Silicon Valley: sempre nuove frontiere

Ultima tranche del reportage su dove va l’IT, dopo aver visitato alcune aziende nel cuore dell’hi-tech made in Usa: sono di scena MarkLogic, SimpliVity, GuardTime, MuleSoft e CloudByte.

TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Accomunate dalla curiosa coincidenza della grafia con maiuscola centrale, le cinque aziende protagoniste di questa puntata conclusiva del nostro viaggio nella Silicon Valley, dimostrano quanto l’innovazione riguardi tutti gli aspetti dell’IT, con una capacità di esplorare nuove frontiere che rappresenta forse il miglior biglietto da visita di un sistema unico al mondo. Che si rinnova continuamente grazie anche al costante apporto di capitali freschi, fornito dai venture capitalist, vera anima e motore del successo incontrastato dell’innovazione made in Usa. Ecco quindi che il cammino ci porta dai database innovativi NoSQL, con Marklogic all’iper-convergenza di SimpliVity, passando per la sicurezza keyless di GuardTime e l’integrazione in salsa cloud proposta da MuleSoft, e infine al software definito dal software di CloudByte.

MarkLogic, dati non strutturati senza segreti

Certamente MarkLogic non è una startup giovanissima, per gli standard cui ci ha abituato da tempo la Valley, visto che è stata fondata nel 2001, e infatti oggi ha oltre 4.000 clienti, di cui oltre 400 di tipo enterprise, e 250 dipendenti, con un fatturato 2012 stimato nell’ordine degli 80 milioni di dollari, che si prevede in raddoppio alla fine del 2013. Va anche detto che il suo specifico campo di azione, quello dei database non-SQL, è in costante ascesa. E la squadra di vertice, dove tuttora siedono il co-fondatore e COO Christopher Lindblad, oltre a David Gorbet, vice president Engineering e Joe Pasqua, senior vice president Product Strategy, vede dal 2012 la presenza, nella carica di President e CEO, di Gary Bloom, un veterano della Silicon Valley con trascorsi in Oracle e soprattutto in Veritas, dove nel 2005 riuscì a metterne a segno la vendita alla cifra record di 13,5 milioni di dollari a Symantec.

MarkLogic si pone con un approccio diverso rispetto ai database tradizionali, ormai poco adatti a gestire le enormi masse di dati in crescita vertiginosa, che riguardano sempre più l’ambito non strutturato, come file voce, video e altri formati diversi dal solito. Non a caso, MarkLogic, il cui prodotto MarkLogic Server ha lo stesso nome dell’azienda, si definisce come “il database di nuova generazione”, quello dell’era “any structure”, cioè l’epoca dei dati senza una particolare struttura. Che segue le altre due ere che hanno segnato la storia della gestione dati: quella gerarchica, targata soprattutto IBM, e perfetta per gestire i dati applicativi, e quella relazionale, di cui il primo campione è stata Oracle, che era ideale per i dati strutturati. Oggi invece l’approccio MarkLogic è indipendente dagli schemi sottostanti, e permette di esaminare quantità impensabili di dati, ma soprattutto di avere risultati in tempi rapidissimi alle ricerche e alle analisi. La soluzione è formata da tre pilastri: oltre alle funzioni di database, MarkLogic Server contiene anche le funzionalità di ricerca e i servizi applicativi, e tutto è caratterizzato dalla massima scalabilità.

Leggi anche:  Epson e Yuima Nakazato promuovono una moda più sostenibile con la stampa a getto d'inchiostro a pigmenti su fibre Spiber

