azienda cliente la possibilità di accedere in qualsiasi momento e in tutta autonomia ai dati e alle informazioni elaborate al di fuori dell’Ufficio Personale. Grazie a una tecnologia avanzata e a referenti presenti e affidabili, quello che un tempo era considerato il vantaggio dell’insourcing è diventato uno dei punti di forza dell’outsourcing e – insieme a un risparmio sia economico, sia di risorse – costituisce uno dei principali driver di scelta dell’esternalizzazione».

Sulla stessa linea anche un nome storico dell’amministrazione del personale come Inaz (www.inaz.it), che tramite Angelo Croci, consigliere delegato della società, fa notare che «l’esperienza di Inaz, relativa all’ambito delle soluzioni di HR Management, indica che al momento non c’è spinta generalizzata verso un “ritorno a casa” di funzioni precedentemente esternalizzate. Piuttosto, esistono situazioni in cui la gestione “in house” permette reali vantaggi ed economicità, e altri – invece – in cui i processi si prestano a essere esternalizzati, perché non rappresentano un’attività con contenuti di particolare valore aggiunto per l’azienda». Più in dettaglio, «i driver per la scelta fra outsourcing e “in house” non vanno cercati solo nella valutazione dei costi o nella possibilità di utilizzare competenze e risorse già presenti in azienda, ma è importante considerare qual è il proprio modo di lavorare rispetto a certi processi e funzioni. Le attività più esternalizzabili sono quelle più routinarie: per esempio, nel settore in cui Inaz opera, la gestione del payroll e di altre attività accessorie. Al contrario, là dove entrano in gioco la conoscenza diretta della realtà aziendale e la necessità di fare valutazioni strategiche, l’opzione preferita è l’insourcing – oggi – facilitata dalle nuove tecnologie, come – per esempio – le soluzioni cloud o di Software as a Service, oppure, ancora le applicazioni web-based, che permettono di distribuire l’attività fra più utenti finali e che rendono i confini fra outsourcing e in house alquanto sfumati». Per questo, «siamo convinti che, nel nostro ambito di attività, outsourcing e in house siano opzioni che continueranno a coesistere. Inaz offre soluzioni di ogni tipo ed è pronta ad aiutare le aziende a comprendere cosa si adatta meglio alle proprie attività» – conclude Angelo Croci.