SimpliVity, l’ora dell’iper-convergenza

Fondata nel settembre 2009, SimpliVity ha oggi circa 100 dipendenti, 65 dei quali impiegati nello sviluppo e nell’engineering. La sua sede è nel Massachusetts, ma ne incontriamo i vertici a Menlo Park, nel cuore della Valley, presso la sede di Kleiner, Perkins, Caulfield & Byers, uno dei principali venture capitalist che hanno finanziato la società, mostrando di credere nell’idea di base propugnata dal fondatore Doron Kempel, quella dell’iper-convergenza. Lo scopo è quello di porre fine al numero talvolta eccessivo di fornitori del tipico data center di qualunque azienda, che vede la presenza di diversi dispositivi tra server, storage, networking, WAN optimization, switch e via dicendo. La risposta di SimpliVity a tutto questo è un box unico che contiene tutto, la cui commercializzazione è iniziata proprio quest’anno: chiamato OmniCube, è costruito attorno a un server Dell con 12 core Intel (2×6), una Ram da 48 a 768 GB, storage su disco e su SSD fino a 80 TB, e tutte le funzionalità di scalabilità, virtualizzazione e cloud oggi irrinunciabili. “Insomma, OmniCube ha tutto quello che serve e può essere gestito da una sola persona – sintetizza Kempel -: a parità di prestazioni su tutta la linea, i costi di acquisto, l’occupazione di spazio, i consumi energetici e gli oneri di gestione sono inferiori di tre volte rispetto alle soluzioni tradizionali”. Il costo è infatti stimato nell’ordine dei 50.000 dollari, anche se il vero “street price” non viene reso noto in quanto “noi vendiamo attraverso i VAR e vogliamo che siano sempre contenti”, spiega sornione Kempel. E, a proposito di rivenditori a valore aggiunto, che sono l’unico canale di vendita delle soluzioni SimpliVity, già 12 dei 55 VAR totali sono in Europa, dove l’azienda ha già alcuni clienti, come per esempio la tedesca T-Systems, tanto per fare un nome.

Oltre all’iper-convergenza tra gli elementi del data center, SimpliVity propone anche un Data Virtualization Engine, cioè il motore di virtualizzazione dei dati che svolge le funzioni di replica, deduplica, compressione, ottimizzazione e caching, e infine la soluzione Global VM-centric Unified Management, per supportare la gestione centralizzata e integrarsi con vCenter anche nel cloud.

GuardTime, certezza dei dati senza interventi umani

Il fondatore e attuale CIO, Mike Gault, è irlandese. Il quartier generale è a Tallinn, in Estonia, e gli altri uffici della società sono a Palo Alto in California, Pechino, Tokyo e Singapore. Non c’è dubbio che nonostante abbia poco più di cinque anni, visto che è stata fondata nel 2007, GuardTime abbia una presenza realmente internazionale. Del resto, il business in cui è questa start up, che oggi conta oltre 50 persone, 30 delle quali dedicate allo sviluppo, è quello più che promettente della sicurezza: la società ha infatti inventato una particolare firma elettronica che non dipende da terze parti per verificare l’integrità e l’attribuzione dei dati. Si tratta di una “keyless signature”, cioè di una firma senza chiave crittografica, che consiste in un tag che utilizza metodi matematici formali per certificare la proprietà dei dati elettronici senza ricorrere a chiavi esterne oppure a interventi umani.

Leggi anche:  I vantaggi dell’integrazione per gli edifici intelligenti

Tutto questo è possibile grazie alla Keyless Signature Infrastructure (KSI), una infrastruttura open source, i cui standard sono gestiti dall’organismo indipendente OpenKsi.org, con sede in Estonia, che fa uso di metadati crittografici, consistenti in formule matematiche, che creano una “firma” completamente indipendente sui dati digitali, permettendo di verificarne in ogni momento l’autenticità e anche di tracciarne eventuali alterazioni. Ma non solo: essendo open source e basandosi su un’infrastruttura cloud, la proposta KSI ha costi di gran lunga inferiori ad altre soluzioni, e può addirittura prevedere forme gratuite. È evidente che il business di GuardTime consiste nelle implementazioni effettuate per grandi enti o aziende e soprattutto nella fornitura di servizi di assistenza e di supporto, con potenzialità enormi: se nel 2013 il fatturato è previsto in 5 milioni di dollari, la società prevede di quintuplicare questo valore già alla fine del prossimo anno.

MuleSoft, integrare senza sosta

L’integrazione è invece il mantra di MuleSoft, azienda di San Francisco fondata nel 2003 da Ross Mason, che ne è attualmente il vice president product and strategy. Proprio il lavoro da “mulo” necessario per l’integrazione dei diversi componenti dell’IT aziendale fece sorgere a Mason l’idea di creare una nuova piattaforma di integrazione che fosse facile da sviluppare e flessibile, ma che soprattutto permettesse il riutilizzo dei componenti: così è nata MuleSoft, per permettere agli sviluppatori di assemblare componenti, invece di ripetere continuamente i codici come, appunto, muli. Gratificata immediatamente da un grande successo, la piattaforma MuleSoft ESB, Enterprise Service Bus, si è dimostrata ancora più utile negli ultimissimi anni, che vedono le esigenze di integrazione ancora più necessarie, visto il proliferare di soggetti esterni all’azienda. L’azienda di oggi è sempre più una realtà frammentata: l’integrazione riguarda infatti non solo i diversi sistemi interni come i vari SAP, Oracle o IBM, ma tutto l’universo esterno, formato da piattaforme cloud, fornitori di SaaS, i social media e tutto l’ambito mobile. La soluzione MuleSoft permette infatti di integrare tutti gli endpoint con una piattaforma unica, collegando anche applicazioni SaaS e on-premise di diversi fornitori che altrimenti avrebbero bisogno di un codice specifico per connettersi: “il nostro obiettivo è quello di far comunicare al meglio tra loro tutti questi elementi, per rendere l’azienda sempre più agile e flessibile”, sottolinea Mason. E i numeri gli danno ragione: oggi MuleSoft può vantare oltre 150.000 sviluppatori indipendenti, più di 10.000 applicazioni integrate nel cloud, circa 3.200 aziende clienti, con il 35% delle Fortune 500, e altri 37 milioni di dollari investiti recentemente, che hanno portato il totale a 85 milioni di dollari, con una buona fetta apportata da Salesforce.com, il colosso del CRM nel cloud. È proprio al cloud che guarda la nuova piattaforma MuleSoft CloudHub, presentata a fine giugno 2013 come una soluzione IPaaS (Integration Platform as a Service), disponibile in cinque continenti, dotata di architettura ridondante e altamente resiliente, offre prestazioni ottimali grazie alla latenza ridotta.

Leggi anche:  L’IT è in prima linea quando si parla di sostenibilità, ma mancano strumenti e competenze adeguati

CloudByte, a guardia del software defined storage

Le nuove frontiere del software defined storage, cioè lo storage definito via software in ambito cloud, e della relativa necessità di assicurare livelli di qualità del servizio corrispondenti agli SLA fissati con i provider, sono invece il pane quotidiano di CloudByte, l’ultima, ma non per questo meno importante, a essere citata delle aziende che hanno caratterizzato il nostro viaggio nella Silicon Valley. Fondata nel 2010, e forte di un recente investimento di oltre 6 milioni di dollari da parte di Fidelity Investments, la società opera tra l’India e Silicon Valley. La sua proposta principale è ElastiStor, una soluzione di software defined storage che “offre una Quality of Service garantita sullo storage condiviso nel cloud e performance on demand in base alle specifiche applicazioni nel cloud”, spiega Greg Goelz, nominato CEO dell’azienda proprio in giugno, dopo precedenti esperienze come quella in SanDisk. La soluzione è interamente software, e infatti la società può orgogliosamente proclamare di essere “l’unica azienda nell’ambito storage che non ha hardware”, è viene installata presso il fornitore di servizi di cloud storage oppure nelle infrastrutture delle aziende, e funziona su hardware standard, non solo su disco ma anche flash, operando con tutte le più diffuse piattaforme di cloud e di virtualizzazione come VMware vCenter, Citrix XenCenter, CloudStack o Open Stack. Più in dettaglio, all’interno di un nodo ElastiStor, a ciascuna applicazione viene assegnato un virtual storage controller, che può essere configurato on demand relativamente a parametri quali la capacità, gli IOPS (cioè le operazioni di Input/Output al secondo), il throughput e la latenza. Ma soprattutto, gli amministratori IT possono gestire e monitorare le risorse storage per ciascuna applicazione, indipendentemente da dove si trova, direttamente da una unica console.

Infine, per quanto riguarda i mercati di riferimento di CloudByte, questi sono attualmente due: “in primo luogo, quello dei tradizionali provider di servizi cloud, ai quali può facilitare notevolmente la gestione delle applicazioni con differenti carichi di lavoro nei data center – conclude Satyendra Dhingra, vice president sales per il Nord America -, e, dall’altra parte, anche il mondo delle grandi aziende, che possono trarre vantaggi nella gestione e nel provisioning in ambienti multi-tenant”.